Commento all‘articolo apparso su La Repubblica il 10 giugno 2016
Mi pare importante e centrata la domanda: “Cosa condivido io con l’assassino?”. Infatti il negare, di fronte a questo e a ogni altro criminale, la nostra comune umanità, è una tipica difesa scissionale e come tale ingannevole. Non so, invece, se la risposta stia nell’identificare, quale base di certi comportamenti, un “mix letale di pre e postmoderno”, come dice l’autore dell’articolo; mi pare piuttosto che la nostra spinta, superata ampiamente ma mai del tutto, a tenere la donna in posizione subordinata abbia una radice a-storica. Non possiamo dimenticare che da infanti ci troviamo in una condizione di totale ed esclusiva dipendenza dalla madre, che è arbitra della nostra vita e morte; condizione la cui drammaticità è stata così fortemente delineata da Melania Klein e dai suoi grandi epigoni.
L’abbandono per il lattante significa morte, nel vissuto e nella realtà fattuale: è forse questa angoscia che si ripresenta nei femminicidi seguiti alla rottura del rapporto, così spesso seguiti da suicidio? Forse il femminicida mette in scena nel mondo esterno le sensazioni provocate dalla rottura, rivendicando a sè stesso il potere che attribuiva alla donna di finire la sua vita? Attua un tentativo di non sentirsi impotente davanti alla morte?
Anche dopo, la donna mantiene un aspetto di superiorità non cancellabile: l’esclusiva della riproduzione, che ha potuto essere fonte di invidia in chi non era consapevole della propria genitorialità. E’ plausibile infatti pensare che la scoperta della paternità sia stata piuttosto tardiva, data la lunghezza della gestazione e la verosimile promiscuità sessuale che dovevano rendere difficile non solo identificare un padre, ma perfino supporne l’esistenza. Acquisita questa consapevolezza, che comunque lascia al padre un ruolo riproduttivo marginale, l’invidia non è venuta meno: ancora pochi secoli fa, ha ispirato posizioni addirittura paradossali, quali il negare alla donna una reale capacità generativa, confinandola nel ruolo di semplice “terreno di cultura” idoneo ad accogliere e nutrire il solo vero seme, quello maschile: un po’ come la terra fa con i semi delle piante.
In qualche modo dunque la donna non può non essere sentita come padrona della vita.
Nei millenni, forse il maschio si è rifatto ricorrendo alla propria superiore forza muscolare, e la consapevolezza della funzione paterna lo ha indotto all’uso della forza anche per garantirsi la certezza della paternità tramite l’esclusiva nei rapporti sessuali con una donna divenuta moglie (ricerche indicano che la forma del glande si sarebbe evoluta per spalare via il seme dei rivali dalla vagina della propria partner sessuale); esclusiva da sempre difesa e sostenuta anche con l’omicidio e femminicidio.
Allora è probabile che nell’attuale profonda revisione del rapporto fra i sessi abbia un importante ruolo la progressiva perdita di importanza proprio della forza fisica, sempre più sostituita da quella delle macchine nella quotidianità, nel lavoro, perfino nella guerra; e che trova un residuo miserabile ruolo proprio nell’aggressione fisica diretta alla compagna o ex compagna.
Fa parte di queste dinamiche il discorso del matriarcato. È davvero esistito un tempo, come qualcuno ha sostenuto? Ha lasciato traccia di sé in certe popolazioni, come quelle delle Trobriand delle classiche ricerche di Malinovski, o ancora oggi fra i Tuareg dove le donne possono divorziare, restando loro padrone della tenda coniugale, dove organizzano festini probabilmente con implicazioni sessuali?
Se non è esistito, ha evidentemente un ruolo nel nostro immaginario. Certo, in antiche culture si ripresentano forti figure femminili: le veneri callipige della preistoria, in cui possiamo conoscere solo l’esaltazione della capacità riproduttiva; e Gaia, terra madre di cui lo stesso Zeus non è che un nipote, anche se poi la lascia nel dimenticatoio, non associandola al proprio potere assoluto conquistato con la violenza in ripetuti scontri sanguinosi (apologo della storia del rapporto fra i sessi?). E poi, la Dea dei serpenti della Creta minoica ( dove le donne erano protagoniste di corride, probabilmente incruente), che esibisce ostentatamente il seno e impugna, controllandoli fieramente, due serpenti: scontata simbologia fallica.
Se le radici della prepotenza maschile sono così profonde, dunque non sono eliminabili? Non so; ma certamente molte cose sono cambiate, e possono ulteriormente cambiare. E’ una nostra responsabilità, una sfida alla nostra capacità di maturare. Ma qui si aprirebbe un altro discorso, implicante la dimensione dell’amore.