Si succedono con inquietante frequenza episodi di aggressioni anche cruente fra ragazzi e pure ragazze. In un cinema di Casoria un ragazzo è stato accoltellato da coetanei. A Bari un gruppo di ragazzi (“amici”?) hanno legato e buttato in mare un diciannovenne, con intenzioni non chiare ma certo con rischio mortale. A Ferentino una banale lite è finita con una coltellata all’addome. A Paderno un ragazzo ha sterminato la famiglia. A Reggio Calabria una rissa fra due quindicenni è culminata in una coltellata; analogo episodio a Pompei fra due quindicenni. Perfino una dodicenne avrebbe accoltellato un compagno perché “aveva fatto la spia”. Roba che ai miei tempi (!) si sarebbe risolta con una banale litigata. E fermiamoci qui.
I motivi di queste aggressioni
Sarebbe comunque avventato pretendere di capire le motivazioni e i meccanismi mentali in gioco durante le aggressioni, certo non uguali per tutte queste situazioni. Ma qualcosa che può in qualche modo orientarci è il comportamento di due uccisori, appena più grandi di età, di due ragazze: Giulia e Sara. Entrambi sono apparsi incapaci di parlare (non parliamo di spiegare) di quanto hanno commesso: possiamo ravvisarvi una sorta di alexitimia.
Ci può soccorrere un ripensare Bion: la frustrazione (che qui può andare dalla disperazione per l’abbandono fino alla rabbia per un banale dispetto) può costituire un utile momento di costruzione del pensiero o, al contrario, una spinta all’espulsione del motivo di frustrazione: espulsione perfino fisica, omicidio.
E penso giochi un ruolo la “perdita del padre” da tempo ravvisata, la perdita di una figura non repressiva ma capace di offrire una cornice di stabilità che non esclude affatto l’evolutività: dinamica fondamentale nella adolescenza e post-adolescenza.
Il contesto in cui viviamo ci influenza
Ma credo che, più che chiederci “che fare con questi ragazzi?” dovremmo impostare il problema in contesti più ampi. Se, come pare, questi eventi divengono oggi più frequenti, è necessario riconoscervi una dimensione storica, relativa alla particolare situazione che stiamo vivendo. Siamo circondati da guerre, e a un passo dall’esservi coinvolti direttamente; ciò, nel quadro di un ristrutturarsi degli equilibri di potere mondiali. Del resto, forse la guerra potrebbe esser vista anche come momento di espulsione dell’altro e collettiva paralisi del pensiero. L’Africa, fuori da questi giochi di potere, ci pone però di fronte al conflitto fra dovere di solidarietà e voglia di conservare il nostro privilegiato benessere. E la rabbia cresce ovunque. I toni della campagna elettorale USA raggiungono toni di violenza inusitata. È recente la quasi rivolta in reazione al disastro che ha colpito la Spagna.
È difficile che i ragazzi non avvertano tutto ciò, e che i più fragili fra loro non siano indotti a privilegiare la dimensione di Thanatos. In fondo, ciò si rileva in un altro fenomeno pur molto meno violento: la rinuncia alla paternità e maternità. Non è rara la risposta “in questo tipo di mondo, non vale la pena”.
Difficile offrire risposte credibili a un “che fare?”