Commento all’intervista a A. Gopnik apparsa su La Repubblica il 23 ottobre 2016
L’impostazione di questa studiosa mi ricorda quella di Benjamin Spock, pediatra che negli anni 60 – 70 era divenuto più che famoso: il suo “Common sense book of baby and child care” era divenuto proprio la bibbia dei genitori, inserito com’era nel clima antiautoritario di quegli anni. Raccomandava: permissivismo in ogni campo inclusa la alimentazione, rispetto reciproco, meno attenzione alla competizione, ascolto dei bisogni emotivi, garantire amore e sicurezza. Era stato poi anche ampiamente criticato, anche perché il risvolto politico del suo messaggio era evidente ed esplicito: mi pare di ricordare che additava ad esempio positivo le modalità educative seguite in una Unione Sovietica ancora, all’epoca, idealizzata dalla sinistra, sia pure meno che nei decenni precedenti. Al di là di ciò, era stato accusato (tanto da esser definito non so più da chi “more dangerous than Hitler) di educare alla irresponsabilità; del resto nel tempo aveva un po’ annacquato il proprio vino.
Certo ne sono passati di anni, c’è stato il noto riflusso che forse Gopnik tende a contrastare. Il suo messaggio contiene qualche accento nuovo rispetto a quello di Spock: ad esempio le considerazioni sul “gender”, tema non d’attualità a quel tempo; come non poteva esserlo quello dei nuovi mezzi, smartphone, web, social network. Oggi essi si sono aggiunti alla televisione nel fornire a utenti di tutte le età una massa di informazioni, di indicazioni, di input di ogni tipo fortemente concorrenziali con quelli forniti dai genitori e dagli altri educatori: questo rende il compito dell’educatore più impegnativo e complesso, ma può concorrere a migliorarne la qualità, rendendo impossibile la pretesa di incarnare una verità indiscussa e stimolando approfondimenti anche autocritici che non compromettono, anzi migliorano l’immagine che si offre alla persona da educare.
Al di là di questi temi che si vanno sviluppando negli ultimi anni, Gobnik rispetto a Spock più che altro utilizza modi diversi per approcciare gli stessi punti. Mettere in guardia, come fa, contro l’eccesso di pianificazione porta a incoraggiare il permissivismo; anche l’invito a tollerare i possibili fallimenti va in questa direzione. Mi paiono posizioni condivisibili, che mettono in guardia non solo contro un eccessivo autoritarismo ma anche contro la ricerca della perfezione, oggi credo troppo spinta: per mettere al mondo un figlio gli si “devono” garantire condizioni perfette, e perfetta deve essere la sua educazione. Pericolosa illusione, che fra l’altro contribuisce alla denatalità che ci preoccupa. Quest’ultimo problema è connesso a un altro, che l’Autrice mi pare non tratti, quello del figlio unico: è scelta nociva o no? La compagnia e la concorrenza di uno o più fratelli è essenziale a un sereno sviluppo? Su questo ho cambiato opinione più volte, e ancora non ne ho una consolidata. E’ comunque sensato, ma di realizzazione non sempre facile, l’invito dell’Autrice a contare su un gruppo allargato.
Se è vero che è importante lasciare i figli liberi di crescere, è anche vero che si cresce veramente soltanto “contro” qualcosa, realizzando quella fondamentale elaborazione depressiva che è pure fonte del pensiero; e per Lacan il desiderio stesso si struttura veramente confrontandosi con un limite, non nella soddisfazione immediata. Il problema è ancora una volta quello della misura, il perseguire una frustrazione ottimale, né eccessiva né ridotta al minimo. Anche questo compito è, credo, reso oggi difficile dalla marea di messaggi, pubblicitari ma non solo, che ci invitano proprio alla immediata soddisfazione e consumo quasi come doveri sociali, quali stimolo alla produzione e al suo incremento: il PIL è il nostro idolo che attende nostre incessanti offerte.
L’Autrice saggiamente ammonisce che per educare non esistono formule certe; anche se, tutto sommato, lei stessa ne propone, pur se abbastanza elastiche. D’altronde è certo che in questo campo come in ogni altro noi, consapevolmente o no, seguiamo una strategia; quindi è giusto esplicitarla.
Ma credo che le varie strategie non siano in sé decisive, mentre è più importante ciò che si trasmette inconsapevolmente, nell’interazione emotiva, che può essere fruttuosa o nociva al di là delle migliori intenzioni. Essa tende a sfuggire alla nostra consapevolezza e intenzionalità; tuttavia, può esser utile cercare di conoscersi e non perdere contatto con il senso di ciò che si fa con il bambino e dei messaggi che gli si mandano con le parole e con i fatti, ovviamente senza cadere in ruminazioni ossessive.
Educare: uno dei tre mestieri impossibili di Freud, insieme a psicanalizzare e governare; si tratta sempre di orientare in qualche modo più o meno indiretto vissuti e comportamenti di un altro, e quindi questa impossibilità forse è non soltanto inevitabile ma necessaria.