Vaso di Pandora

Di che razza sei

L’infame razzismo rende difficile parlare serenamente di razza. Ma è legittimo interrogarsi sul concetto: i pareri sono discordi.
Per il grande genetista Cavalli Sforza, alle differenze somatiche evidentemente esistenti fra vari gruppi etnici non corrisponde una differenziazione genetica scientificamente dimostrabile, e quindi lo stesso concetto di razza è da superare e respingere. Lasciamo da parte, è evidente, le eventuali differenze psicologiche – intellettive o emotive – frutto di un indecifrabile intreccio fra fattori biologici e sociali.

Dal canto suo Odifreddi, non specialista del campo ma mente acuta, fa notare che negare il concetto di razza incrinerebbe la teoria dell’evoluzione: se la speciazione (ominazione inclusa) nasce da differenze casualmente insorte nella specie preesistente, differenze che poi si mantengono selettivamente e prevalgono perché più funzionali, è difficile pensare che tale speciazione non sia preceduta da una fase intermedia, in cui il nuovo gruppo è ancora vicino al preesistente e con esso incrociabile: possiamo chiamarlo razza o come vogliamo.

E’ certo che comunque le diverse tipologie di umanità sono realtà labili, destinate a sfumarsi grazie agli incroci che qualcuno cerca di ostacolare in nome di una – fra patetica e feroce – “difesa della razza”.

Le differenze si mantengono e possono accentuarsi se di fatto gli incroci vengono ostacolati o impediti. Per gli animali domestici, ciò è opera dell’uomo: seleziona così volutamente razze dalle diverse caratteristiche, più un residuo meno differenziato che denomina spregiativamente “bastardo”. Questo è già razzismo: gli animali “di razza” non sono affatto biologicamente superiori, anche se costosi: le varie tipologie hanno semplicemente sviluppato specifici caratteri utili all’uomo padrone: la corsa veloce piuttosto che la forza piuttosto che la docilità piuttosto che la resistenza piuttosto che la bellezza…

Per gli uomini, fondamentalmente questa funzione è stata svolta dall’isolamento geografico, che ha progressivamente accentuato i caratteri differenziali di chi abitava l’Africa profonda, chi l’Australia, chi le Americhe, chi l’Estremo oriente.

Quando ci si è ri-incontrati, è stata forte la tentazione di attribuire a popolazioni con diversi caratteri somatici e diversi costumi forme varie di inferiorità, con quel meccanismo proiettivo cui tanto ricorriamo difensivamente: “io, il “bianco” non sono selvaggio come gli africani e gli indoamericani, né insidioso come i cinesi, né superstizioso come gli indiani che adorano le mucche! Ho il diritto di sottometterli, di usarli come mi pare e, se è il caso, di ucciderli.” I conti quadrano, almeno finchè gli equilibri di forza non cambiano.

L’Europa dell’800, al culmine della sua potenza mondiale, ha tentato una elaborazione teorica di questo atteggiamento, col suo culmine nell’opera di Gobineau, autore di un’opera sulla pretesa fondamentale disuguaglianza delle razze umane, e relativa graduatoria di valori che vedeva al culmine la razza “bianca”, o “europea” o “caucasica”: termine che, un secolo dopo o quasi, il nazismo ha preferito soppiantare con quello di “ariana”. In ogni caso, si ritemeva necessario difendere con tutti i mezzi tale superiorità antropologica, che “doveva” continuare a tradursi in supremazia economica, politica, militare.

Non che la visione europea fosse così monocorde: basta ricordare Conrad (tuttavia proveniente dalla periferia dell’Europa). In “Cuore di tenebra” esprime la complessità dei vissuti di fronte all’altro diverso: turbamento; fascinazione; l’effetto perturbante che nasce – insegna Freud – dal sovrapporsi di ciò che è alieno a ciò che è nostro; la compassione; la colpa. E narra infine il bisogno – tipico della società vittoriana ma a noi non estraneo – di fare quadrare i conti anche ipocritamente: l’ultima parola del co-protagonista è “orrore”, ma alla sua compagna questa parola viene risparmiata dal protagonista, che ricorre con successo a un sentimentalismo d’accatto: “l’ultima parola sua fu …il suo nome”. Tutto va a posto.

Il meccanismo proiettivo semplificatorio continua oggi ad essere quel che è divenuto storicamente: un comodo alibi per le guerre e/o per la sottomissione e sfruttamento, giunti fino alla riduzione in schiavitù presente ancora in età moderna. C’è da dire infatti che per greci e romani, società francamente schiaviste, la condizione di schiavo era un incidente: vi si passava facilmente da quella di prigioniero di guerra. La sua era una inferiorità giuridica, non necessariamente antropologica. Lo schiavo poteva assumere posizioni sociali di rilievo quando liberato (liberto), e perfino ancora da schiavo: come i gladiatori, in qualche modo paragonabili ai nostri calciatori e non raramente, a quanto si dice, appetibili da ricche matrone.

Nel mondo cristiano molto è cambiato: illecito (almeno formalmente) rendere un essere umano proprietà di un altro: lecito invece , e a lungo, fare ciò di un non – uomo. L’incontro con persone molto ben distinguibili somaticamente e per eredità culturali ha offerto una ghiotta opportunità per impadronirsene: e l’esigenza di sentirsi la coscienza – per modo di dire – a posto, rafforzava la comoda fantasia di una radicale differenza e inferiorità. Da qui il lungo sopravvivere dello schiavismo, con i neri come oggetti, fino all’800.

Molto diverso il razzismo riguardante gli ebrei, ritenuti tutt’altro che stupidi ma eticamente inferiori in modo irredimibile: vili e menzogneri sfruttatori dell’onesto lavoro dei cristiani; artefici di complotti volti al dominio del mondo. Se i neri potevano essere utili come mano d’opera servile, e l’eventuale necessità di ucciderli comportava un danno economico da evitare se possibile, con l’ebreo erano doverosi periodici interventi repressivi anche mortali: ripetuti pogrom fino alla soluzione finale. La strumentale accusa di deicidio ignorava che, secondo i Vangeli, la decisione finale sulla crocifissione era stata presa dal governatore romano, e che lo stesso Cristo era un ebreo, rimasto tale fino all’ultimo.


Ma il razzismo è per sua natura a-razionale.
Non farebbe male a noi psichiatri ricordare che una componente razzistica si è insinuata anche nella nostra dottrina, che ha a lungo sottolineato e ricercato, nei nostri pazienti, più ciò che li divide piuttosto che ciò che li unisce alla comune umanità.

Ma qui si apre un altro discorso…

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Commenti su "Di che razza sei"

  1. Grazie davvero.
    Sintetico, chiaro e convincente, l’analisi di Lino ci pone davanti al problema fondamentale nella nostra disciplina dell’esclusione, dell’alienazione sino alla distruzione del diverso, dell’estraneo, del difficile da comprendere per cui diventa utile arroccarsi su posizioni acritiche in difesa di presunte superiorità per nascondere gravi angosce di impotenza.
    Ora, nel 2023, potremmo fare i conti con la globalizzazione, la circolazione di informazioni e la disponibilità di esse dovrebbe permetterci di migliorare la coscienza dei limiti che ci caratterizzano e della necessità di trovare nella comunione un momento che ci unisce e che riconosce a ciascuno/a le proprie caratteristiche al fine di affrontare appieno il problema della conservazione della specie.
    Ecco, penso che questo sia un punto centrale in un mondo in rapido cambiamento di usi e costumi.
    Questi vorrei fosse un tema di riflessione per il trentesimo anniversario del VdP che ricordo festeggeremo insieme nella giornata del 13 Maggio a Varazze!

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