Recentemente è uscito nei cinema un film diretto da Valerio Mastandrea, molto introspettivo ed intrigante dal punto di vista esistenziale. Esplora a mio parere le dinamiche del mondo sospeso tra la vita e la morte, il valore della fine e la comunicazione tra i possibili mondi in cui ci troviamo a vivere. Il protagonista, interpretato dallo stesso Mastandrea, è il fantasma del se stesso ricoverato in una clinica in stato di coma. Ha avuto un incidente per salvare un bambino ed improvvisamente la sua vita è passata allo stato vegetativo. In questa sospensione egli si muove in una realtà parallela con i suoi simili, quelli degli altri posti letto della clinica. Sono gli amici di una vita nuova, che il mondo esterno non percepisce.
Il ritorno alla vita, laddove accade, viene presentato in maniera altrettanto traumatica rispetto alla perdita di coscienza. Valerio Mastandrea mostra come sia doloroso anche il momento di rientrare nella propria esistenza dopo il coma. Proprio in virtù della vita che si è creata nella sospensione. La morte invece compare come un vento fortissimo che rischia di trascinare via chi non si tiene abbastanza: è possibile resistervi o farsi trasportare passivamente.
La notazione di una paziente in psicoterapia
Nei giorni successivi alla visione del film sono stata molto colpita dalla notazione di un paziente in psicoterapia, relativamente alla figura del protagonista. “Sembra che voglia restare in quel mondo”. Una frase semplice e profonda, che mostra una identificazione con la parte di noi che “si abitua a tutto”, anche ad una pausa indefinita che dall’esterno percepiamo come una assenza di vita. Sappiamo che le cose non stanno proprio così. I livelli di coscienza variano di entità dopo i gravi accidenti cerebrali e possiamo valutare le differenti intensità della presenza nel mondo di una persona. Ma non in maniera così specifica come vorremmo e come gli studi avviati cercano di comprendere.
Le testimonianze di chi ha attraversato questi stati sono molteplici e comprendono sia chi ha vissuto un black out di cui non ha memoria e sia chi ha ricordi di percezioni bizzarre pseudo-oniriche. Per questo motivo le stimolazioni e la presenza dell’altro accanto sono di fondamentale importanza. Basti pensare a quanto si sia perso di questo contatto durante il Covid e quanto poco spazio abbia nelle strutture sanitarie la vicinanza del familiare caregiver, pur se surrogata da volenterosi operatori che a volte fanno la differenza anche con un solo gesto.
A questo proposito il pensiero corre a tutte le vite dei sempre più numerosi anziani che occupano i letti delle RSA. Il loro posto è a tempo spesso indeterminato, finché le comorbilità o qualche insulto maggiore non ne determini l’ultimo esito infausto. Nel frattempo, i relativi caregiver sono a loro volta sospesi in questa relazione con il proprio caro. In tale situazione non è soltanto la morte a far paura, ma forse ancor di più le variazioni che possono intercorrere nel decorso e le decisioni da prendere per tentare di prolungare questo stato di vita.
I pensieri dei familiari vagano da questioni tecniche tra cui destreggiarsi e relativi dubbi, agli interrogativi drammatici: “starò facendo la cosa giusta applicando questo o quel presidio per prolungare la vita? Mia madre lo vorrebbe? Chissà se e quanto sta soffrendo..” Pensieri spesso vissuti in solitudine o con l’appoggio di qualche curante illuminato o ancora con l’incoraggiamento di conoscenti immersi nelle stesse acque.
“Le intermittenze della morte” di Saramago
Nel libro “Le intermittenze della morte” di J. Saramago, viene descritta una condizione limite in tal senso. In un luogo in cui non si può più morire, si realizzano pellegrinaggi di familiari che letteralmente conducono i malati sospesi tra la vita e la morte oltre il confine, dove la morte può finalmente sopraggiungere. Col sollievo di chi ha vissuto nell’impossibilità di seguire il corso naturale delle cose, a causa dell’innaturale assenza della fine. E Mastandrea contribuisce ad esplorare questo territorio sempre più sconosciuto e rimosso dalla nostra società.
Il protagonista del film di Valerio Mastandrea
Nel film inoltre il protagonista si innamora di una donna, che improvvisamente ritorna alla vita. Non ricorderà nulla del loro amore, come previsto dalla legge di questo luogo limite. Il protagonista decide dunque di affidare ad un volontario della clinica il compito di raccordare i due mondi, in virtù della sua capacità di comunicare sia con i comatosi sia con i vivi. Il mediatore incontra l’innamorata rediviva nell’ultima scena, per portarle il messaggio del suo amato dimenticato. Quasi a testimoniare che può esistere una possibilità di connessione tra le realtà, molteplici ed anche drammatiche, che si verificano nella vita. Nell’incontro finale, di fronte all’interrogativo del mediatore: “Da dove inizio?” La donna risponde laconica : ”Dalla fine”. Perché è proprio nella fine, oggi così dimenticata e snaturata, che spesso tutto converge e riacquista significato.
Anche da un punto di vista psicologico la morte viene vista in maniera troppo dicotomica, un po’ come un televisore che si spegne, quando invece le neuroscienze ci parlano di una serie di passaggi graduali e ancora non possono spiegare appieno strani fenomeni come quello romanzato nella serie citata dalla collega nell’interessante articolo. Come può un cervello alla soglia della morte e con una attività minima produrre immagini così vivide? La filosofia della scienza propone una coscienza non locale, che verrebbe solo filtrata dal cervello, non prodotta (cfr. ad esempio autori come Bergson, Huxley e James) e che spiegherebbe tali fenomeni. Quale che sia la verità, il messaggio simbolico della serie è potente: quanto un limbo può essere attraente, quanto l’idea di cristallizzare il tempo ci attrae e quanto a volte anche il ritorno alla vita anche psichica (come nel caso della psicosi) sia tutt’ altro che facile e gioioso