C’è un momento, lo senti arrivare come un cambiamento di luce, in cui la vita smette di chiederti cosa vuoi diventare e inizia a ricordarti cosa sei stato. È il principio d’autunno di cui parlava Hermann Hesse. Le prime foglie che si arricciano, l’aria che fa un respiro più profondo, e tu con lei. “Non può essere sempre estate”, no? È una verità così semplice da accettare per gli alberi, e così terribilmente complicata per noi.
Carl Fredricksen e l’autunno di Trilussa
Mi ritrovo a pensare a Carl Fredricksen, l’uomo di “Up”, con la sua faccia arrabbiata e il suo cuore a pezzi. Legare la casa ai palloncini è una metafora geniale e potente. Aggrapparsi a tutte le proprie cose, ai ricordi, ai mobili, al peso intero di una vita vissuta, e pretendere di volare via ugualmente, verso un passato che brilla in lontananza. È commovente, è eroico, ed è anche un po’ folle. Perché alla fine, il viaggio ti insegna che per volare davvero, bisogna alleggerirsi di alcuni mobili.
E poi c’è Trilussa, che con la sua romana saggezza sa smussare ogni sguardo torvo con un sorriso. Nel suo “Autunno”, ti sembra di cogliere e intravvedere quasi un complice. L’autunno che se ne viene “co’ l’ombrello aperto e un po’ de tosse”, come un vecchio amico un po’ malconcio ma familiare. È questo che mi mancava. La leggerezza. L’ironia di accettare la parabola discendente non come una sconfitta, ma come un cambio di marcia. La vita che da romanzo epico si trasforma in un sonetto. Forse più corto, ma ogni riga è più densa, più ricca e sapiente.
Perché è vero, a volte ci si sente come quell’uomo che cammina da solo verso la fine. Ma la lezione più grande, quella che arriva dai palloncini di Carl e dalla voce bonaria di Trilussa, è che forse non siamo destinati a camminare soli per sempre. A volte la compagnia arriva nei modi più imprevisti: un boy scout chiacchierone, un cane che dice “Ciao, ti ho appena conosciuto e ti amo”, o semplicemente un’idea nuova che bussa alla porta e si trasforma in un racconto.
Viaggia, mangia, ama
Ed è qui che voglio arrivare. A quella frase, a quel comandamento gioioso: “Viaggia, mangia, ama”. Non è un invito alla fuga, non è la ricerca di un’estate perpetua. È il modo di abitare l’autunno. È l’eredità di Elizabeth Gilbert, che ci ricorda che il senso non sta nell’aggirare il destino, ma nell’abbracciarlo con curiosità.
“Viaggia” non significa per forza prendere un aereo. Significa accettare che il percorso non è più in salita, ma è un sentiero nuovo, da esplorare con passo diverso. Significa essere disposti a cambiare prospettiva, anche solo voltando l’angolo di una strada che credevi di conoscere a memoria.
“Mangia” è un atto d’amore per sé stessi. È assaggiare il presente, assaporare i piccoli piaceri che restano, che forse sono i più veri. Un giro in moto, con la mente libera e il vento in faccia. Un caffè caldo, un piatto che profuma di casa, la dolcezza semplice di un frutto di stagione. È un sì alla vita, boccone dopo boccone.
E infine, “ama”. Questo è il palloncino più importante. Quello che, quando tutto il resto sembra pesare, tiene la tua anima sospesa. Ama ciò che hai avuto, ama ciò che resta, ama le crepe che il tempo ha lasciato, perché sono la prova che hai vissuto. Ama le persone inaspettate che incroci lungo la tua strada. Ama il domani non perché sarà perfetto, ma perché semplicemente sarà.
Allora, forse, la parabola discendente non è la fine della storia. È il momento in cui, invece di lottare contro la gravità, impari a planare. A guardare il panorama che prima, nella corsa verso l’alto, non avevi tempo di vedere. È l’autunno di Trilussa che ti offre il suo braccio, è la casa di Carl che, finalmente alleggerita, trova il suo posto perfetto accanto alla cascata.
Il destino è un compagno di viaggio
Il destino non è un nemico da sfidare con un esercito di palloncini. È un compagno di viaggio. E il biglietto, ormai lo sappiamo, è di solo andata. Allora, che questo viaggio sia pieno di sapori da assaggiare, di panorami da custodire negli occhi e nel cuore, e di mani da stringere, anche solo per un tratto di strada.
Perché alla fine, non si tratta di arrivare alla meta senza aver perso un colpo. Si tratta di aver avuto il coraggio di volare, almeno una volta. E di aver trovato, persino nell’autunno, i colori per dipingere un nuovo inizio.
Un caro amico mi ha ricordato che nella vita bisogna aver scritto almeno un libro, aver piantato un albero ed essersi innamorati follemente almeno una volta.
Piantare un albero è un puro atto di fede nel futuro, scrivere un libro testimonia un notevole coraggio nel lasciare un segno, ma innamorarsi follemente è un atto di pura e travolgente poesia. Adesso scusate ma una delle tre cose mi manca e corro a farla.




Complimenti, questo articolo vale come un libro. Secondo me è anche innamorato, altrimenti certe cose non riuscirebbe a pensarle. Corra a piantare l’albero e scriva ancora!
Condivido tutto su questo cambio di passo, sicuramente difficile ma che difendo da tutti gli attacchi che riceve, in nome della celebrazione della sola prestanza, giovinezza o, come dici tu, attitudine epica… Voglio restare nel ciclo del seme, della natura, nelle stagioni, in questo autunno della vita, reclamo il diritto alla lentezza fisica e cognitiva, ad una vista nuova, filtrata dalle lenti del tempo che è stato e che smette di guardare un orizzonte troppo lontano per mettere a fuoco i particolari ancora stupefacenti e vivi di quello vicino.