Commento all’articolo di Massimo Recalcati apparso su La Repubblica il 29 maggio 2016
Ricordare questo testo ci riporta a un momento faticoso ma esaltante della nostra vita professionale: insieme a quelli di Goffman, Basaglia, Hollingshead e Redlich e tanti altri ci ha dato il background per il cambiamento che abbiamo vissuto e stiamo vivendo, forse non pari alle attese ma reale.
Foucault ha parlato di storia della follia come storia dei limiti, di esperienze apparentemente marginali ma pure fondamentali, della follia come necessaria delimitazione della ragione, forse in particolare di quella scientifica (in ciò si potrebbe ritrovare un ricordo hegeliano del rapporto fra tesi e antitesi). Per lui, il discorso sulla follia è stato un elemento di più ampie successive riflessioni sui meccanismi del potere e della esclusione, sulla metodologia del pensiero storico, sulla logica della conoscenza.
Inevitabilmente, non è andato esente da critiche: fra l’altro, per aver dato un qualche carattere di universalità a un certo tipo di nascita delle istituzioni prepsichiatriche, mentre quella cui egli si riferisce è stata invece una vicenda fondamentalmente francese e anzi parigina: qualcuno un po’ maligno (non so più chi) ha detto che pensava di dominare un regno, mentre il suo non era che un “principato luteziano”. Di fatto, non mancano esperienze storiche diverse: la prima che viene in mente è quella inglese dove l’internamento è stato meno teorizzato e meno sistematico, conformemente all’empirismo che caratterizzava quel modo di pensare a livello filosofico ma anche di quotidianità. Quindi è – fra parentesi – non un caso che in quella nazione si siano nel tempo sviluppati modelli alternativi alla grande istituzione, come la comunità terapeutica e le esperienze che l’hanno preannunziata: Tuke, Conolly, open door.
Foucault è stato anche parzialmente frainteso: alcuni hanno dimenticato che il titolo dell’opera non è “storia della follia” tout court bensì il più limitativo “storia della follia nell’età classica”. Ricordo l’estrema valorizzazione della dimensione storica attuata da autori come Dorner, che ne “Il borghese e il folle” definiva queste due figure come nate allo stesso parto. Ma tali estremizzazioni erano forse necessarie, come lo sono in ogni rivoluzione.
E’ certamente vero che il rapporto fra ragione e follia si ridefinisce nel diciassettesimo secolo nel senso di una più rigida contrapposizione escludente. Ma il problema lo imposta già Eraclito: “Bisogna che si segua solo ciò che è universale, cioè comune a tutti; e solo la ragione è comune; ma i più vivono come se ciascuno avesse una sua mente privata”; e ancora annota come da svegli condividiamo le esperienze comuni, ma in sogno ognuno ha la propria. Egli non parla esplicitamente di follia, ma pone il problema – strettamente connesso e fondamentale – del rapporto fra esperienza individuale e consensualità. E’ vero che per Platone la follia poteva essere anche una forma di purificazione, un dono profetico, ma è anche vero che questa posizione non doveva essere molto condivisa se quale terapia si suggeriva l’elleboro, pianta notoriamente velenosa; se il paziente sopravviveva, probabilmente si calmava perché estenuato (violenta terapia neurolettica ante litteram?), e magari poi ragionava meglio. Anche Cervantes del resto dice che un malessere somatico grave può far recuperare la ragione, e ciò non è contraddetto dalla nostra esperienza.
Superfluo ricordare i roghi delle streghe; è certo comunque che il problema della follia, l’angoscia connessa e il relativo approccio violento non erano aspetti assenti nel mondo antico e in quello medioevale.
Cosa è cambiato oggi? Sarebbe evidentemente superficiale attribuire il cambiamento solo all’opera di alcuni audaci pensatori. Se vogliamo dare una lettura marxiana, possiamo dire che sul piano strutturale il nostro approccio è divenuto più morbido ed elastico non solo nei confronti della follia ma in generale, perché la durezza caratteristica della accumulazione primitiva, quando all’infamia manicomiale si affiancava quella degli slums, ha ceduto il passo ad approcci più solidaristici, più tolleranti, meno esigenti nei confronti del singolo; perché nelle risorse attualmente disponibili c’è un “plus” che lo consente. Inoltre, le esigenze produttive sono più variegate e aperte anche ad approcci personali atipici: basta pensare al mondo della moda e a quello dello spettacolo.
Quanto al piano sovrastrutturale, oggi la ragione ha sviluppato una serie di indirizzi più articolati e flessibili – fenomenologia, psicanalisi, teorie della complessità – che la rendono più attrezzata ad occuparsi di quell’area oscura che comunque continua ad essere la nostra dimensione folle.
La pazza gioia di Virzì film commedia uscito da poco nei cinema.
Non volevo andare a vederlo.
Penso invece che ci andrò soprattutto dopo aver visionato i trailer .
Mi pare potrebbe svelare la falsità e l’ipocrisia di un certo modo di far lo psichiatra.
Vi sapró dire.
G