«Ci sarà qualcun altro lì fuori? Qualche sera ho visto delle luci al di là del muro».
Nel mondo distopico del romanzo Divergent, scritto da Veronica Roth e da cui nel 2014 è stato tratto un film diretto da Neil Burgler, a seguito di una terribile guerra l’Umanità si ritrova racchiusa all’interno di una singola città, dove vige una società rigidamente divisa in caste. All’esterno, solo lande desolate e radioattive, che secondo il governo sono completamente disabitate. Eppure, come emerge nel dialogo tra la protagonista e un suo amico, qualcuno ogni tanto ha l’impressione di scorgere segni di vita oltre il gigantesco muro che separa la città dal resto del mondo. Senza svelare troppo, si scoprirà che il governo ha sempre mentito sulla presenza di altre persone al di fuori degli abitanti della città, nel tentativo di conservare il potere e portare avanti segreti esperimenti di genetica sociale.
Muri fisici, morali e digitali
Fantascienza, sì, ma non troppo distante dalla realtà. La storia dell’uomo è piena di muri che separano le persone: muri fisici, come il celebre muro di Berlino, oppure muri morali, come nel caso dell’apartheid sudafricano. Al giorno d’oggi, infine, siamo anche capaci di costruire anche muri virtuali, come accade con le reti internet chiuse esistenti in Cina o in Corea del Nord, che impediscono agli abitanti di accedere a notizie indipendenti o di informarsi liberamente, se non passando attraverso i filtri imposti dai loro governi dispotici.
L’isolamento
Ma perché è così importante, per uno stato totalitario, isolare i propri cittadini? Quale vantaggio può trarre un dittatore dal tenere chiuso un intero popolo all’interno della sua nazione, quando in un mondo interconnesso come quello attuale sembra praticamente impossibile escludere del tutto il resto dell’umanità dai pensieri e dai desideri dei propri sudditi? Non esiste una risposta semplice, e naturalmente le variabili antropologiche e sociali sono moltissime. Tuttavia, al di là dell’efficacia concreta di queste misure restrittive, mi viene in mente che un atteggiamento di estrema chiusura possa essere la manifestazione esterna di un movimento psichico descritto dalla psicoanalisi già da tempo: quello della posizione schizo-paranoide.
La posizione schizo-paranoide
Melanie Klein, pioniera dell’analisi infantile, ipotizzava che prima dello stadio più maturo della psiche — da lei definito posizione depressiva, caratterizzato dalla capacità di provare senso di colpa per le proprie azioni distruttive e quindi di riparare — esistesse una fase primitiva chiamata appunto posizione schizo-paranoide. Essa rappresenta uno stato in cui la mente scinde i contenuti in dicotomie opposte: le cose e le persone vengono rigidamente classificate in categorie distinte, come bello o brutto, buono o cattivo. Questo tipo di visione semplifica notevolmente la realtà e consente alla psiche di provare rabbia e aggressività senza doversi sentire in colpa per le conseguenze, spingendo distante gli oggetti “cattivi” e garantendosi in questo modo protezione dall’annichilimento.
A mio avviso, è proprio questa la causa psicologica più profonda dell’isolamento di un popolo dietro le sue mura: etichettarlo come “buono”, quindi necessitante di protezione, e attribuire la colpa del suo isolamento ai “cattivi” che si trovano all’esterno. In questo modo, la rabbia e la frustrazione dei cittadini possono trovare un bersaglio fuori da loro stessi, anziché rivolgersi contro i veri responsabili della loro oppressione, che siedono nella capitale. George Orwell descriveva con grande maestria in 1984 come il governo del Grande Fratello mantenesse in vita un’opposizione fittizia, capeggiata da un certo Goldstein, proprio per spingere i cittadini a incolpare questo fantomatico nemico di tutte le loro sofferenze, riuscendo così a canalizzare l’odio verso una figura esterna e inesistente, piuttosto che verso l’apparato repressivo che realmente li dominava.
Perché un popolo in isolamento non di oppone?
Quando ci si domanda perché le persone in Corea del Nord o in Eritrea non si ribellino ai loro persecutori, non è sufficiente rispondere con la sola paura delle ritorsioni. Occorre comprendere che queste persone sono le prime schiave di una visione del mondo che è stata loro imposta. Molto spesso, più che ribellione interna, ciò che questa condizione produce è ostilità verso le nazioni che rappresentano modelli di società più aperti e rispettosi dei diritti civili, le quali vengono viste portatrici di valori immorali e come dirette responsabili, a causa della loro politica verso la nazione dei “buoni”, della condizione di miseria in cui il popolo si trova.
Questi paesi vengono quindi visti come oggetti cattivi, da combattere e punire in tutti i modi possibili, non ultimo il terrorismo. Non sorprende allora, e proprio ora che il 25 aprile è da poco passato, giova sottolinearlo, come il popolo tedesco e quello italiano per anni siano stati complici attivi dei regimi dittatoriali del secolo scorso, con scarsa o nulla resistenza, fatta eccezione per pochi episodi eroici, almeno fino a quando quei regimi sono rimasti forti e solidi.
La dinamica psicologica che origina da vissuti infantili tra i più arcaici si riproduce, quindi, anche a livello sociale, con meccanismi più complessi ma ancora perfettamente funzionanti.
L’opposizione politica
Fortunatamente, questo meccanismo non è perfetto. Per quanto un regime possa essere autocratico e isolazionista, non può impedire del tutto lo sviluppo di figure di opposizione politica, di movimenti organizzati di resistenza, e in alcuni casi nemmeno di un sovvertimento interno, come avvenne con la votazione dell’Ordine del Giorno Grandi e la conseguente caduta del fascismo, che segnò poi l’inizio della resistenza armata a livello nazionale.
Ogni tanto, quindi, per quanto la notte sia buia e le barricate alte, qualcuno riesce ancora a intravedere delle luci al di là del muro.
Interessante interpretazione delle scissioni e del potere nel corso del tempo e dei loro corrispettivi psichici. A tal proposito mi viene in mente il film “Dogtooth” di Lantimos, in cui la frattura interno- esterno è espressa nella creazione voluta da parte dei genitori di una segregazione dei figli, che crescono in totale isolamento dal mondo esterno. Educazione, alimentazione, gioco e sessualità si sviluppano dittatorialmente all’interno in maniera distopica. Finché qualcosa non entra in quel mondo chiuso.. allora il regime totalitario va in crisi perché l’identità che i figli ricercano per loro natura ha bisogno dell’Altro per compiersi.