Commento alla notizia Askanews del 12 maggio 2016
Si parla di fatica cronica con stancabilità, turbe della memoria e della concentrazione, cefalea e altri dolori di varia localizzazione: si punta a definirla come entità nosografica specifica, sulla quale si è costituito fin dal 1994 un gruppo di studio nonché una Associazione malati di CFS (credo Chronic Fatigue Syndrome); la giornata mondiale da essa organizzata ha dato occasione al presente articoletto.
Sinceramente, non riesco a vedere una grossa differenza fra questa sindrome e la Nevrastenia di Beard, descritta da questo psichiatra statunitense già nel 19° secolo: astenia, faticabilità, dolori diffusi, turbe della cenestesi e timori ipocondriaci. Tale sindrome aveva attirato l’attenzione di Janet e anche di Freud, che l’aveva inserita nelle cosiddette “neurosi attuali”, distinte dalle psiconevrosi ; poi era un po’ caduta nel dimenticatoio. Tuttavia può esser divertente notare che rimane ben radicata nella cultura popolare con la denominazione di “esaurimento nervoso”, in cui in qualche modo sopravvive l’antica teoria eziopatogenetica di Beard: questa malattia, e non solo questa, nascerebbe da un esaurirsi di quel patrimonio di energia psicofisica di cui ognuno di noi è dotato ma che può rivelarsi insufficiente a sostenere le sfide della vita.
Penso che nella categorizzazione attualmente messa a punto dal DSM – si tratta, ricordiamolo sempre, di una tipologia più che di una vera nosografia – i pazienti definiti un tempo nevrastenici siano stati collocati in parte nell’ambito del disturbo distimico e in parte in quello del disturbo somatoforme indifferenziato, di cui l’astenia costituisce un aspetto essenziale insieme a vaghi disturbi ipocondriaci.
Dunque mi pare che nel parlare di fatica cronica non scopriamo cose nuove, ma rimaneggiamo ancora una volta il patrimonio di dati clinici di cui disponiamo, a volte anche recuperando categorie del passato. Ciò è del tutto legittimo, a patto che se ne sia consapevoli.
Ma qual è la classificazione “giusta” e “vera”? Si riapre così un problema ben più ampio: il significato della c.d. nosografia psichiatrica e del suo senso. Quando facciamo una diagnosi riteniamo di cogliere una verità fattuale oppure fruiamo di una casella messa a punto perché utile a orientare l’intervento terapeutico e gestionale? I filosofi pragmatisti alla John Dewey non avrebbero avuto problemi: sarebbe vero, per definizione, ciò che è pragmaticamente efficace, e all’uomo si attaglierebbe meglio la definizione di “faber” piuttosto che di “sapiens”. Ma aderire a questa visione senza avvertirne i limiti ci porterebbe lontano, e non sempre a mete augurabili: non ultima, il totale o quasi asservimento del sapere al risultato produttivo, perfino nel campo della educazione.
Ma non divaghiamo, torniamo al tema. Naturalmente, nel parlare di fatica cronica sono interessanti i riferimenti ai dati di ordine somatico che sempre possono corroborare una categoria fondata sul dato psicologico: in questo caso, la possibile correlazione con la genetica che ci ricorda la componente di familiarità presente precisamente sia nel disturbo distimico che nel disturbo somatoforme.
Quanto agli asseriti benefici con terapie non psicofarmacologiche di vario tipo, sono da verificare; ma potrebbero a loro volta suggerire una somatogenesi almeno parziale del disturbo. Non stupisce il segnalato effetto del cortisone, di cui è nota l’azione euforizzante non esente da controindicazioni; in ogni caso, esso richiama alla mente il complesso tema dei collegamenti fra lo stato mentale, in particolare per quanto riguarda l’umore, e l’attività del sistema endocrino.
Se la categoria CFS si rivela funzionale, ben venga, e ancor meglio se consentisse la definizione di una vera e propria malattia nel senso pieno del termine; ciò che al momento non mi pare sia accaduto.