Estate 2022: temperature tropicali, interno giorno, struttura residenziale psichiatrica. Martina ha bisogno di stare in stanza. Quando capitano giornate così, cariche di umori cattivi e pensieri ancora peggiori, il letto diventa un rifugio da non abbandonare per nessun motivo. L’esperienza insegna: qualche ora di esilio volontario potrà restituirle la forza di affrontare il mondo.
Ma oggi c’è un problema in più. Fa caldo davvero. Non basta il ventilatore (in comunità non c’è l’aria condizionata). Bisognerebbe spalancare le finestre e provare a fare un po’ di corrente. Ma non si può. Ragioni di sicurezza. La commissione di vigilanza dell’Asl è stata perentoria: la stanza dà sul giardino al secondo piano, il paziente non può essere lasciato libero di aprirla. Al massimo si può concedere un’apertura parziale superiore (a wasistas), da cui non passerà molta aria, ma che è molto più rinfrancante per gli operatori e per la loro “posizione di garanzia”. Ah, naturalmente gli operatori hanno in consegna la chiave che consente di sbloccare l’infisso per intero. Una delle tante chiavi, di un mazzo che portano sempre al collo, perché è così pesante e voluminoso da sfondare le tasche.
Martina è abituata e nemmeno protesta. Ma oggi la coordinatrice ha deciso di esercitare la sua responsabilità in modo diverso e quella finestra, alla fine, viene aperta come si deve: quando è troppo è troppo!
Non è improbabile che anche Martina abbia percepito la portata rivoluzionaria di quel gesto. Lasciare aperta la finestra di una struttura residenziale, nell’estate del 2022, è tornato ad essere un atto ricco di implicazioni pratiche e simboliche
Del resto gli infissi sono sempre stati importanti in psichiatria. Mezzo secolo fa l’abbattimento delle sbarre alle finestre nei reparti dei manicomi segnò uno svolta storica. Nei luoghi di avanguardia della lotta contro le istituzioni totali non di rado la caduta delle inferriate fu organizzata in modo cerimoniale, in un clima di festa, insieme al rogo delle cinghie di contenzione e delle camicie di forza, per segnare un passaggio d’epoca che si immaginava irreversibile.
E invece siamo di nuovo qui, a farci insegnare dagli psico-burocrati delle commissioni di vigilanza che cosa garantisce l’incolumità dei nostri pazienti (e soprattutto la tranquillità nostra e dei servizi invianti). Non ci sono solo le finestre. Prendiamo gli armadi delle stanze e altri arredi voluminosi. C’è una norma che impone di tassellarli ai muri per ragioni di sicurezza? No, a meno che non siano a rischio di caderci in testa, per ragioni di stabilità strutturale. Ma non sempre alle vigilanze basta l’applicazione delle norme. Quando si tratta degli “psichiatrici” la prudenza non è mai troppa. E se a un paziente saltasse in testa di spostare l’armadio davanti alla porta per barricarsi in stanza? Non si sa mai…
Non è detto che sia saggio da parte nostra replicare che, se è per questo, il matto potrebbe usare i comodini i tavoli e le sedie come armi improprie; che facciamo, si imbullona tutto al pavimento? Quando l’ho detto al funzionario addetto, con tono che mi pareva sarcastico, lui ha avuto come un’illuminazione (“In effetti”) e stava per scriverlo sul verbale. Non ho avuto cuore di ricordargli che nella struttura che stava vigilando i pazienti hanno le chiavi di casa. E se al matto venisse l’idea di chiuderci tutti dentro?
Il problema è che un “e se?” burocratico tira l’altro. E, in un baleno, le nostre strutture riabilitative si trasformano, nella migliore delle ipotesi, in ospedali in miniatura (a proposito: avremo mai il coraggio di ricordare alle Asl che la residenzialità psichiatrica non è ospedaliera e quindi non previene i suicidi come gli ospedali? E quindi non deve applicare le linee guida ospedaliere?); nella peggiore delle ipotesi in fortini presidiati da cancelli di sicurezza, telecamere di sorveglianza, nerboruti “body guards” interni (esistono già, giuro, li ho visti all’opera..).
Ogni irragionevole prescrizione neo-manicomiale a cui ci pieghiamo per stanchezza, per non lottare contro i mulini a vento, per non avere casini, ci si ritorcerà contro. Non solo perché ogni tassello e bullone messo dove non serve, ogni porta irragionevolmente serrata, ogni chiave in più nelle nostre tasche, depotenzia il lavoro di psicoterapia residenziale. Ma anche perché amplia pericolosamente il perimetro delle responsabilità improprie che ci auto-attribuiamo (di controllo anziché di supporto, di sorveglianza anziché di presenza). Responsabilità a cui verremo anche noi inchiodati, prima o poi, se qualcosa andrà storto.
Eh si proprio così! Di questo però possiamo solo ringraziare la nostra categoria! Questione di controllo? Questione di potere? Forse tutte e due, ma sicuramente non di responsabilità
Tempo fa un Amministratore di una Asl mi chiamò per sapere perché la Direttrice del Dipartimento di Salute Mentale gli aveva chiesto di assicurare al pavimento i tavoli e al muro gli armadi di una struttura dedicata alla cura di persone con gravi problemi psichiatrici di tipo comportamentale.
Era una telefonata che rappresentava lo stupore di una persona normale e umanamente corretta.
Lo faceva perché non sapeva dei mostri che albergano negli psichiatri e che si esprimono con considerazioni che richiamano al vetero stile istituzionale carcerario piuttosto che al moderno sistema di cura relazionale.
Il che non vuol dire negare la realtà e sottovalutare i rischi; tutt’altro.
Significa solo affrontarli con competenza, comprensione e condivisione.
Non ritengo che sia utile esasperare i toni, ma indispensabile sottolineare i rischi di scorciatoie avvallate da pseudo competenze specialistiche.