di Elisabetta Iurilli
Elisabetta Iurilli è un’infermiera che lavora allo Skipper da poco tempo; la conosco poco e solo dal punto di vista professionale. Sapevo che amava correre, ma non sapevo fosse una maratoneta a questi livelli. Mi hanno colpito da subito la sua calma e la sua tenacia. Poi ho letto questo scritto che la collega ha prodotto per il giornalino della nostra Comunità.
Una bella e spontanea testimonianza di qualcuno che crede nelle piccole cose e sa guardare il mondo con curiosità, doti fondamentali per lavorare con i nostri pazienti.
Monica Carnovale
Le lacrime vanno da sole, solcano le guance accaldate trovando percorsi sempre nuovi. “Perché piangi Elisabetta, hai già vinto!”. Non passo inosservata. Un giapponese mi fotografa nel frattempo e io non riesco a smettere.
Sono confusamente felice. Di me, dell’impresa compiuta, di quello che ho visto, delle troppe emozioni che mi frullano dentro e non riesco ad ordinare, a contenere.
Mi guardo in giro. I miei compagni non si vedono, chissà… tornerò da sola all’albergo. Avvolta in una coperta di domopak, con la medaglia in bella vista.
Il desiderio di correre a Roma era nato in contemporanea all’ infortunio di giugno. Ero stata costretta a rinunciare a Venezia, ma avevo pensato che quando sarebbe stata ora di preparare i km della capitale sarei stata già guarita da un pezzo. Però il mio tallone non ne voleva sapere di tornare alle normali funzioni, ed io, fermandomi per cosi tanto tempo, avevo perso fiato, gambe e quant’altro costituisce il bagaglio indispensabile per un runner. A novembre, tra mille paure, ero riuscita a rimettermi in strada. Il dolore era quasi sparito. Avevo un mese di tempo per diventare nuovamente una podista, a dicembre bisognava iniziare con i lunghi e le ripetute se volevo la maratona. Che fosse troppo presto per una gara così lunga non mi aveva neppure sfiorato l’anticamera del cervello. Roma era entrata dentro di me. Un pensiero dominante che mi sarebbe costato sangue e sudore.
Ed emozioni indescrivibili.
“Corri Betta, corri!!!” È Giorgio che mi tira anche per un braccio per rafforzare il concetto.
Stavamo raggiungendo la gabbia, ma d’improvviso la musica si fa alta, l’eccitazione intorno aumenta e tutti corrono… avevano appena dato la partenza. Mi metto in moto con disappunto, mi sento in ritardo già prima di iniziare, ma subito il malumore svanisce, vedo a cornice monumenti carichi di storia, la musica a tutto volume, una banda poco distante, la gioia di correre a Roma, come avevo fortemente voluto… Solo il clima poteva essere migliore, oggi piove, ma io sono bardata a dovere: sopra i vestiti una mantellina leggera trasparente omaggio di chissà che sponsor, sopra un camice monouso da infermiera, sopra ancora un sacco nero delle spazzature. Mio marito si era un po’ inquietato quando gli avevo chiesto di indossarlo per tagliare i buchi per testa e braccia. “Mi vuoi buttare via?”
In realtà, nonostante la pioggia, nel giro di due chilometri mi libero di tutti gli “indumenti” non indispensabili, e mi rassegno all’acqua. Sempre meglio che patire caldo.
“Grandi emozioni, grandi emozioni!!!” Sento urlare dietro di me. Non capisco, ma quando mi superano due runner con la mia stessa canotta afferro subito. Sono le Emozioni che danno il nome al nostro team, oggi qui siamo ben in 11, più il presidente all’arrivo.
I due vanno veloci, mi sento la pecora nera del gruppo…
Un tunnel, momento bellissimo in cui ringrazio il cielo di essere una podista da retrovia, perché, immagino, i runner seri questi momenti non li vivono. Un tunnel per noi è un’esplosione di voci che rimbombano per tutta la durata dell’oscurità è un momento in cui il runner ritorna bambino e gioca con i suoi polmoni urlando tutto ciò che ha dentro. Daje, daje, daje!!!
Ritorniamo allo scoperto. Ci sono pozzanghere ovunque e di qualsiasi dimensione. Per le più grandi un volontario e molti passaparola segnalano la calamità, possibile fonte di dolorose vesciche ai piedi.
Poi ci sono i sampietrini che già da asciutti correrci su e’ un problema, mentre da bagnati diventano viscidi e scivolosi, un vero pericolo.
Ma intorno la gente è stupenda, stipata sotto ombrelli, riparata da improbabili mantelle, ammucchiata ai lati della strada urla, batte le mani, ci chiama per nome leggendolo sul nostro pettorale, sbatte coperchi e quant’altro. Ci sono anche cartelli favolosi: “Daje!”, “Ripjate!””Non stare a mollà” “Solo per gli stranieri: Daje”, “Per tutti gli italiani, dateje di più” e chissà quanti altri…
Poi ci sono le scritte sulle maglie. Una in inglese dice: “sono grasso, perciò faccio più fatica, quando mi vedi urlare go, go, go!!!”, ma in realtà, il podista non è poi tanto in carne… Due runner davanti, poco distanti tra loro hanno canotte in contraddizione: “Madonnina proteggimi” e “Smadonno ma non mollo”.
I km si susseguono leggeri nelle gambe. Cerco di non approfittare di questo momento positivo, la maratona non ti perdona niente, ti fa scontare ogni imprudenza, ogni atto di presunzione e te lo fa pagare con gli interessi più avanti nel percorso, quando sei più stanco. La maratona richiede umiltà.
Mi supera una bella ragazza. Mi guardo in giro. Sono bellissime le donne che corrono una maratona. Aspetto sano, curato, qualche malizia nell’abbigliamento che le distingua dai troppi compagni uomini. Sguardo fiero, determinato e grintoso di chi nella vita ha imparato a contare prima di tutto su se stessa. Le gatte morte le facciano le altre!
Viene segnalato un punto di spugnaggio “Ce manca, con tutta l’acqua c’ammo presa…” e il volontario, tirando un quadratino morbido su dalla bacinella “Questa asciuga!”.
Vedo un fornice in lontananza. Due entrate, bisogna dividersi, sceglierò di sicuro la più’ ostile, affollata, con il fondo peggiore.
Passo l’arco e il cuore ha un sobbalzo. Sono all’ improvviso in via della Conciliazione, in fondo S. Pietro, il colonnato del Bernini, quanta bellezza in questo luogo sacro ricco di fede. “Francesco, Francesco” Urlano alle mie spalle.
Arrivo al ventesimo fiera di come sta reagendo il mio fisico. Non sono veloce, ma tutto va per il meglio. La tallonite solo un bruttissimo ricordo, e nessuno dei dolori frutto dell’ansia della settimana pre-gara si sta facendo sentire. Aspetto l’arco della mezza. Di lì inizia veramente la maratona.
Lo passo piena di consapevolezza e di rispetto per lo sforzo che richiede quest’ultima parte di percorso. Più di testa che di gambe, mi dico, le gambe, in fondo, sono allenate, mentre la testa è bizzarra.
Chissà i miei amici… Salvatore è il top runner del gruppo, sulle 3 ore. Per tutti gli anni del liceo ha portato con la corriera mia figlia da casa a scuola e viceversa. Francesca dice che era veloce anche lì. Poi Angelo, lui dice che non si è allenato per questa maratona, ma chissà se è vero… L’ importante è che non si perda, ieri nel giro della capitale che abbiamo fatto, ogni tanto ci faceva preoccupare! Dov’è? L’abbiamo perso anche sta volta? Giorgio, la sua ennesima maratona, il suo entusiasmo sempre immutato. Damiano, la simpatia in persona, le sue battute, i racconti degli scherzi, delle maratone passate… Massimo, che sa sempre spiegare ogni cosa, dall’arte alla chimica, che forza! E poi Antonio, temperamento sanguigno, preoccupato però per il suo polpaccio. Quindici giorni fa in allenamento l’avevo visto fortissimo, la settimana dopo invece dolorante e rammaricato: “non so se potrò correre a Roma”. Ma oggi c’è, ci prova lo stesso.
La mia attenzione su una squadra di ragazzi vestiti con colori vivaci. Sono in gruppo, tre di loro tirano una carrozzina. Sopra una bambina malata. Una stretta al cuore. Non sono runner, sono angeli…
I chilometri iniziano a susseguirsi cadenzati: punto di controllo, ristoro, acqua, sali, bevo, mangio la banana corro, guardo il numero del chilometro segnalato, spugnaggio, riguardo il chilometro raggiunto, annaspo per un po’ poi nuovamente punto di controllo… sono stanca. Ma non mollo. Il bello deve ancora venire, mi dico, e quando le gambe rallentano penso fortemente che non sono venuta qui a Roma per passeggiare, io a Roma volevo correre…
Mi riprendo un po’, leggo le scritte sulle magliette, personali, politiche, idealistiche, ognuno mostra ciò che ha nel cuore.
Intorno al trentacinquesimo inizio a contare i chilometri che mancano. Li paragono alla distanza abituale del posto dove mi alleno da sempre, la strada di S. Pietro. Lì i chilometri mi sembrano sempre meno lunghi, in confronto alla stessa distanza su altri percorsi. Scherzi della mente, come le voci che mi arrivano in testa. “Non potevi puntare alla Mezza di Genova? No a quella non sei neppure ancora iscritta …” “La maratona, 42 km come prima gara dopo l’infortunio… presuntuosa!!!” “Ma sei sicura di farcela ad arrivare in fondo?” Sì, ce la devo fare.
E il cuore di Roma si avvicina: piazza Navona, la gente assiepata, il mio nome urlato insieme a “Sei brava” “Forza ragazza, daje!” “Mitica!!!”. I fotografi, gli archi gonfiabili… altre piazze, piazza di Spagna, altra gente, battiti di mani, di coperchi, mani tese a dare il cinque… corro, corro come se le gambe non fossero dure e non facessero male, corro come se non sapessi fare altro, come se non ci fosse un domani…
L’Altare della Patria, i Fori, gli ultimo 192 metri dopo il km 42… c’è un cuore che batte nel cuore di Roma, alzo le braccia radiosa mentre passo sotto l’arco della fine della gara, poi le abbasso e le mani nascondono il viso “Mamma cos’ho fatto …” e inizio a piangere.