La supercazzola, come definita da Maurizio Ferraris, è una parola o frase senza senso: dunque, o un neologismo o un insieme di parole note unite in modo (almeno apparentemente) incongruo.
Coraggiosamente, ne paragona di diverso livello culturale: da quella di Tognazzi che le ha dato il nome a quella di Joyce a quella di Dante. Diversa in parte è l’intenzione, anche se sempre in qualche modo destabilizzante: Tognazzi provoca, non senza una strizzatina d’occhio a un equivoca allusione vagamente porno; Dante pare voglia alludere a una alienità irriducibile ma non del tutto, poiché le parole “pape” e “satan” sono ovvi riferimenti a parole canoniche e di uso comune; Leporello tenta di confondere l’interlocutore per uscire da una posizione imbarazzante; Joyce, credo, spinge all’estremo la consapevolezza di uno scacco del linguaggio in uso e la ricerca di nuove vie, di una espressione linguistica, per così dire, in statu nascendi.
Onestamente, non so quanto il suo sforzo sia coglibile e apprezzabile e quanto invece noi rispettiamo timorosamente un’opera ostica come Finnegan’s wake, in quanto lavoro di Autore affermatissimo e non criticabile, pena un’autosqualifica.
Qualcuno a dire il vero ha osato tanto, paragonando il suo periodare a quello di un grave schizofrenico. Val la pena mostrare un campione di questa patologia, risalente a oltre 30 anni fa, con le debite modifiche per renderlo completamente irriconoscibile salvandone soltanto i connotati formali, quelli che qui ci interessano:
“Sono stato per 30 anni sotto l’aviazione: ce l’ho attaccata; e’ tutta una musica…37-38 anni che sono con il nome di popolo. Da allora, questa musica fino adesso… Mi hanno negato la centrale; non so se tolgono la chiesa. Non so se sono i vecchi… Un fratello vivo e sano… siamo 7… eh, la macchina, la pomar… perché il maresciallo mi ha messo nella cartiera, nel peso della cartiera, non a lavorare, ma a far girare il tempo…”.
Si intuisce solo qualcosa, e forse arbitrariamente, del messaggio: questa persona coniando il neologismo “pomar” e dicendo “non a lavorare, ma a far girare il tempo”; sembra trasmettere a suo modo il vissuto di una esistenza mancata, privata del suo senso e dei suoi frutti, costretta in un tempo che si avvita su sé stesso, sotto l’imperio di una forza superiore e invincibile.
Il paragone avanzato con Joyce non è da prendere alla leggera: l’analogia, innegabile almeno a un primo livello di lettura, credo però non vada colta per squalificare uno scrittore di grande prestigio, ma al contrario per riqualificare la possibile incoerenza del discorso schizofrenico. Essa nella psichiatria classica veniva ritenuta discendere da una rottura della sequenzialità verbale, parte di quella generale frammentazione della psiche definita appunto come “schizofrenia”.
Oggi forse il raffronto con la “supercazzola” del “sano” fatta di neologismi e di incoerenze può essere un ulteriore tassello del collegamento fra mente del “sano” e quella del paziente mentale grave poiché si tratta comunque, paradossalmente, di cogliere il senso del non senso: di esprimere, magari alludendo, qualcosa di non esprimibile con gli ordinari strumenti. Ciò può avere a che fare con la creazione del linguaggio, secondo le linee tracciate da De Saussure con la distinzione fra “langue”, costruzione collettiva consolidata con il suo vocabolario e le sue strutture sintattico –grammaticali, e “parole”, atto individuale di fonazione ma anche di creazione di vocaboli: “la lingua è necessaria perché la “parole” sia intellegibile e produca i suoi effetti: ma la “parole” è indispensabile perchè la lingua si stabilisca: storicamente, il fatto di parole precede sempre…è la parole che fa evolvere la lingua: sono le impressioni ricavate ascoltando gli altri che modificano le nostre abitudini linguistiche”. Supercazzola, dunque: una “parole” creativa fra le altre.
Tornando alla schizofrenia: ovviamente, averla chiamata in causa non significa ritenere schizofrenico il creatore di supercazzole: per questi si tratta di un gioco, magari molto serio e finalizzato come per Joyce, ma pur sempre di un gioco da cui è possibile uscire in qualunque momento: per lo psicotico grave, purtroppo, no.
Infine: Maurizio Ferraris, autore di un volume sulla c.d. post-verità, fin dal titolo propone un collegamento fra questo concetto e la produzione di supercazzole. Se con post-verità si intende prevaricazione dell’emozione e delle attese sulla informazione e riflessione, una “argomentazione caratterizzata da un forte appello all’emotività che, basandosi su credenze diffuse e non su fatti verificati tende ad essere accettata come veritiera” (Treccani), essa ha certamente ampio spazio nel web così dotato di potere amplificatorio e moltiplicatorio, nonché di capacità di creare una sorta di “universo parallelo”; ma è vecchia quanto il mondo e anzi ha talora ricevuto un crisma teorico.
Non solo Nicita ricorda che ne parlava Demostene (“ciò che un uomo desidera, crede che sia vero”); e che gli inglesi parlano da sempre di “wishful thinking”; ma agli albori del cristianesimo il disincantato scetticismo di Pilato – “cos’è la verità?”- veniva messo radicalmente in crisi da Paolo: “Non ha forse Dio reso pazza la sapienza di questo mondo?…la pazzia di Dio è più saggia degli uomini” (1Corinzi, 1, 25): messaggio carico di coinvolgente passione, che negava ogni cittadinanza alla dimostrazione e alla valutazione razionale: posizione che ha fatto strada, affermandosi fino al “credo quia absurdum”.