La nostra Storia della Psichiatria: III Parte
a cura di Pasquale Pisseri
DA GORIZIA ALLA LEGGE 180.
SI ENTRA NEL VIVO DEL DIBATTITO
Dagli anni ’60 in poi l’istituzione manicomiale entra in crisi un po’ in tutto il mondo, o almeno nell’Occidente. Un solo esempio, quello degli USA, dove dai 559.000 degenti del 1955 si passa a 338.000 nel 1970 e a 107.000 nel 1988. Ma questa massiccia deospedalizzazione, forse guidata più che altro da criteri economicistici, evidentemente non esprime una nuova visione dell’intervento psichiatrico pubblico, poichè non vi corrisponde una adeguata strutturazione del lavoro territoriale: di fatto si verificano penose situazioni di abbandono.
Come tutti sanno, le vicende italiane seguono un percorso particolare. Si apre un periodo in cui l’interesse della collettività per i problemi psichiatrici si fa particolarmente vivo. Si rompe il muro, prima sociopsicologico che materiale, che per secoli aveva fatto del manicomio un mondo a sé, chiuso nell’immutabilità e nel silenzio. Si ricerca un collegamento con il mondo politico e le forze sociali, investiti da un fermento che si spera fecondo: il problema è sentito come proprio, dalla sinistra extraparlamentare, dal movimento studentesco (nel 1969 gli studenti occupano il manicomio di Parma, si attivano collettivi di studenti e volontari), e in qualche misura dal movimento operaio protagonista dell’autunno caldo; pur se Franco Basaglia ritiene che i sindacati siano “giustamente diffidenti” di fronte a una proposta che non nasce dal movimento operaio ma da un gruppo di tecnici e intellettuali di estrazione borghese.
Variegata la reazione del mondo politico: reticente il centro-destra, esitante la sinistra parlamentare.
Il mondo psichiatrico ufficiale, accademico e ospedaliero, in parte si unisce al movimento o lo cavalca, ma in buona parte è sulla difensiva, oppresso dal peso di un passato – presente che l’opinione pubblica (almeno quella sua parte che si fa sentire) ritiene infame e vergognoso. A Genova, a un intervento pubblico di Basaglia e Cooper affluisce un pubblico numeroso ed entusiasta: un collega che prende la parola in termini non “reazionari” ma cautamente riflessivi in seguito se ne vanta: “Ho parlato anche in un contesto in cui chiunque esprimeva un parere contrario veniva linciato” (si fa per dire, ma rende l’idea dell’atmosfera).
Nel 1973 gli psichiatri più attivi nel cambiamento danno vita a “Psichiatria democratica”, che nel Giugno dell’ anno successivo organizza il primo congresso nazionale.
Un particolare stimolo proviene dall’esperienza del settore di cui ho parlato nella precedente puntata. In Italia, essa viene discussa nel Congresso di Psichiatria Sociale di Bologna del 1964, dove Barucci la espone nei dettagli, proponendo reparti di 50 letti per un’area popolata da circa 50.000 unità. A Varese, Balduzzi avvia una esperienza settoriale.
Oggi questa proposta ci appare in parte datata, consistendo soprattutto in una suddivisione e umanizzazione dell’Ospedale Psichiatrico; ma contiene l’importante novità della continuità terapeutica fra “dentro” e “fuori”, e l’attesa di una notevole riduzione dell’internamento: un posto ogni mille abitanti. A titolo di raffronto si può ricordare ad esempio la Liguria che con una popolazione di 2.000.000 abitanti aveva, al culmine dell’era istituzionale, circa 3.600 degenti fra Quarto e Pratozanino: poco meno di due posti ogni mille abitanti.
L’ipotesi del settore viene comunque attaccata da destra e da sinistra. A destra i Direttori di O.P. conservatori non si astengono da facili ironie.
Sul versante opposto, Basaglia intervenendo al convegno di Varese nel ’65, a tre anni dall’inizio dell’esperienza goriziana, riafferma che l’Ospedale Psichiatrico non va riformato ma distrutto (da Goldwurm, Psichiatria e riforma sanitaria, 1979).
Egli col tempo, nella sua complessa integrazione dottrinale fra pensiero fenomenologico – esistenziale e marxismo (equilibrio peraltro proprio anche di pensatori come Sartre), tenderà ad avvicinarsi sempre più ad un’ottica marxista. Da “La istituzione negata”: “La distruzione dell’Ospedale Psichiatrico è un lavoro politico, perché la psichiatria tradizionale, dissolvendosi, ha lasciato psichiatri e pazienti direttamente a confronto con i problemi della violenza societaria”. Ne “La maggioranza deviante” del 1973 situa l’approccio psichiatrico nel più ampio ambito del controllo della devianza, che dalle antiche forme brutali ne ha prese di più morbide e in rapporto con il diverso sviluppo del capitale. Pare allontanarsi dalla sua originaria impostazione fenomenologica: “le cosiddette scienze umane non modificano però l’essenza del fenomeno, ma lo allargano in una indifferenziata e falsa totalizzazione che sembra apparentemente unire gli opposti, senza in realtà affrontare il problema delle loro differenze e dei loro rapporti”. Questa critica sembra investire anche la psicoanalisi: ricordo anche che, in un intervento all’Università di Genova cui ho avuto la fortuna di assistere, un Direttore di O.P. esasperato dalla sua critica a tutte le modalità di cura e allo stesso concetto di terapia psichiatrica allora prevalente, ha esclamato: “ma allora a cosa dobbiamo ricorrere? Forse alla sola psicoanalisi?”. In risposta, egli ha tenuto a precisare di non essere psicoanalista.
Più espliciti gli attacchi dei suoi epigoni riuniti in “Psichiatria democratica”, che riprendono le critiche formulate dalla scuola di Francoforte: la psicoanalisi è ritenuta debole sul piano teorico, avendo voltato le spalle alla dimensione sociale pur presente in opere freudiane come “Il disagio della civiltà” o “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, e avendo rese minoritarie correnti più aperte a tale dimensione, con esponenti come Reich o Fromm. Sul piano operativo poi gli psicoanalisti vengono accusati di tenersi fuori dalle istituzioni, nel loro studio, lontani da casi gravi, in dolce compagnia con ricchi nevrotici (viene in mente l’immagine che della psicoanalisi dà Woody Allen). Alcune figure, come Paolo Tranchina, tengono una posizione che sembra superare questo gap unendo alla formazione analitica (junghiana) e alla stessa professione privata un forte impegno nelle lotte antiistituzionali, esprimendosi fra l’altro nella rivista “Fogli di informazione” diretta insieme ad Agostino Pirella.
Su queste basi, il movimento è critico anche nei confronti del concetto di Comunità terapeutica, pur riconoscendosene in qualche modo debitore: ritiene che esso manchi proprio della dimensione politica, poiché dando per scontata la validità della norma e del concetto di sanità mentale, si differenzia dall’approccio psichiatrico tradizionale più che altro per modalità tecniche più raffinate e rispettose della persona, ma prive della irrinunciabile spinta al cambiamento non solo individuale ma sociopolitico.
Sfumate a questo proposito le posizioni dello stesso mondo politico, fra interesse e diffidenza: nel convegno di Arezzo l’Assessore alla Sanità Benigni ritiene che un marxista possa accogliere il concetto di Comunità Terapeutica ma come ambito di “un processo di verifica che sappia evidenziare e demistificare le funzioni istituzionali e sappia far emergere linee alternative di sviluppo e crescita fra il personale e fra i degenti” (da Goldwurm).
Un altro punto critico è la collocazione della psichiatria rispetto all’ambito medico. Nel convegno di Venezia del 1969, in cui intervengono anche esponenti politici, Giovanni Jervis addita i due rischi opposti insiti in una collocazione solo medica o solo sociale. Ritiene che la via giusta sia l’inserimento in una medicina diversa, meno autoritaria e più basata sull’incontro, cambiamento cui la psichiatria potrebbe contribuire.