Roberta Antonello mi ha inviato questo scritto di una componente della Associazione Prato. Ritengo rappresenti un valore unico in quanto esprime uno stato d’animo esasperato così come lo sono, spesso ed inevitabilmente, quelli di molti nostri pazienti, soprattutto gli ospiti della Rems Villa Caterina.
Con questa esistenza ci dobbiamo confrontare e non scontrare, come cercano di fare i vicini di casa della Rems, aiutati da improvvidi giornalisti di periferia .
Dobbiamo imparare dalle esasperazioni per ricondurle alla cosiddetta normalità che però preferisco chiamare convivenza possibile.
Il crinale tra follia e salute mentale è spesso molto sottile ed è quindi utile non escludere, ma includere attraverso un attento ascolto che questo scritto ci induce a fare.
Giovanni Giusto
Conosco la rabbia, quella pura, quella travolgente, quella sottile, quella che squassa, che divora, che uccide. Sono stata arrabbiata per quasi tutta la vita, ho desiderato uccidere per rabbia, danneggiare, rovinare. Ed ho quasi sempre danneggiato e rovinato la mia vita.
Forse, a vedermi ora, non si direbbe, effettivamente c’è stato un cambiamento in me: l’avere trovato un “posto”, uno spazio di vita, una quasi famiglia per la pima volta in molti anni, mi ha placato in parte, mi ha permesso di fare pace con il mio passato rabbioso e immensamente doloroso, mi ha offerto un terreno fertile ove germogliare e crescere.
Peccato che tutto ciò sia avvenuto una decina di anni fa e non da giovane. Allora morivo di rabbia. Ero completamente sola, l’unica compagna era l’eroina. Ma ho smesso con le sostanze nel 1998 e cosa è successo tra quella data e l’incontro con la mia “famiglia” Prato?
Ancora solitudine nel grandioso progetto di tornare ad essere madre dei miei figli, solitudine, nessun aiuto significativo. E allora ancora rabbia e impotenza, una rabbia con le mani legate. Io mi guardavo attorno e vedevo giudici, cercavo una mano e, all’interno della mia famiglia, non c’era nessuna forma di sostegno.
Mi spiace parlare di mia madre, fu in gran parte colpa sua se il progetto naufragò: incapace di capire, avvolta nel suo dolore negato, sempre in moto per non essere costretta a pensare e a ripensarsi, non aveva spazio per me come non ne aveva avuto per mia sorella morta di un’AIDS mai dichiarata e vissuta in silenzio. La mia rabbia e il mio dolore crescevano.
I soprusi vissuti, le violenze subite hanno plasmato il mio manifestarmi per molto tempo: non c’era spazio in me per l’altro, non c’era gioia né vitalità. Solo nascondermi e celare l’estrema rabbia che nasceva dalle ingiustizie subite per riuscire poi a fargliela pagare. Questi sono stati i miei sentimenti per molti anni, compiere gesti eclatanti di nascosto per sfogare la rabbia e il disprezzo, la rabbia e l’orrore, la rabbia e la perdita.
Ora sono in pace, e quassi non mi sembra vero mentre lo scrivo. Ho perso. Ho giocato il grande gioco della vita, la maternità, e ho perso. Due di miei tre figli non vogliono avere a che fare con me, non ho più nemmeno i loro numeri telefonici, il più grande mi risponde ogni tanto con un vocale ed io lo ascolto e lo riascolto, e rispondo con cura e attenzione per non danneggiare questo nostro delicatissimo rapporto. Però sono in pace perché accetto la vita per quello che è.
Ho cominciato a vivere molto tardi, ma non si torna indietro, quindi vado avanti e mi capita anche di avere delle soddisfazioni come, ad esempio, scrivere su questo giornale ed avere qualche amico. La mia vita scorre inevitabilmente verso la fine e il mio cruccio più grave riguarda a chi lascerò i miei amati libri e un paio di quadri. La vita aiuta perché alcune cose feroci non le ricordo più bene, ne ho la sensazione, ma non una precisa memoria, serve a salvarsi il dimenticare altrimenti sarei quasi certamente schiacciata da molti più sensi di colpa di quelli che invece vivo.
Era dilavante la mia rabbia, come un fiume di lava che scorreva e tutto ciò che sfiorava bruciava, ma proprio non so fare esempi o meglio non posso fare esempi. Forse uno. Sono stata a un passo dall’uccidere, questo lo ricordo, e l’occasione fu sì di difesa, ma soprattutto fu orribile. Allontanai le mani da quel corpo, spaventata, ma non basta; è un ricordo terribile.
Storie di piazza, storie di roba, storie di insania, di follia. Eppure no, non ero pazza, ma folle era il mio atteggiamento verso l’intero mondo: una spaventosa carica distruttiva e autodistruttiva.
Grazie veramente.
Grazie per essere riuscita a dare le parole alla rabbia che ti ha accompagnata per mezza vita.
Hai avuto la fortuna di trovare chi ti ha ascoltato ed accolto senza giudicarti.
Hai la fortuna di avere libri da lasciare a qualcuno.
Questa rabbia la sento urlare tutti i giorni,la vedo agire alla ricerca di parole che le diano forma.
Noi sedicenti terapeuti dell’Abisso esistenziale incassiamo l’indicibile e cerchiamo di restituire parole agli atti di disperazione.
Sapere che è possibile fare i conti con la propria bestialità mi conforta molto.
Ho fatto una domanda ad Angelo Massaro, 21 anni in carcere, ingiustamente accusato di omicidio: cosa ti ha salvato dalla follia?
Mi ha detto, la ribellione, la rabbia, lo sport e lo studio.
Volevo condividere con Emilia, una esistenza durissima, ma che si può vedere e sentire, per questo, forse, non più distruttiva e distrutta.
Già, la Rabbia: dimensione umana, anche se spesso latente. Appare anche nel “non violento”, che però lo diventa sentendosi giustificato perchè risponde alla violenza altrui, perfino se presunta. Lo si vede in certi prodotti TV, dal poliziesco al western, che ci offrono l’invariabile schema del conflitto scatenato dal rabbioso “cattivo”: represso e sconfitto questi, cacciato Calibano, il tele-dramma ci mostra come tutto -finalmente! – torni alla pace e serenità.
L’aspetto più tragico è quello della guerra, a quanto pare non eliminabile dai nostri costumi. Al di là delle possibili necessità di autodifesa, c’è da chiedersi come mai le grandi masse vi partecipino attivamente, a volte volentieri, pur avendo solo da perderci.
Impera in tutto ciò il bioniano assunto di base “attacco e fuga”. Esso ha a lungo operato, su ben diversa scala, anche nel nostro rapporto con il paziente mentale, obbiettivamente “rabbioso” o sentito come tale in quanto ci rappresenta una minaccia a un rassicurante equilibrio. Ne è nata la risposta sadica incarnata nei manicomi.
Terapia è in primo luogo superare questa risposta a corto circuito e lasciare spazio al pensiero.
Emilia, un prete mi disse:” Non importa se la vita va male o bene, alle volte le cose vanno storte comunque, l’importante è l’incontro”. Son quelle frasi che ti danno un po’ fastidio, ma che ti rimangono in testa e inizi a riflettere. Emilia hai ragione il giudizio è fuorviante e si rimane fermi nella propria crescita, ma se vai oltre e ti nutri degli incontri e degli scambi allora si, possiamo salvarci. E così penso a te, penso a me, penso alla ricchezza degli incontri che abbiamo fatto e che faremo. Ti abbraccio