Commento all’articolo di Lucetta Scaraffia apparso su La Repubblica il 21 settembre 2016
Lucetta Scaraffia considera un dato di natura il diverso atteggiamento di uomini e donne di fronte al sesso e ai connessi possibili atti di violenza fisica e psicologica; le va riconosciuto il merito di essere contro corrente, oggi che posizioni estreme quale la “teoria del gender” giungono a sostenere che si è maschi o femmine a seconda di ciò che si sente di essere, indipendentemente dalla conformazione fisica e ormonale: paradossalmente siamo quasi nel neoplatonismo, di un’”anima” indipendente dal soma!
Credo che queste posizioni estreme siano una reazione a quelle tradizionali che destoricizzavano completamente le differenze di genere, ritenendo il cucinare e il lavare i panni caratteristiche biologiche femminili, e il far la guerra (dubbio privilegio) caratteristica maschile.
Oggi molto è cambiato, credo anche grazie alla rivoluzione industriale che, fra le altre cose, ha tolto valore a quella forza muscolare che era la sola certa superiorità del maschio, e che lo aveva reso idoneo ai compiti più impegnativi e “gloriosi”, abilitandolo pure al ruolo di garante e tiranno dell’ordine interno alla famiglia.
Tornando all’articolo, mi sembra che l’Autrice cada in un residuo dell’antico errore sessista: io credo che la tragica reazione di Tiziana non sia stata dettata da una sua particolare sensibilità in quanto donna, ma dal fatto che in quanto donna è stata fatto bersaglio di ingiurie e di disprezzo quali un maschio non avrebbe mai subito. E allora è ancora una volta questione di un orientamento collettivo sessista. Mi spiego meglio: il ragionamento di Scaraffia non farebbe una piega se Tiziana fosse stata largamente elogiata sui social e tuttavia, travolta da una vergogna legata inestricabilmente al suo “esser femmina” si fosse ugualmente tolta la vita. Ma sappiamo che non è andata così: chi l’ha insultata oltre ad essere un furfante è anche un inguaribile maschilista, un residuo del passato.
Poi naturalmente c’entra la personale fragilità di Tiziana, che verosimilmente cercava di compensarla e negarla col suo esibizionismo: quando il gioco le è sfuggito di mano, non ha retto. E c’entrano i social che, come ogni strumento molto potente, possono fare molto male.
Diversi gli altri fattacci che l’Autrice cita a sostegno della propria tesi sull’eccesso di libertà sessuale anche precoce, ma che in realtà entrano nel grosso capitolo della violenza fisica sulle donne: è fin troppo ovvio che questa colpisce non solo ragazzine troppo presto intraprendenti e inconsapevoli ma anche più spesso donne mature e “confortevolmente” sposate con la benedizione delle istituzioni laiche e religiose. Anch’essa è un residuo del passato: la violenza, anche sessuale, sulle donne era parte del ruolo sociale di governo affidato al maschio, mentre oggi è giustamente respinta nell’area della criminalità.
Con ciò, non vorrei sostenere l’inesistenza di qualsiasi differenza psicologica fra maschio e femmina, poiché è scontato che mente e soma sono interdipendenti: ad esempio, è verosimile che la donna sia meglio predisposta all’accoglienza e al contenimento, poiché il prototipo di essi – la gravidanza – è suo esclusivo appannaggio. Non è inverosimile neanche che il maschio sia più predisposto alla promiscuità: un maschio che cambia spesso partner può diffondere più ampiamente e frequentemente il proprio seme, e questo è ( o era prima della pillola) un vantaggio evolutivo; non è lo stesso per la donna, che comunque non può partorire più di una volta in un anno.
Ho le idee poco chiare? Non prendo posizione? Può essere: ho sempre pensato che la realtà non sia fatta di bianchi e neri, ma di tante sfumature di grigio.
Io non credo affatto che il Prof. Pisseri abbia le idee confuse! Sfido chiunque a sfoderare sugli argomenti sessualità e “identità di genere” certezze olimpioniche. Troppe sono le implicazioni emotive e morali e simboliche e persino scientifiche di tali temi. E condivido in buona parte la sua disamina. D’altra canto non posso non concordare in buona parte anche con l’articolo di Lucetta Scaraffia e forse già questo la direbbe lunga sulla mia di confusione. Tuttavia, non credo nemmeno che le tesi prodotte dai due sopracitati autori siano poi tanto inconciliabili. E vorrei provare in qualche modo a sanare questa apparente (almeno ai miei occhi) contraddittorietà.
A tal proposito mi torna buono riferire di uno studio pubblicato su Nature qualche tempo addietro che documenta che le cellule “Mcms” (dall’inglese Mystery cells of the male), trovate nel cervello del minuscolo verme “Caenorhabditis elegans” (notate la finezza, è sì un verme, ma piuttosto “raffinato”; tutto sommato una vera personcina molto “elegante”) funzionano come un campanello che ricorda l’urgenza dell’accoppiamento, si trovano soltanto nei maschi e rendono il sesso una priorità (per I maschi ovviamente) si sviluppano nel cervello del verme in un modo simile allo sviluppo cellulare che avviene in quello umano e fanno parte della differenza biologica tra il cervello maschile e quello femminile.
Vista la sua semplice composizione anatomica (ha solo 385 neuroni, ma, per la cronaca, molti di più di quelli “funzionanti in molti cervelli umani”) viene utilizzato da anni per la ricerca da genetisti e biologi perché i suoi meccanismi cellulari interni possono essere comparati (???) a quelli che avvengono nel corpo umano ad un livello base. L’auspicio ultimo è da più parti che gli studi sul cervello del verme C. Elegans possano fornire altre risposte su quello degli esseri umani”. Aspettiamo con vivida trepidazione, dunque! Cosa se ne deduce? Che quando ti danno del verme non offenderti visto che ci sono buone probabilità che tu disponga di almeno 385 neuroni e visti i tempi, l’inquinamento e le trasmissioni mediaset, non è male, direi.
Che l’uomo è pur sempre cacciatore! Quindi, donne rassegnatevi perché se il vostro uomo “ramazza” pure i virus che inspira compresi quelli dell’influenza è colpa della genetica e della propensione del maschio ad assicurarsi la sopravvivenza (occhio, allora, che se notate che il vostro uomo è spesso raffreddato, in realtà sta fornicando, verosimilmente). Insomma, il vostro “lui” non vi sta tradendo col più o meno “giovane puttanone” di turno, ma sta soltanto perpetuando i propri geni nell’ottica della conservazione della specie o sta semplicemente tentando di entrare in una nuova dimensione spirituale raggiungibile attraverso “la sublime esperienza erotica del femminile” (la seconda spiegazione che ho detto vale soprattutto per quelli con elevata predisposizione mistica). Dunque, trattasi di opera di servizio resa all’umanità e/o agli dei di turno, eventualmente. Si dimentica però che l’istinto nel corso dei millenni di evoluzione si è trasformato in “motivazione”, ma questa è altra storia.
Mi sorge spontaneo un dubbio fomentato da altro articolo apparso su “la Repubblica” qualche tempo fa che descrive il travaglio di una donna romana affermata manager e madre di famiglia “affetta da sex addiction” dipendenza da sesso devastante che “l’ha portata quasi al suicidio”. Ha poi realizzato con l’aiuto di una psicologa di “essere stata abusata da bambina”.
Ma se tanto mi da tanto sarebbe possibile che nel corso dello sviluppo neurale si sia verificata una qualche anomalia che ha portato nel cervello di questa donna manager all’incremento di questa popolazione di neuroni esclusivamente maschili? Non sarà che la manager in questione poverina si ritrova nel cervello qualche neurone “Mcms” di troppo? Per cui alla fine si è vista costretta a mettere in scena la “caricatura” di “un’esigenza evolutiva” della specie umana (seppure a tutto appannaggio dei soli maschi umani)?
Adesso, non è che voglio necessariamente mettere tutto sul piano simbolico, ma avendo io 386 neuroni (uno in più del verme in questione), allora sì, la metterò sul piano simbolico. Non voglio negare nemmeno la sindrome da “sex addicition”, né la sofferenza della donna romana che per fortuna pare abbia trovato finalmente un suo equilibrio. Tuttavia, a volte ho l’impressione che tutto questo ricorso alla genetica dei “vermi” o dei topi (quando va bene) per spiegare i comportamenti e attitudini umani rappresenti un atto scaramantico, un espediente buono a rassicurarci sui tempi che stiamo vivendo, un amuleto utile a confermare eventualmente certi stereotipi e quelli di genere tra gli altri che tanto ci consolano e che ci sollevano dai tanti dubbi e complessità che invece insorgono nel corso delle comuni relazioni umane. Allora se una donna indulge ai piaceri della sessualità deve avere qualcosa di storto. Se vostra moglie si accoppia con tutto ciò che respira, allora o possiede un’elevata affinità con certe donnine da angiporto o è affetta da sex addiction, comunque sia è una persona malata, un’anomalia del sistema che un’infusione di neuroni geneticamente modificati o l’intervento sapiente di un qualche centro di salute mentale sapranno curare immancabilmente. Gli uomini scopano! Le donne amano! E via dicendo con i luoghi comuni più beceri che sembrano di fatto voler insistere proprio a tenere “l’anima ben ancorata al corpo”, sotto certi aspetti. E invece, la genetica è lì con le sue certezze biologiche dicotomiche a difenderci dalla “depravazione” dei costumi moderni e dal dolore procurato dalle incertezze del vivere quotidiano.
La genetica l’ultimo baluardo contro la tendenza “transgender” delle “identità fluttuanti” ormai dilagante in ogni settore della vita umana? La genetica l’ultima roccaforte di chi compulsivamente vuole riaffermare I dualismi “ancestrali” di mente-corpo, maschio-femmina, forma-materia, conscio-inconscio, vero-falso quando persino la fisica quantistica o la logica fuzzy delle nostre moderne macchine fotografiche ci stimolano a ripensare certe dualità consolidate, “forse false” o soltanto “in un certo senso vere”. Per fortuna che “l’anima si è sganciata dal corpo” altrimenti staremmo ancora qui a discutere di fragili donnine maestrine d’asilo e di vigorosi boscaioli che come i nani di biancaneve vanno entusiasti e sorridenti per la foresta cantando giulivi “andiam andiam andiam a lavorar”. A proposito! Quanto le favole di Walter Elias Disney hanno contribuito dal secolo scorso ad oggi a rafforzare gli stereotipi di genere?
A ripensarci noi tutti siamo sostenitori più o meno consapevoli della logica “transgender” ovvero la fluttuazione tra genere maschile e femminile non sancita da alcun bisturi, ma giocata invece in rete o nella vita quotidiana. Dunque, “transgender”, ma nell’accezione più generale di “variabilità, oscillazione dei generi” di tutti i generi. Quotidianamente noi tutti ci presentiamo come “transgender” quando ad esempio, navighiamo oltre gli stereotipi più zotici: non credo che oggi ci sia qualcuno sano di mente e di corpo che si sognerebbe di avallare l’idea che gli uomini devono lavorare e portare i soldi a casa e che le donne devono rimanere tra le mura domestiche ad accudire i pargoli e a svolgere le faccende. Nemmeno la prestanza fisica può rappresentare una discriminante tra genere maschile e femminile quando un buon addestramento e l’utilizzo di tecniche appropriate possono rendere una donna letale quanto un uomo e le macchine vengono comunque in aiuto per sopperire a qualunque carenza fisica.
A parte le provocazioni, la storia di quella donna affetta da sex addiction dimostrerebbe semmai ancora una volta che la sessualità ha un alto valore simbolico e non giova ridurla a forme ben fatte, a sa¬lutare fisiologia o perverse anomalie condizionate da bislacche popolazioni di neuroni. E I simbolismi si trovano nelle relazioni umane, nei contesti abitati dagli esseri viventi in relazione tra loro, non certo nei geni. Non ancora, almeno!
E vengo adesso all’evento citato nell’articolo della Scaraffia in particolare. È noto a tutti che uomini e donne sono morfologicamente diversi. Se dovessi considerare il punto di vista del Prof. Pisseri sarebbe inevitabile che l’uomo e la donna vivessero e sentissero l’espressione della sessualità in maniera differente non fosse altro che per il fatto che siamo fatti strutturalmente in maniera diversa. In tal senso non riesco ad immaginare un “anima” indipendente dal soma. Il “contenente” non può non influenzare l’espressione del “contenuto”. Uomini e donne si ritrovano a ricoprire due posizioni differenti nell’ambito dell’esercizio della sessualità carnale, per così dire (e non mi riferisco alle posizioni del Kamasutra). L’uomo a causa della sua anatomia sessuale si ritrova nella posizione di chi “invade” “l’Altra”. Egli gioco forza finisce per occupare, per “riempire” uno spazio altrui. La donna si ritrova viceversa a causa della propria anatomia sessuale nella posizione di chi gioco forza “deve-poter” accogliere nel proprio spazio, finanche dentro di sé letteralmente, un “Altro” diverso da sé (o almeno una sua parte importante certamente, ma insieme ad altri aspetti altrettanto fondamentali, si spera). Immagino allora che per qualsiasi donna che non tratti il sesso o meglio la sessualità e il pene nello specifico come un semplice “oggetto di consumo” non sia mai facilissimo decidere di “ammettere qualcuno dentro di sé”, nemmeno quando la motivazione all’accoppiamento sia il semplice desiderio del godimento carnale del corpo dell’altro. Ma non vorrei scadere nella retorica bieca, né essere scambiato per il solito maschilista e fallocrate come tutti quelli che ancora si ostinano a cedere il passo ad una donna prima di entrare in una stanza o che parlano ancora di “istinto materno” rischiando a loro volta di essere accusati di voler perpetuare l’idea di una donna legata esclusivamente all’esercizio della maternità. Vorrei rassicurare che sono convintissimo che per qualsiasi donna mediamente nevrotica debba risultare altrettanto naturale accogliere l’Altro “dentro di sé” e senza particolari sconvolgimenti e inquietudini psicologiche o esistenziali di varia natura. Così come qualsiasi uomo mediamente nevrotico sa benissimo che bisogna andarci piano quando si “occupa uno spazio altrui” perché “irrompere nell’intimità” di un altro/a da sé può voler dire “annullare” quello stesso spazio in cui abbiamo avuto la “ventura” di “sconfinare”. Il confine tra la condivisione e la violazione può essere davvero molto sottile. E tutte le volte questo “sconfinamento” va concordato. Allora, sappiamo che esiste il “sesso senza amore”. Tutti lo abbiamo fatto e lo facciamo e questo senza dover meritare necessariamente una scomunica papale, né una diagnosi di disturbo borderline, eventualmente. Ci sono semplicemente donne e uomini che sanno disgiungere l’amore dal sesso con maggiore o minore frequenza. E sorvolo sulle implicazioni morali che questa nostra naturale attitudine possa avere sulle nostre relazioni familiari e sociali più in generale. Si diceva anche che l’unica differenza tra donne e uomini sessualmente parlando fosse che le prime possono simulare la propria sessualità mentre i secondi no. Ma anche questa rigida dicotomia sembra aver perso di valore dai tempi dell’avvento del Sildenafil e simili. Tutto questo se ci limitiamo a guardare la questione sotto l’aspetto meramente corporeo. Ma la sessualità ha un alto valore simbolico e per ciò stesso non può non emanciparsi dalla sua mera manifestazione corporea. Dunque, io non conosco le motivazioni che hanno “indotto” quella donna a farsi riprendere durante le proprie divagazioni sessuali e svariate volte anche e a distribuirle a vari conoscenti pure. Quindi, mi taccio sul punto. Quello che so con discreta certezza è che se una “decide” (ammesso che non sia stata costretta in qualche modo, ribadisco) di distribuire file elettronici contenenti scampoli della propria intimità senza considerare i rischi di un’indebita diffusione di questi stessi contenuti, allora non ha capito bene come funzionano le moderne tecnologie della comunicazione nella migliore delle ipotesi. Voglio dire che qui non c’è tanto di mezzo lo stereotipo di genere in sé, ma è in discussione l’ennesimo caso di totale e palese perdita di confini tra “l’interno e l’esterno”, tra il “Sé” e il “non-Sé”. Chi è capace di spiattellare al pubblico la propria intimità con la stessa facilità con cui farebbe a pezzi una lattuga e fa strame sulle varie piattaforme mediatiche e televisive di sentimenti ed emozioni tra i più profondi è in molti casi in preda ad una confusione di stampo oserei dire quasi “psicotico”. Chi non riesce a comprendere l’importanza della sacralità della propria privacy, chi “si sente costretto” ad esporre il proprio privato alla pubblica visione verosimilmente crede di non poter esistere se non attraverso lo “sguardo” degli altri o più verosimilmente è in balìa del “discorso dell’Altro”, perso nell’universo del linguaggio, plagiato più che plasmato dal mondo delle parole dell’Altro dal quale per qualche motivo non è riuscito a realizzare la necessaria emancipazione, secondo me. Io credo che ognuno sotto le lenzuola possa fare quello che gli pare basta che non fai del male all’altro/a; basta che non me lo fai sapere, al limite; ma solo perché delle tue performance amatoriali non me ne può importare di meno tendenzialmente e quindi ti chiederei di rispettare questo mio auspicio. È un po’ come quelli che in treno si esibiscono in lunghe e chiassose conversazioni con chi sa chi mettendoti al corrente proditoriamente di particolari della loro vita privata che francamente ti saresti risparmiato volentieri. E non hai pietà tu di me? Perbacco! Un po’ di pudore, gentilmente. Grazie!