Vaso di Pandora

Prendersi cura

Qualcuno ha scritto: “Allorchè una bimba vede soffrire il fratellino essa trova, quasi senza saperlo, una via per consolarlo: cerca la sua mano e lo tocca dove gli fa male: così diventa il suo primo medico. Ci allontaniamo sempre più da questa scena primordiale di guarigione. La sensazione di esser toccati e interpellati è sempre più rara”.


Ciò tende ad essere confermato da alcuni aspetti della vita di ogni giorno. Un esempio è la parziale sostituzione dell’incontro diretto – ricco di componenti anche tattili e olfattive emotivamente pregnanti – con gli incontri on line, con i social. Ben vengano questi, come sostitutivi o integrativi di un “faccia a faccia”: ma sono protesi. La protesi sostituisce, magari utilmente, un organo vivo; ma non è la stessa cosa. Non mancano certo gli incontri, ma non di rado fugaci e magari limitati alla soddisfazione sessuale. La recente pandemia ha accelerato questo percorso, con conseguenze non necessariamente reversibili in toto.


In campo medico, la crisi del contatto, del “prendersi cura” da persona a persona è in corso da anni: col medico di base spesso limitantesi ad automatismi come prescrizioni e richieste di consulenza, e lo specialista consultato che tende a seguire (meccanicamente?) protocolli e algoritmi canonici. L’acme di questa tendenza è raggiunto con la proposta, avveniristica ma non tanto, di sostituzione del medico curante con l’intelligenza artificiale, a lui innegabilmente superiore quanto a capacità di mettere insieme, pesandoli e coordinandoli ai fini della diagnosi e della prescrizione, dati di ogni provenienza: dalla anamnesi ai dati di laboratorio e a quel po’ di risultanze della visita diretta che si ritenessero ancora di qualche limitata utilità.


E’ evidente come ciò, che in qualche misura è destinato ad accadere e in parte è già accaduto, sia destinato a introdurre un nuovo passaggio critico anche per la psichiatria del prossimo futuro. Ciò, anche se la nostra disciplina, nelle sue varie declinazioni, ha sempre fortemente limitato il contatto fisico diretto: ricordiamo come Freud abbia ammonito Ferenczi sull’inopportunità di concedere un bacio alla paziente. Però non abbiamo affatto dimenticato questo aspetto: abbiamo fatto ricorso alla metafora, impiegando la parola “contatto” come qualificante la relazione di cura; o, più incisivamente, contatti fisici mediati – e peraltro ben altrimenti intensi e avvolgenti – come nella terapia amniotica che ci propone Maurizio Peciccia. E in ogni caso la presenza del terapeuta come persona viva è sempre stata fondamentale.


Comunque ora, dicevamo, ci troviamo a un passaggio critico, di fronte a una possibile evoluzione – involuzione della medicina generale: andare per la nostra strada, al costo di un rinnovato isolamento e di perdita di una visione dell’uomo fatto di corpo e mente? O accodarci alla medicina in un rinnovato approccio reificante? Non mancano già ora momenti in cui tale approccio tende a prender nuova vita dalla tecnologia: c’è chi ha proposto interventi psicosociali, anche sui disturbi di personalità, non solo attuati da essa ma perfino da essa orientati!


Il problema del rapporto fra psichiatria e medicina generale non è nuovo: ricordo come si sia presentato incisivamente al momento della riforma psichiatrica, quando la attivazione di un servizio psichiatrico in ambito ospedaliero è stata da alcuni salutata come atta a superare una condizione di isolamento della nostra disciplina, e da altri criticata come fonte di appiattimento in una dimensione biologico-organicistica.


Ma torniamo all’oggi: di fatto c’è una terza via, che vale la pena seguire: sostenere e utilizzare il patrimonio di pensiero, di condivisione, di partecipazione messo da parte in questi decenni, anche per sostenere e difendere quella visione umanistica della medicina che oggi è messa a rischio.

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