Vaso di Pandora

Quando la tutela non tutela

Ci è capitato durante l’ultima supervisione del gruppo di Psicanalisi Multifamiliare di tornare a ragionare sulla misura di Amministrazione di Sostegno in relazione ai nostri pazienti e su alcune situazioni che si rivelano inadatte nello svolgimento del nostro lavoro in psichiatria.
Intanto un po’ di storia: la misura giuridica di amministrazione di sostegno è relativamente giovane; venne isitituita nel 2004 per rimodulare le già esistenti misure di tutela giuridica di interdizione e inabilitazione.
Resta complesso il tema della demarcazione tra l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno e dell’interdizione: in linea generale, si può affermare che, pur con alcune differenze su base geografica, l’istituto interdittivo trova sempre minore spazio in favore della nuova misura.
Chi può avviare la procedura?
Ai sensi degli artt. 406 e 417 c.c., la legittimazione attiva alla proposizione del ricorso spetta ai seguenti soggetti:
– Pubblico Ministero;
– beneficiario della misura (anche se minore, interdetto o inabilitato);
– coniuge;
– persona stabilmente convivente;
– parenti entro il quarto grado;
– affini entro il secondo grado;
– tutore dell’interdetto;
– curatore dell’inabilitato;
– unito civilmente in favore del proprio compagno. 
Inoltre, ai sensi dell’art. 406 comma 3° c.c., sono destinatari di un vero e proprio obbligo giuridico “i responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, ove a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno”. Essi dovranno proporre il ricorso ex art. 407 c.c. al Giudice Tutelare, o, in alternativa, dovranno fornire notizia delle circostanze a loro note al Pubblico Ministero tramite apposita segnalazione.
La scelta dell’amministratore di sostegno viene effettuata dal Giudice Tutelare “con esclusivo riguardo alla cura e agli interessi della persona beneficiaria”.
L’art. 408 c.c. individua un ordine preferenziale a cui il Giudice Tutelare dovrà attenersi in tale valutazione:
– in primo luogo, deve essere valorizzata l’eventuale designazione dell’amministratore di sostegno già effettuata dal beneficiario, in previsione della propria futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata; parimenti, dovrà tenersi conto dell’eventuale preferenza manifestata dal beneficiario nel corso del procedimento, sempre che egli conservi adeguata capacità di discernimento;
– in mancanza di designazione o in presenza di gravi motivi (quando, ad esempio, il soggetto designato non è idoneo allo svolgimento dell’incarico), il Giudice Tutelare, con decreto motivato, potrà nominare un amministratore di sostegno diverso; nell’effettuare tale scelta, il Giudice Tutelare dovrà preferire, se possibile, uno dei seguenti soggetti:
– il coniuge che non sia separato legalmente;
– la persona stabilmente convivente;
– il padre, la madre, il figlio, il fratello o la sorella;
– il parente entro il quarto grado;
– il soggetto designato dal genitore superstite con testamento, atto pubblico o scrittura privata autenticata;
– inoltre, in caso di opportunità, o – se sussista la designazione da parte del beneficiario – in presenza di gravi motivi, il Giudice Tutelare potrà nominare un soggetto terzo di propria fiducia. A tal fine, egli potrà attingere, ad esempio, ad appositi elenchi istituiti presso i singoli Uffici giudiziari che contengono i nominativi di professionisti in materie giuridiche ed economiche disponibili allo svolgimento dell’incarico.
Ai sensi dell’art. 413 c.c., laddove ne ricorrano i presupposti, il Giudice Tutelare, su istanza motivata del beneficiario, del Pubblico Ministero, dell’amministratore di sostegno o di uno dei soggetti di cui all’art. 406 c.c., potrà disporre la sostituzione dell’amministratore.
La norma non indica dei presupposti specifici per la sostituzione dell’amministratore, con la conseguenza che la valutazione è lasciata alla discrezionalità del Giudice: in concreto, la sostituzione potrà avvenire, anche al di fuori di un intento sanzionatorio, in caso di persistente dissenso con il beneficiario, in caso di decorso del termine decennale previsto dall’art. 410 ultimo comma c.c. o nell’ipotesi di trasferimento dell’amministratore di sostegno in luogo lontano dalla residenza abituale del beneficiario.
Questa premessa di tipo giuridico risulta necessaria in relazione al fatto che sempre più pazienti che giungono nelle nostre strutture hanno già nominato un amministratore di sostegno con cui noi clinici dobbiamo rapportarci; per questo motivo è sempre bene conoscere le norme che sottostanno ad istituzioni a cui i nostri pazienti sono legati.
Se siamo stati fortunati e il processo di tutela è avvenuto con valido criterio, la situazione con cui ci si confronta è una situazione “pulita” dal punto di vista clinico, in cui la figura dell’ amministratore di sostegno è una figura presente, attenta alla tutela del proprio assistito, tangente al progetto clinico rimanendo nell’ambito delle proprie competenze e fidandosi delle scelte progettuali, sensata nell’amministrazione delle sostanze e sensibile ai bisogni dell’amministrato. Osservando però queste caratteristiche emerge evidente come queste caratteristiche siano difficili da mantenere se il ruolo di amministrazione lo ricopre un familiare che non sia più che “navigato” nella relazione interpersonale con il paziente. Le questioni di fondamentale importanza clinica come relazioni irrisolte, parole non ancora dette e emozioni non ancora sciolte devono essere venute alla luce e devono aver trovato spazio adatto dove essere accolte. Non è raro trovare come amministratori di sostegno parenti che si sono trincerati dietro al loro ruolo di tutela per sfuggire dal coinvolgimento nei processi terapeutici che passerebbero anche attraverso di loro.
Allora sotto questo punto di vista il motto “liberare le risorse” acquista un senso più specifico nel nostro lavoro. Le risorse che servono in prima battuta da parte dei familiari sono quelle emotive, più che organizzative e giuridiche.
Nella pratica, come muoversi?
Qualora come curanti individuassimo la necessità di sottoporre a tutela giuridica un paziente, insieme al servizio stesso si potrebbe identificare un’idonea figura, interna o esterna alla famiglia, che potrebbe farsi carico del ruolo. Se il servizio inviante mettesse a disposizione la conoscenza pregressa del paziente e la comunità sfruttasse l’osservazione nel quotidiano, attraverso la relazione si potrebbero identificare i bisogni a lui più adatti. Unendo queste risorse la domanda potrebbe essere direzionata all’ufficio Tutela nel modo più idoneo.
Qualora invece un paziente accolto in comunità abbia un amministratore di sostegno, ci troviamo sempre di più a fare una valutazione, che assume carattere etico, della persona che ricopre questo delicato ruolo. Mi preme specificare che la valutazione non vuole avere caratteristica alcuna di polemica, non stiamo supportando una posizione di ricusazione indiscriminata di tale figura tutte le volte che essa sia ricoperta da un familiare ma l’esigenza ormai comprovata di valutare attentamente l’idoneità di un parente in relazione a una persona di cui noi abbiamo la responsabilità della cura, e lui della tutela. Forse la considerazione che dovrebbe essere prioritaria nelle scelte di chi nomina un amministratore di sostegno è che la tutela da parte di un parente è tutela emotiva prima di tutto, situazione che confligge con la scelta di fargli amministrare sostanze e, parzialmente, dargli responsabilità di cura.
Per questo motivo la dimensione etica può manifestarsi anche decidendo di esprimere un parere contrario alle scelte già prese, rendendosi responsabili di un’osservazione e di un lavoro che non può mancare di rendere consapevoli le figure da “sbrigliare” da un ruolo che li porta lontano dal loro potenziale di aiuto. Pare così importante riportare al centro la pulizia del contesto, una ri-assegnazione ad ognuno del suo compito ontologicamente primario: se sei una madre, quanta fatica e risorse emotive ti impegnerà fare il tutore, piuttosto che poterti concedere di essere solo madre, con tutti i sentimenti che già solo questo ruolo richiede? Allora quanto diventa importante per noi aiutare i nostri pazienti e i loro parenti a raggiungere consapevolezza rispetto alla loro relazione e alle ambiguità che l’istituto di tutela porta nelle loro vite se essi ne vengono legati a doppio filo?
È pur tuttavia esperienza comune che proprio i familiari, come previsto dalla norma, siano le persone che primariamente i Giudici tutelari scelgono; eredità o meno della cultura della disabilità, è forse giunto il momento di fare una riflessione approfondita sull’idoneità di tale scelta, poiché nel frattempo decenni di attività clinica con i pazienti psichiatrici hanno portato alla luce bisogni più specifici di scelte dirette e aprioristiche ad oggi esistenti.

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Commenti su "Quando la tutela non tutela"

  1. Problema rilevante, soluzione non semplice. E’ certo vero quanto segnalato: il parente incaricato come AdS – scelta consueta ma non obbligatoria – si trova certo a gestire un insieme complesso, fatto di compiti pratico-organizzativo – amministrativi e di relazionalità emotiva con l’amministrato. Complesso, ma non nuovo: ripete in qualche modo il rapporto dei genitori con un figlio minore. Situazione tutt’altro che semplice, da valutare caso per caso nei suoi vari risvolti.
    Se si ritiene che sia opportuna una sostituzione, la complicazione diventa giuridica: i terapeuti non hanno titolo per proporla, e dovrebbero convincere qualcuno di coloro che lo hanno. In base all’articolo 413 che rimanda all’art. 406 e, a cascata, all’art. 417 c.c., sono: l’AdS stesso, l’amministrato, il coniuge o convivente, i parenti entro il IV grado, il PM; tralascio il tutore o curatore che in questo caso evidentemente non ci sono,
    C ‘è un aspetto minore ma non del tutto trascurabile: l’eventuale AdS estraneo alla famiglia è di solito un professionista: non ha diritto a un compenso, ma a una indennità sì (distinzione all’italiana), che è a carico dell’amministrato.

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