Commento alla notizia AdnKronos Salute, 10 maggio 2016
Associare la prevalenza della depressione alla crisi economica è un’operazione molto delicata che mi ha sempre indotto ad una certa prudenza nel considerare l’aumento del numero dei depressi come conseguenza della crisi economica. La depressione colpisce in Italia circa 2,6 milioni di persone (4.3 % della popolazione), è noto che la sua prevalenza a livello mondiale è strettamente collegata alle variabili economiche e sociodemografiche (fra l’altro con prevalenza più elevata nei paesi ad alto reddito rispetto a quelli più poveri).
La notizia apparsa su AdnKronos Salute il 10 maggio sottolinea con enfatico allarme come i casi di depressione siano in continuo aumento anche ora che ci stiamo lasciando alle spalle la crisi e che entro il 2030 rappresenteranno la principale malattia cronica nella popolazione europea (superando le malattie cardiovascolari). Non sono un epidemiologo, non discuto sui dati per cui mi limiterò ad alcune brevi osservazioni.
Prima di tutto chi l’ha detto che siamo ormai in un’era post-crisi? Non mi pare che l’attuale situazione politico-economica possa definirsi “post-crisi”, forse qualche timido segnale di ripresa economica c’è ma il nostro sistema di welfare è indubbiamente tutt’ora in crisi. E ciò ha colpito duramente il sistema dell’assistenza psichiatrica e la qualità delle cure (come evidenziato ad esempio nei Centri di Salute Mentale sempre più asfittici e incapaci di rispondere ai bisogni della popolazione).
Questo mi pare un punto critico che non emerge dalla notizia ma che sicuramente dovrà essere tenuto in considerazione anche in termini di prevenzione non solo della depressione ma di tutte le patologie psichiatriche.
C’è poi un’altra questione che mi lascia un po’ perplesso ed è la tendenza, quando ci si allontana dal rigore scientifico dei nostri studi clinici, ad associare a “Depressione” tutta una serie di condizioni umane “fisiologiche” che ruotano attorno alla condizione di grave tristezza o disagio esistenziale legato a difficoltà economiche, coniugali, familiari, lavorative, ecc. che tuttalpiù, talvolta, possono sfociare in un quadro di reazione depressiva. Queste sì che sono situazioni che risultano molto influenzabili dalle condizioni di benessere sociale economico relazionale di una società civile e quindi si acuiscono sicuramente in momenti di crisi economica e sociale (come l’attuale). La malattia depressiva, la cosiddetta Depressione Maggiore, è altra cosa, necessita di ben altri tipi di intervento e sono convinto sia relativamente poco influenzata nella sua genesi dal situazioni come la nostra attuale crisi economica.
La prima condizione (fisiologica) richiederebbe interventi di sostegno personale o sociale, la seconda riguarda l’ambito della psicopatologia e richiede interventi terapeutici specifici (farmacologici e psicologici). Non posso negare che fra le due situazioni vi siano ampi collegamenti causali, tuttavia ritengo importante sottolineare questa distinzione.
Negli ultimi decenni tuttavia, con la crescente disponibilità di farmaci antidepressivi e la forte pressione verso un loro utilizzo sempre più diffuso e meno specialistico, abbiamo assistito ad una sorta di “riunificazione” di tutte le sfaccettature della condizione di umore depresso (sia fisiologico che patologico) sotto l’etichetta di depressione col risultato di aver esteso indiscriminatamente la medicalizzazione della depressione anche alla tristezza.
Vista attraverso il consumo di farmaci antidepressivi la depressione (non la Depressione Maggiore) è senz’altro cresciuta negli ultimi anni e aumenterà ancora perché tollereremo sempre meno le difficoltà, i lutti e le crisi economiche, avremo perso l’abitudine all’ascolto, all’empatia e al sostegno sociale, somministreremo farmaci per alleviare la tristezza.
In Europa oggi i casi di depressione sono 33 milioni e aumenteranno (ma saranno tutte depressioni maggiori?), per i produttori di farmaci c’è da fregarsi le mani…