Sul tema della responsabilità, da diversi anni, nei servizi per la salute mentale vi è una profonda preoccupazione in quanto è “dato ormai per acquisito che lo psichiatra rivesta una posizione di garanzia (a carattere terapeutico) penalmente rilevante nei confronti del suo paziente”.[1] Davvero si può dare per acquisito? Da dove discende l’obbligo dello psichiatra di impedire eventi? Non impedirli equivale davvero a causarli? Lo psichiatra è concretamente posto nella condizione di espletare l’attività di impedimento di eventi? Con quali mezzi? La persona con disturbi mentali può essere considerata in sé una fonte di pericolo?
A mio parere, e cercherò di dimostrarlo, non si può affatto dare per acquisito che allo psichiatra sia applicabile la posizione di garanzia ex art 40 del codice penale[2]. Anzi, viene da chiedersi come sia stato possibile applicare alla medicina ed in particolare alla psichiatria, disciplina nota per la sua complessità, una nozione giuridica che è stata utilizzata in ben altri contesti (esplosivi ecc.). Oltre alle ragioni e alle circostanze per le quali è stato fatto, occorre anche interrogarsi se siano state colte e valutate le possibili conseguenze di tale scelta.
Quello della responsabilità dello psichiatra è un tema antico. Infatti, il problema dell’accusa degli psichiatri per atti commessi dai pazienti era presente anche prima della legge 180 del 1978 e probabilmente le basi giuridiche di allora potevano anche essere più fondate.
Ricordo le accuse allo psichiatra Franco Basaglia[3] per i casi “Miklus” (1968) che uccise la moglie durante un permesso dall’Ospedale Psichiatrico di Gorizia e “Savarin” (1972) un paziente dimesso dall’Ospedale Psichiatrico di Trieste che aveva ucciso i genitori. In entrambi i processi Basaglia non solo fu assolto ma ebbe il sostegno e la solidarietà della comunità scientifica, di molti intellettuali e politici compreso l’allora ministro della sanità Luigi Mariotti. Questo, a dimostrazione che non sono solo le leggi quanto la loro applicazione ed il clima in cui questa avviene ad essere rilevanti nella stesura delle sentenze.
Verso la “pseudopsichiatria”?
Non è questa la sede per ripercorrere l’andamento del rapporto tra psichiatria e giustizia dopo l’approvazione della 180. Tuttavia ai fini del nostro discorso ricordo due sentenze della Corte di Cassazione che hanno confermato la condanna di psichiatri, una per omicidio (n. 10795/2008,) e l’altra per suicidio (n. 48292/2008) commessi da pazienti in cura, sulla base dell’attribuzione allo psichiatra della posizione di garanzia. A fronte di questi pronunciamenti è comprensibile come gli psichiatri e i servizi per la salute mentale siano molto preoccupati in caso di possibili atti-reato commessi da persone in cura in quanto rischiano di essere chiamati in causa, ricevere avvisi di garanzia, subire interrogatori, indagini e processi. In questo un ruolo attivo hanno non solo i magistrati ma anche familiari, avvocati e talora anche i media.
Oltre a questi fattori non ha giovato l’azione di semplificazione diagnostica e terapeutica operata prima dai Manuali Diagnostici Statistici (DSM) e dalle Linee Guida (LG). Strumenti importanti che, se utilizzati in contesti e per scopi diversi da quelli per i quali sono stati concepiti, rischiano di creare dei veri e propri mostri. Il DSM nato per migliorare affidabilità della diagnosi e la comunicazione tra professionisti anche ai fini statistici, porta a diagnosi descrittive senza tenere conto di tutta la profondità e la complessità della psicopatologia classica.
Basta spuntare un po’ di items e raggiungere un certo numero di criteri e la diagnosi è fatta. Lo stesso per quanto attiene alle LG: si tratta di raccomandazioni a diverso grado di evidenza scientifica e di forza operativa che rischiano di diventare norme e leggi da seguire in modo quasi del tutto indipendente dalla persona che soffre, unica e irripetibile. Se DSM e LG entrano nell’armamentario dei giuristi rischiano di creare una “pseudopsichiatria”, un costrutto teorico del tutto distaccato dal reale, dall’operatività e dalla vitalità delle relazioni.
Si realizza così una codificazione/cosificazione e falsificazione della disciplina dove il fare si distanzia totalmente dal comprendere, dove il giusto sta nella corresponsione alla norma e non nella sua azione nel mondo interno della persona, nelle sue relazioni anche queste uniche e irripetibili. Una “pseudopsichiatria”, povera, oggettivante, prescrittiva e in fondo sottilmente autoritaria o abbandonica ma sempre dalla parte del giusto e della certezza secondo un modello semplicistico, lineare, neopositivista (una diagnosi, una cura). Tutto al di fuori della complessità scientifica, dei molteplici fattori biologici, psicologi e sociali fortemente intrecciati e in reciproca costante influenza, molto lontana dall’insieme degli elementi che portano al miglioramento e alla guarigione.
La psichiatria è prima di tutto incontro umano, di persone con bagagli e punti di vista diversi, con le loro debolezze e aspirazioni, idee e sentimenti, visioni del mondo che certo possono anche derivare da un disturbo ma che richiedono quale premessa e veicolo della cura, la capacità di empatia, di trovare la chiave per entrare delicatamente nel mondo interiore dell’altro. Non “si fa così” ma un “comprendiamo e facciamo, se possibile e per quanto possibile, insieme”, un procedere accanto, a volte lento, faticoso e incerto. Spesso assai difficile per tutti, paziente, famiglia, professionisti e contesto.
Il diritto, la cultura giuridica può basarsi sul costrutto teorico artificioso della “pseudopsichiatria”? Non corre a sua volta il rischio di produrre ingiustizia e arbitrio (una “pseudogiustizia”) venendo meno all’autorevolezza e alla saggezza che viene riconosciuta alla legge e alla sua amministrazione.
La posizione di garanzia è inapplicabile allo psichiatra
Torniamo alla posizione di garanzia: può esservi per lo psichiatra un obbligo giuridico di impedire l’evento dannoso per il paziente o da questo causato a terzi? Attribuire al medico la posizione di garanzia non sia solo sbagliato ma sia assai pericoloso. Per diversi motivi lo psichiatra non può essere responsabile per le azioni commesse dai pazienti in cura. Mi limito a quelli più rilevanti:
- Di fronte a fatti-reato, l’incapacità d’intendere e volere (art. 88 c.p.) deve essere dimostrata in modo circostanziato poiché il fatto può derivare da una libera scelta consapevole; anche nel caso si dimostri la non imputabilità per disturbo mentale, il reato non può certo collegarsi causalmente e in modo diretto all’operato (o all’omissione) dello psichiatra. In altre parole non si può pensare che tutta la responsabilità ricada sempre e comunque sullo psichiatra mentre il paziente, non imputabile/prosciolto/ incapace di dare un consenso valido ed un’adeguata collaborazione adesione alle cure sia, per i propri comportamenti, sempre “irresponsabile”. Il che non solo non corrisponde alla realtà ma risulta diseducativo e profondamente antiterapeutico. Occorre evitare che si determini una sorta di andamento circolare della responsabilità che parte dallo psichiatra e in un qualche modo torna sempre su di lui (al quale può essere attribuita come colpa anche il mancato consenso alle cure e gli agiti del paziente?). Una sorta di responsabilità “da contatto” che renderebbe impossibile la professione. D’altra parte il criterio per la definizione del nesso di causalità tra l’operato del medico e la condotta reato o autolesiva del paziente non può essere quello “dell’aumento del rischio” definito dalla Corte di Cassazione come assolutamente inadeguato (sentenza n. 30328 /2002, nota come sentenza “Franzese”).
- Dopo i fatti reato, ex post talora viene imputato allo psichiatra l’omissione dei trattamenti sanitari obbligatori ospedalieri dimenticando che la disciplina legislativa (legge 883/78) li configura come interventi terapeutici urgenti con precise condizioni e limitata durata ma esclude che abbiano finalità di prevenzione di reati; anche in relazione alla continuità di cura nell’attuale ordinamento non vi è alcuna possibilità giuridica da parte del medico di imporre al paziente dimesso trattamenti a lungo termine. Non solo ma nessuna linea guida si esprime sulla necessità di terapie farmacologiche sine die e la limitazione della libertà e in particolare la contenzione è sempre più oggetto di attenzione non solo sotto il profilo penale ed etico[4] ma anche medico.
- La nozione di pericolosità sociale presunta (ex art. 204 del c.p.) per malattia mentale è stata abolita; la legge 180/78 (poi 833/78) supera la nozione di “pericolosità a sé e agli altri” a favore
di un modello di cura diverso basato sul consenso, la responsabilità, la territorialità e quindi limita il ricorso ai trattamenti sanitari obbligatori ospedalieri alle sole condizioni urgenti, di rifiuto delle cure e nell’impossibilità di attuare adeguati e tempestivi interventi terapeutici nel territori. - La psichiatria è complessa, incerta ed i limiti della disciplina sono rilevanti. Infatti, mediante metodi scientifici non vi è la possibilità di prevedere i comportamenti umani (se ciò fosse possibile perché non applicarlo anche ad altre condotte?), non vi è la capacità di prevenire comportamenti aggressivi auto o eterodiretti. Si possono solo valutare i fattori di rischio, precipitanti e di protezione. Il soggetto può non essere pericoloso ma diventarlo dopo l’assunzione di sostanze (alcool o cocaina ad esempio) o in condizioni di disagio o stress (dovremmo imputare il datore di lavoro per la depressione o il suicidio dei cassaintegrati?). Quindi si tratta di condizioni non inscritte solo nella patologia o negli aspetti biologici ma dipendenti da molteplici fattori psicologici, relazionali, sociali ed economici (ad esempio un paziente tossicodipendente in astinenza può commettere un reato per procurarsi il denaro per la droga mentre non fa assolutamente nulla se ha la dose). Ne consegue che la pericolosità non è una condizione statica ma dinamica e correlata con una molteplicità di fattori e relazioni variabili nel tempo/spazio.
- I comportamenti sono multideterminati, le modalità con le quali si presentano i pericoli e i rischi sono molteplici e variegate e non vi è un provvedimento sanitario o un insieme di provvedimenti che siano certamente indicati, efficaci e adottabili in modo chiaro e inequivoco. Al contrario ogni azione di cura ha sempre molteplici significati e differenti, a volte contrastanti, conseguenze. Al contrario delle altre situazioni dove si applica la posizione di garanzia, in psichiatria non solo gli eventi da impedire sono diversi e imprevedibili, ma anche le azioni teoricamente adottabili sono assai differenti, non univoche e con tante possibili implicazioni/conseguenze, quindi fondate sull’incertezza e il dubbio.
Ne consegue che la possibilità di controllo dei comportamenti aggressivi di persone sane di mente o malate è nella pratica assai limitata; i comportamenti umani sono complessi e multideterminati da fattori biologici, psicologici e sociali, ambientali e culturali. Ogni semplificazione è pericolosa e fuorviante. Occorre poi distinguere fra prevedibilità teorica su base epidemiologica, statistica, diagnostica ecc. e prevenibilità reale delle singole situazioni dove spesso si assiste ad una persistenza di condizioni di rischio (“suicidialità continua”, agiti aggressivi ripetuti ecc.) rispetto alle quali sono in difficoltà non solo gli psichiatri ma le stesse forze dell’ordine e i magistrati.
Si pensi allo stalking, alle violenze all’interno delle famiglie, ai reati connessi alle dipendenze patologiche sempre più intrecciate con i disturbi mentali, agli incidenti stradali dovuti all’alcool e/o sostanze. L’elenco potrebbe continuare. Conviene quindi prendere atto della difficoltà del compito e non avanzare soluzioni semplicistiche e lineari. Inoltre non si può dimenticare che nell’attuale assetto organizzativo, la psichiatria non dispone di strutture coercitive e la maggior parte delle strutture sanitarie e socio sanitarie psichiatriche ha gli standard di sicurezza simili a quelli delle comuni abitazioni.
In questo contesto occorre anche da parte dei tecnici una comunicazione più misurata, positiva, ma attenta ad esplicitare limiti, rischi-benefici, complicanze e esiti sfavorevoli come si evince dalla letteratura scientifica che responsabilizzi l’utente (e quando possibile le famiglie) e lo renda protagonista del suo percorso di cura. La costruzione del consenso, la partecipazione attiva alla progettazione del progetto di cura, alla sua programmazione e realizzazione non costituiscono solo elementi di una buona pratica clinica ma rappresentano anche fattori che aiutano a creare una maggiore sicurezza anche in termini medico legali.
Dopo la legge 81/2014
La questione della posizione di garanzia è ancor più preoccupante dopo l’approvazione della legge 81/2014. Come noto la legge ha previsto la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) e considera residuali le misure di sicurezza detentive in favore di quelle non detentive (libertà vigilata) dando la netta priorità alla cura di queste persone nei servizi del dipartimento di salute mentale. In questi percorsi i servizi possono svolgere solo le funzioni di cura mentre la vigilanza e la prevenzione di nuovi reati sono affidate alle forze dell’Ordine. All’interno delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) si cura la costruzione della sicurezza come prodotto complesso responsabilizzando tutti i soggetti, utenti compresi.
Il mandato di cura è di competenza dei sanitari mentre quello di controllo/custodia spetta alle Forze dell’ordine, chiamate a garantire l’ordine pubblico. Questa distinzione è essenziale altrimenti prevarrà e sarà realizzato solo il mandato di custodia con tutte le conseguenze negative derivanti dal venire meno della cura che solo l’equipe psichiatrica può realizzare.
I professionisti fanno quanto possibile, sia per curare le persone sia per sensibilizzare i contesti in quanto un maggiore impegno della società potrebbe aiutare a ridurre povertà, stigma, emarginazione e abbandono che, come noto, influiscono sul rischio di ricadute/recidive. E pur con tutte le cure, nessuno però ha il potere della veggenza[5]. Non viene chiesto alle forze dell’ordine, ai magistrati nei confronti del soggetto (sano) autore di reato e ad alto rischio di recidiva talora palese e altamente probabile.
La responsabilità è personale, anche per la persona con disturbi mentali. Questo va detto specie in questa fase post-OPG nella quale è essenziale un metodo condiviso tra magistrati, psichiatri e comunità sociale, una presa in carico interistituzionale per prevenire e gestire congiuntamente e in modo condiviso gli inevitabili rischi e attuare i programmi terapeutici e riabilitativi formulati secondo criteri tecnici e scientifici.
In questo occorre tenere sempre conto della mancanza di certezze assolute e della frequente incertezza e del dubbio insito nelle pratiche psichiatriche e sociali che vanno viste ex ante e non ex post, magari dopo un grave incidente. Quindi il modello di cura adottato in Italia è fondato su precise leggi, requisiti e strutture e non può assumere caratteristiche custodialistiche. Chiedere questo al singolo medico, cioè di essere in grado con strumenti tecnici e scientifici di predire e prevenire i comportamenti umani significa attribuirgli un compito umanamente impossibile.
Il contesto non aiuta: i cambiamenti socio-culturali (le variazioni e la crisi delle famiglie, l’invecchiamento della popolazione, le solitudini e le povertà, le insicurezze, le migrazioni, l’uso di sostanze e dipendenze di vario tipo, le migrazioni) hanno facilitato una crisi la cultura dell’inclusione e della tolleranza e sviluppata una tendenza sociale alla proiezione, alla rivendicazione, alla ricerca di colpevoli/responsabili ai quali richiedere e ottenere risarcimenti.
La crisi della cultura del welfare pubblico, che almeno teoricamente garantiva diritti e doveri per tutti, e l’idea di combattere i mali dell’assistenzialismo hanno prodotto due fenomeni: quello dell’emarginazione di fasce ampie di popolazione collocate ai limiti e nelle povertà e l’altro quello di incentivare la contrattualistica privata delle persone (tra di loro) e con quel che resta di servizio pubblico. Rivendicazioni non in nome di un sistema pubblico di comunità (da cambiare, migliorare, riformare) ma di diritti privati e individuali di cui richiedere il riconoscimento in sede penale e civile. E in questo la classe medica, impreparata sul piano giuridico, formata sul principio della beneficialità, costituisce un bersaglio (quasi) ideale, in grado di assumere su di sé il conflitto con l’utente e al contempo tutti i problemi istituzionali e organizzativi ad essa lasciati dalla gestione manageriale economicista.
Se questo è il quadro, deve essere assai chiaro ciò che compete alla psichiatria verso la quale le aspettative sono ambivalenti con tutte le possibili conseguenze sulle pratiche non solo dei singoli psichiatri ma anche dei servizi per la salute mentale, ai quali nell’attuale contesto normativo e operativo compete il mandato di cura mentre quello di controllo (e tanto meno quello custodialistico) sono del tutto estranei anche per ragioni organizzative. Non solo ma l’esercizio del mandato di controllo nel tempo annulla completamente quello di cura.
La posizione di garanzia e il mandato della psichiatria
Secondo la giurisprudenza la posizione di garanzia è riferibile, sotto il profilo funzionale, a due categorie: la prima categoria la posizione di garanzia c.d. “di protezione” e la seconda c.d. “di controllo”.
Allo psichiatra, analogamente agli altri medici, può essere attribuita al più la posizione di garanzia c.d. “di protezione” che potrebbe sostanziarsi, ad esempio, in una terapia con clozapina senza prescrivere i necessari controlli dell’emocromo. Quanto invece alla posizione di garanzia c.d. “di controllo” è totalmente inapplicabile perchè la psichiatria non solo non può esercitare il mandato di controllo-custodia (in quanto priva della base legislativa-tecnico-scientifico-organizzativa) ma se vuole mantenere/preservare il mandato di cura deve tenere presente che questo si può realizzare solo con il consenso e il concorso attivo del paziente in una prospettiva di libertà e autodeterminazione della persona che soffre.
Questa dovrà di trovare nello psichiatra non un controllore, un protettore ma un alleato investito di fiducia. Uno psichiatra in grado di non giudicare, di essere con il paziente, di stare dalla parte del torto. Non una psichiatria delle ubbidienze, di apparenti e decantate certezze (e quelle della legge sono assai seduttive), ausiliaria della magistratura e del potere ma capace di correre rischi (senza alcun rischio nulla cambia), essere con il dissenso, alla ricerca di un’alleanza e di un comune sentire, di nuovi significati, speranze e prospettive senza un ottimismo terapeutico con il quale spesso gli psichiatri si rapportano con i mass media: ove sembra tutto chiaro, curabile ecc.
Questo atteggiamento ha sostituito il precedente nichilismo terapeutico ma rischia di essere altrettanto pericoloso in quanto genera elevate ed irrealistiche aspettative con la conseguenza di vedere attribuite le mancate guarigioni, i problemi ecc. all’incapacità, alla colpa del singolo professionista.
Nel rapporto di cura, in quella profonda relazione che lega, quando funziona, psichiatra e paziente sono innumerevoli le notizie, le rappresentazioni, i fatti, che potrebbero avere un rilievo penale e che applicando le norme del c.p. potrebbero dare luogo a comunicazioni (rapporti, referti ecc.) all’Autorità Giudiziaria. Ma questo assai frequentemente non accade perché e solo con il costituirsi del segreto, di un’area intima di lavoro che i problemi intrapsichici e relazionali possono trovare composizione e soluzione.
Il paziente non ha bisogno di uno psichiatra che lo vive come un pericolo e in chiave securitaria lo teme ed è pronto a ricorrere alle Forze dell’Ordine (chi mai può fidarsi di una psichiatria incapace di mantenere il segreto, di tutelare le persone) ma di chi sta dalla sua parte, che sa fronteggiare e tollerare i rischi senza assumere posizioni difensive (e quindi protettive del solo medico) alla fine dannose per il paziente. Per consentire allo psichiatra di svolgere il suo lavoro non deve rispondere alla posizione di garanzia e gli va assicurato il “privilegio terapeutico”. Alla responsabilità individuale, ristretta al solo dolo, dovrebbe essere sostituita quella istituzionale.
Le variazioni del rapporto medico paziente, dal modello paternalistico-impositivo a quello paritario – collaborativo implicano nell’operatività un travagliato e incompiuto passaggio dal principio di beneficialità a quello della contrattualità, del consenso e del patto e ciò sposta dall’etica dell’intenzione a quella della responsabilità. Tuttavia, al contempo e in modo un po’ contraddittorio, si ha l’impressione che al medico si stia sempre più chiedendo certezza di risultati piuttosto che obbligo di mezzi da proporre alla persona che mantiene l’ultima parola.
È del tutto irrazionale ma persiste la diffusa convinzione che lo psichiatra abbia “poteri speciali” per convincere la persona a curarsi o per guarire o controllare condotte disturbate o aggressive. Al contempo, vengano fortemente sottovalutate le difficoltà/resistenze che il paziente (non solo quello affetto da disturbi mentali) o la sua famiglia oppone alla cura e alle indicazioni del medico di un adeguato trattamento terapeutico.
La legge 219/2017 riconosce che la posizione del paziente è un fattore che limita la responsabilità del medico e ciò è in linea con le migliori conoscenze tecnico-scientifiche ed etiche. Infatti dal punto di vista clinico occorre tenere conto che attualmente in medicina vi è sempre più il problema del consenso e della compliance che non sono condizioni tutto-nulla ma spesso si collocano in un continuum nell’ambito di una relazione di cura sempre più negoziale, frequentemente gestita dal paziente secondo le sue convinzioni e preferenze e questo è certamente rilevante ai fini della responsabilità.
Conclusioni
La posizione di garanzia non si può applicare alla psichiatria. Per questo è certamente auspicabile che la magistratura tenga conto delle effettive difficoltà, dei limiti conoscitivi, delle incertezze diagnostiche e terapeutiche, delle reali possibilità della psichiatria e dell’attuale organizzazione dei servizi in cui si svolge l’attività professionale dei singoli operatori. E su questa base attribuire le giuste norme di responsabilità personale e sociale nell’ambito del patto di convivenza sociale tracciato dalla Carta costituzionale.
Da parte degli psichiatri, se vogliamo evitare la deriva della psichiatria “impossibile” dove contemporaneamente vengono avanzate richieste inconciliabili (libertà e coercizione, cura e controllo senza strutture per il controllo ecc.) o la “psichiatria difensiva” fatta per proteggere l’operatore ma che non cura, evita i più gravi, minimizza i rischi, non dimette ecc. con danni incalcolabili a lungo termine, dobbiamo rappresentare correttamente la nostra disciplina, nei suoi punti di forze, nei suoi limiti, studiare scientificamente i fenomeni e la loro veridicità (più coercizione dà più sicurezza?).
I grandi cambiamenti della psichiatria italiana, unici nel panorama internazionale, al di là delle declinazioni di scuola, hanno a fondamento una comune radice culturale umanitaria e un senso sociale della responsabilità che, nella sua espressione migliore, tiene sempre conto nelle pratiche dell’importanza della relazione di cura, dei complessi fattori che la caratterizzano, del rispetto dei diritti e dei doveri e dei fattori etici, senza mai dimenticare che la salute mentale è un prodotto relazionale complesso alla cui costruzione e mantenimento deve concorrere tutta la società.
[1] Cristiano Cupelli “La colpa dello psichiatra. Rischi e responsabilità tra poteri impeditivi, regole cautelari e linee guida” (Diritto Penale Contemporaneo, 21 marzo 2016) http://www.penalecontemporaneo.it/materia/-/-/-/4580-la_colpa_dello_psichiatra__rischi_e_responsabilit___tra_poteri_impeditivi__regole_cautelari_e_linee_guida/ ).
[2] Art. 40 c.p. Nessuno puo’ essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non e’ conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.
[3] Colucci M., Di Vittorio P. “Franco Basaglia” Ed Bruno Mondadori, 2001
[4] La contenzione: problemi bioetici. Comitato Nazionale per la Bioetica 23 aprile 2015
Massa M. “La contenzione. Profili costituzionali: diritti e libertà.” In “Il nodo della contenzione. Diritto, psichiatria e dignità della persona” S. Rossi (a cura di) Edizioni Alpha beta Verlag, Merano, 2015
[5] Moretti V, Galeazzi G.M, “Colonizzazione del rischio. Note sulla pratica della valutazione del rischio di violenza in psichiatria” Rivista Sperimentale di Freniatria vol. CXXXIX, n. 3-2015, 71-88