Su La Repubblica del 3 maggio, Vittorio Lingiardi riprende “l’ambizioso cri de coeur”, il richiamo di Vivak Murthy, esperto riconosciuto di sanità pubblica e per questo eletto portavoce del governo federale degli Stati Uniti in materia di Sanità. Il tema è la ricaduta della “solitudine” sulla salute mentale dei cittadini americani.
Il problema politico della solitudine è così rilevante che nel 2018 veniva creato per la prima volta, in Inghilterra, il Ministero della solitudine, cui veniva affidato l’incarico di risolvere i problemi sociali legati alla solitudine. Una sottolineatura dell’importanza del problema, con tutte le sue intersezioni nel mondo del lavoro, nella sanità, nell’organizzazione delle risorse assistenziali.
Lingiardi offre una definizione di “solitudine”, termine “ombrello per condizioni emotive e esistenziali variegate e complesse”, quali possono essere la non appartenenza, l’assenza di referenti, il sentirsi inutili, emarginati, alienati, esclusi, e di isolamento, “invisibilità sociale, disoccupazione, emarginazione, perdita di legame, vuoto di cultura”.
Solitudine e isolamento sono due termini che spesso si sovrappongono e che faticano a differenziare il piano soggettivo, personale, psicologico, ma anche corporeo, da quello sociale, esistenziale, culturale.
Per intenderci, il Verdone di Un sacco bello (1980) che affannosamente cerca compagnia per andare in macchina a vivere avventure in Polonia, è isolato, non solo. Diventa pateticamente solo quando sperimenta l’impossibilità di soddisfare il suo bisogno e il vuoto della sua agendina.
Proverei quindi a considerare la solitudine come la condizione che si sperimenta quando, in una situazione di bisogno di cure, si sperimenta la sensazione che la vita è solo nostra, non è condivisa, e che spetta a noi soli affrontare le difficoltà, cercare gli aiuti necessari per salvaguardarla.
Un’esperienza che chi pratica un mestiere di aiuto rischia sperimentare continuamente per sé nell’offrire aiuto, e che riconosce nelle condizioni del curato che si approccia spaventato, timoroso della fragilità che lo espone alla potenza di chi si offre di aiutarlo.
Mi limito a considerare la condizione psicologica individuale della solitudine, e mi discosto dall’approccio di Vivek Murthy che si sofferma sulla ricaduta sociale delle conseguenze della solitudine.
Riprendo per questo tre esperienze che ho fatto in queste settimane.
La prima l’intervista a Mario Marazziti (www.psicoanalisiesociale.it, autore di La grande occasione (Piemme, gennaio 2023) in cui racconta la sua esperienza sui corridoi umanitari. Marazziti, aggiornato sui dati approfonditi da Vivek Murthy sulla solitudine e ripresi da Lingiardi, valorizza gli inserimenti di famiglie di migranti in piccole comunità destinate all’estinzione perché abitate solo da anziani.
La denatalità e la lontananza dei giovani a loro volta emigrati in città, se non all’estero, alla ricerca di stimoli sociali e culturali e di successo economico, sono alla base della solitudine di chi resta. La solitudine è quello che si prova nell’osservare la fine del proprio mondo per estinzione degli abitanti, per la mancanza della possibilità di trasmettere il proprio mondo a nuove generazioni, per il contemporaneo progressivo allontanamento dei servizi di base e dei centri di aggregazione sociale.
La seconda è la fortunata esperienza di ricovero e cura per un intervento, la cataratta, sia pur più di manutenzione che di cura. La condivisione con parenti e amici dell’evento, e la conoscenza dell’équipe curante, mi hanno reso condivisa la mia solitudine di fronte al problema.
Il sostegno che ho avvertito è stato di grande importanza e vitalità. Ho potuto ripensare a quanto osservavo da curante: la vertigine che avvertivo nei pazienti che uscivano dal SPDC da soli, l’insistenza nell’avere regole nell’assunzione dei farmaci da parte dei pazienti ambulatoriali, il dolore nel non potere più dialogare con i propri familiari morti nel Gruppi di Psicoanalisi Multifamiliare, la puntualità a partecipare alle visite di controllo pur in assenza di elementi clinici nuovi.
La terza è stata la possibilità di condividere il percorso, durato tre mesi, che ha portato alla morte di un familiare. In tutti i passaggi importanti della vita la condivisione è certamente utile per sostenere il peso dell’andare avanti, per facilitare il passaggio, per dividere il prima dal dopo, per separarsi: ripenso alla maturità, al matrimonio, alla sala parto, al pensionamento.
La morte è evento per definizione di “solitudine”, non solo per chi muore, ma anche per chi sopravvive e comincia ad avvertire la perdita, l’assenza della persona cara. Per il morente, la morte ha connotati diversi se accompagnata da chi può ricordare, ricevere valori, testimoniare.
Così per chi perde qualcuno, vedere il proprio dolore negli occhi degli altri rende il dolore riconoscibile, umano, tollerabile. Sappiamo il valore sociale e culturale delle giornate del ricordo, così come quello, più personale, della celebrazione dei funerali e degli anniversari. Si tratta di momenti e luoghi nei quali gli assenti, familiari, maestri, tornano ad essere presenti. Il vuoto del lutto viene ricolmato dai ricordi, dai racconti; è condiviso.
La solitudine del sopravvissuto si attenua, l’assenza resta sospesa nella rievocazione, nella comune rivitalizzazione del ricordato.