L’ho riletto con calma estiva. E’ tutto un saltare da un iper-realismo, un po’ alla Joyce con la minuziosa descrizione di una quotidianità indugiante perfino sui vari cibi, al visionario, al metaforico. Ciò è sintetizzato già nel titolo, a cavallo fra l’atmosfera kafkiana e la realtà iper-familiare della spiaggia.
Il protagonista, Tamura Kafka, scappa di casa, crisi adolescenziale vissuta drasticamente: “tutto quello che mi è stato trasmesso dai miei mi fa orrore”.
Egli trova un primo importante punto di riferimento in una biblioteca, che non può non far venire in mente la biblioteca di Babele di Borges. Ma quest’ultima è fatta di infiniti volumi, infinite pagine, infinite combinazioni di segni, quindi contiene tutto lo scibile, che peraltro proprio per la sua infinitezza è di fatto inaccessibile. Ci può apparire una sorta di anticipazione visionaria di Internet con la sua illimitata mole di dati, o forse piuttosto la constatazione dell’attuale stato della conoscenza scientifica, con la fisica impegnata in una ricerca senza fine di una teoria dell’Universo ( o degli Universi?) onnicomprensiva, definitiva e forse mai conseguibile; o forse l’impossibilità di spiegare fino in fondo ciò che accade nella mente?
Del tutto opposta, credo volutamente, la vocazione della biblioteca immaginata da Murakami che è specializzata in tanka e haiku, minime composizioni poetiche tradizionali atte a suscitare più emozioni e sensazioni che non lucide argomentazioni e razionalizzazioni. Analogamente, per l’Autore è la musica più che il raziocinio a dare grandezza e profondità al nostro mondo, demolendo la realtà e ricomponendola. La sua è una scelta di campo.
Tuttavia, un angolino viene riservato alla autoriflessione razionalizzante che viene riproposta in conclusione, impersonata da un ragazzo immaginario, quasi un alter ego del protagonista, “chiamato Corvo”: viene in mente l’”ultimo viene il corvo” di Calvino, che analogamente a suo modo “conclude”.
In qualche modo collegata a ciò la figura del co – protagonista, Nakata, la cui complicata vicenda è destinata alla fine a incontrare quella di Tamura Kafka. Da bambino ha subito un qualche attacco (una irradiazione?) da un misterioso oggetto volante a grande altezza; da allora il suo lessico e le sua abilità pratiche divengono rudimentali, ma in compenso diviene capace di parlare con i gatti. Ci si può leggere una allusione ai B29 e alla catastrofe atomica, da cui esce un Giappone diverso; ma anche un recupero della nostra dimensione animale, istintuale, preverbale. Esso forse si collega alla precedente allusione storica: c’è un distaccarsi dal ritualizzato ma violento super-ego dei samurai? E’ una lezione di umiltà? Una ricerca di comunicazione con il diverso?
Quasi scontata, emerge una vicenda edipica classica vissuta da Tamura, incesto e uccisione fantasticata del padre, in un intreccio di presente e di un passato riattualizzato. Vi si innesta la necessità di avviare un percorso interiore, improbo e faticoso, espresso con una metafora: “va richiusa l’entrata che è stata aperta”. Ciò accade in una foresta dove è necessario, pur se inquietante, addentrarsi. Occorre abbandonare le difese, presentarsi “nudi”. Ed è una esperienza di solitudine. Ma è un percorso senza fine, che potrebbe chiudersi davvero solo con la morte, e l’esperienza personale resta irripetibile, non fruibile da altri: il tentativo di far ordine dentro di sé serve solo al singolo, non è trasmissibile, anche perché la vera risposta non può essere espressa in forma di parole. Evidenti dunque i limiti delle razionalizzazioni. E’ interessante la presenza nella foresta di due guardiani, due soldati: rappresentano un passato, con la rievocazione di quei militari giapponesi che, ignari di tutto, continuavano a nascondersi per anni dopo la conclusione della guerra? Ma forse per l’Autore questo comportamento folle è in realtà anche una occasione di riflessione, di conoscenza. Ancora una volta una contaminazione fra divenire storico -sociale e interiorità personale.
Tanti temi, forse troppi: ma comunque stimolanti, specie per chi fa il nostro mestiere in cui la contaminazione è realtà quotidiana.