Con la pandemia da Covid 19 è entrato in crisi il modello neoliberista che, in forme più o meno temperate, dal 1980 sta dominando in occidente. Da un lato, specie nella prima fase della pandemia, si è avvertita la necessità di rilanciare il welfare pubblico universale e le politiche dei diritti che hanno caratterizzato il secondo dopoguerra fino agli anni 70. Non sono mancate le critiche per i disinvestimenti e solenni, quanto vuoti, impegni per risollevare lo stato dei servizi dando loro priorità negli investimenti. Cosa subito smentita dalla destinazione alla sanità del solo 8,5% del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
Dall’altro lato, lentamente sembra esservi innestata una fase di trasformazione del neoliberismo che in modo disinvolto (quindi senza autocritiche) e spregiudicato utilizza l’insieme delle crisi (sanitaria, economica, sociale, ambientale e della pace, in altre parole la sindemia) per determinare uno spostamento verso una forma di società neocorporativa meno democratica o addirittura governata da democrature.
Il neo liberismo e la sua trasformazione
Il neoliberismo ha trasformato la cura in una pratica individuale e mercificata, riservata solo a chi ha i mezzi per accedervi e per prendersi cura di sé. Dovunque il neoliberismo ha contribuito a creare una società atomizzata e individualista nella quale la povertà rischia di essere una colpa e il bisogno di cura è visto come una debolezza. Ciò giustifica i tagli ai redditi di cittadinanza, l’incuria e l’abbandono mediante la predisposizione di un sistema che seleziona l’accesso a quel che rimane del sistema di welfare e produce forme di solitudine organizzate, cioè messe in lista.
Questo accentua le diseguaglianze e le ingiustizie. Al tempo stesso, si ammette che non esistano solo individui ma anche un sistema sociale che viene a costituirsi mediante gruppi stratificati per reddito o posizione economica, provenienza, utilità cioè in base al significante di tutti i valori che è il denaro/potere/profitto.
Anche molte parti dei servizi sanitari e sociali sono stati privatizzati e resi accessibili solo a quella fetta di popolazione che può permettersi di pagare od è protetto dalle assicurazioni. Si crea cioè un doppio, triplo percorso nell’accesso a servizi essenziali, a beni fondamentali, in fondo ai diritti. Una stratificazione che porta ad una linea che minaccia la democrazia ma anche l’umanità. In particolare compromette la crescita e la formazione della personalità e identità delle nuove generazioni, i progetti di vita della persona e del suo contesto relazionale e mina la convivenza sociale che deve essere tenuta in ordine con misure repressive e di controllo compromettendo così libertà e benessere di comunità.
Crisi della cura
Da questo processo deriva una crisi globale della cura. Ciò avviene dopo che la pandemia ha reso visibile in modo inequivocabile la centralità dei servizi di cura alla persona, portando in piena luce sia quanto i lavori di cura, sanitario, sociale ed educativo siano essenziali per dare realizzazione ai diritti (umani e di cittadinanza) alla vita, riproduzione e a tutte le attività umane. Eppure nonostante questo come in un’amnesia collettiva, il sistema di welfare pubblico e universale attraversa una profonda crisi.
A questo proposito è molto interessante il “Manifesto della cura” (Manifesto)[1] scritto da The Care Collective. Esso parte dalla constatazione che il neoliberismo ha privatizzato e mercificato i servizi di cura essenziali ed ha aggravato la storica svalutazione dei lavori di cura riportandoli all’interno della famiglia nucleare, a carico del lavoro non pagato delle donne o dello sfruttamento delle emigrate dall’est o dal sud del mondo, e lasciando nell’incuria e nell’abbandono le fasce di popolazione più svantaggiate.
Il grande valore attribuito all’autonomia e all’indipendenza individuale ha portato a rimuovere le umane fragilità e la vulnerabilità ed ha inevitabilmente comportato la svalutazione dell’interdipendenza mentre è stata patologizzata la dipendenza dalle cure anziché riconoscerla come parte integrante della condizione umana.
Etica politica della cura o sviluppi neocorporativi
Un altro contributo importante è quello di Luigina Mortari[2] e Joan Tronto[3] che riflettono sull’etica politica della cura.
La svalutazione del sapere pratico e delle attività di cura, considerate “naturalmente” femminili, nonché la marginalizzazione e la relegazione nel privato delle relazioni che comportano coinvolgimento e sollecitudine verso bisogni fisici, psichici e affettivi, sono potenti meccanismi volti ad operare la rimozione della ontologica vulnerabilità fino al diniego della mortalità umana. Temi rispetto ai quali si cerca di restare lontani.
A questo proposito il Covid 19 ha determinato la ricomparsa sulla scena pubblica della malattia e della morte. L’elaborazione del trauma, dello stress e del lutto potevano avvenire con una posizione depressiva e riparativa ma invece si è affermata una posizione schizoparanoide, di frammentazione e rivendicativa. Sono comparse rabbia, disforia, burn out, atteggiamenti intolleranti e antisociali con una perdita dell’equilibrato rapporto tra diritti e doveri che devono essere reciprocamente assicurati.
La pubblica elaborazione del lutto mediante una società più solidale ed equa, capace di un rinnovato patto sociale fondato sulla fragilità umana e sul principio di non abbandonare nessuno in quanto la salute è un bene individuale e relazionale, ha lasciato spazio ai processi di privatizzazione della sofferenza di fronte alla quale arrangiarsi, cui corrisponde una perdita di valore e di valenza pubblica di quanto accade alle persone, prima o poi a tutte. La condivisione di rischi e benefici, parte di un patto sociale maturo, viene declinata in modo individuale solo come diritto a non essere disturbato eliminando disagio, conflitto, estraneità.
La cultura narcisistica
La cultura narcisistica, già di per sé portatrice di problemi, declina verso forme maligne di psicopatia, di insensibilità all’altro. Persone sempre più straniere a se stesse, sempre meno colte e consapevoli dei propri limiti fino alla negazione delle evidenze e delle scienze e persino della malattia e della morte. Una società del diniego e dell’autoaffermazione.
La stessa riorganizzandone per lobby (corporazioni, ed al.) è un corollario della privatizzazione specie quando risulta priva di una visione generale di diritti e doveri di/per tutti.
L’ideologia individualista si salda con una neocorporativista identitaria basata su una condizione particolare o per censo a scapito di una visione universale dando così risposte ai bisogni di dipendenza, di creazione di immaginari di speranza, di senso, seppure al prezzo di dover combattere concorrenti e persino creare nemici.
La cura nell’interdipendenze e nel patto sociale reciproco
In questo quadro può ritornare attivo anche il conflitto di classe a partire dalla necessità di rappresentanza e di protagonismo nella richiesta di diritti non esigibili all’interno di un welfare pubblico universale declinato in senso paternalista, prestazionale e burocratico. O magari semplicemente decantato con riferimenti alla Costituzione, alla legge 180 ma svuotato di contenuti e pratiche reali.
Se si vuole superare questa situazione diviene fondamentale riconoscere il valore della cura come essenziale per la crescita della persona nell’intero arco di vita, sulla base della reciproca consapevolezza della generale vulnerabilità umana e della nostra interdipendenza.
Un’interdipendenza che supera l’idea di cura come dipendenza, porta a ripensare la politica e a ridisegnare le condizioni sociali e culturali dei sistemi di cura a partire da logiche inclusive e dai bisogni e risorse della persona.
È quindi dalla società degli emarginati, degli abbandonati, del terzo escluso che diventa maggioranza deviante e trascurata che vanno favoriti e ripresi i meccanismi partecipativi diretti prima ancora che rappresentativi, come forme intermedie di mediazione per una graduale ripresa di una visione universale. La persistenza (e addirittura l’ampliamento) di una parte esclusa rappresenta un rischio sia per la salute e il benessere sociale sia per la democrazia.
La creazione di un nuovo patto sociale
La creazione di un nuovo patto sociale è un percorso complesso, carico di paradossi, ambivalenze e contraddizioni sociali, connesso anche intrinseche difficoltà a raggiungere le persone più isolate, con istruzione e culture diverse. In questo occorre dare evidenza, concretezza alle relazioni di cura e alla stessa idea di cura nel suo farsi “praticamente vero” mediante strumenti pre-pattizi di capacitazione, di empowerment, di ridistribuzione del potere. I diritti vissuti e inverati diventano un riferimento politico e speranza esistenziale. Ne può derivare l’attuazione di politiche basate sull’etica della cura e di una società fondata sul principio organizzativo della cura universale non mercificata, grazie alla creazione di infrastrutture e servizi socializzati, legami di comunità e forme di beni comuni dei quali siano sempre partecipi le persone.
L’accoglienza e l’ascolto non giudicante della persona e delle sue esperienze diviene la parte centrale di una visione che unisca la medicina centrata sulla persona (l’intervento psicosocio-sanitario di lunga durata, ILD) (Saraceno)[4] e una visione di una società in cui il valore fondamentale della cura universale (universal caregiver, Fraser)[5], sia al centro di ogni aspetto della vita di tutti. A ciascuno viene riconosciuta capacità e responsabilità del lavoro di cura nella reciprocità tenendo conto delle differenze di genere in modo tale che la cura sia ripartita in modo egualitario tra tutti.
La proposta del manifesto di cura
La proposta del manifesto della cura[6] delinea una visione femminista-queer-antirazzista-ecosociale della cura: universale, indiscriminata (che non discrimina), reciproca, non paternalista, né assistenzialista.
Il principio pratico e organizzativo della cura universale in cui l’interdipendenza è riconosciuta in forme solidali e paritarie volte a sperimentare “comunità di cura” basate su quattro cardini fondamentali: il mutuo soccorso, lo spazio pubblico, la condivisione di risorse e la democrazia di prossimità.
Si può fare tesoro delle molte pratiche innovative e di mutuo soccorso sviluppatesi nella storia e anche durante la pandemia, senza le quali le persone più fragili e sole non sarebbero sopravvissute.
Occorre cogliere la fragilità come condizione delle persone e delle tante tipologie di famiglie sviluppando sistemi di cura e strutture di “parentela alternative” o forme auto organizzate di cura condivisa dei bambini, intergenerazionali, microaree, portinerie.
Pratiche di cura “promiscue”
In altre parole, sarebbe necessario sperimentare pratiche di cura “promiscue”, ossia inclusive di relazioni con persone al di fuori dei rapporti di parentela secondo il modello delle “famiglie per scelta” nate in seno ai movimenti Lgbt. Per svilupparsi queste “comunità di cura” hanno bisogno di supporti strutturali, di ampi spazi pubblici, di infrastrutture architettoniche e ambientali dedicate, di risorse materiali e sociali equamente distribuite e condivise, di servizi socializzati basati sull’autogoverno e, infine, di forme partecipative di governance democratica. Di strumenti nuovi come budget di salute, IPS, Housing First, Co housing, strutture intergenerazionali.
Lo stato dovrebbe farsi carico di garantire questo supporto organizzando, con cittadini ed Enti del Terzo Settore, Servizi di Comunità e Prossimità in modo che la casa della persona sia il primo luogo di cura e di vita. Una linea antiistituzionale in modo che non si abbiamo residenze per anziani, disabili e malati mentali, tossicodipendenti e l’uso della detenzione sia residuale e ridotta al minimo.
Lo “stato di cura”
Lo “stato di cura,” nella definizione che ne dà il Manifesto, dovrebbe costituire il superamento non solo del neoliberismo ma anche dei limiti dello stato sociale keynesiano e delle gerarchie di genere e razza che lo hanno caratterizzato nel ‘900.
Questo “stato di cura” dovrebbe creare infrastrutture di welfare dalla “culla alla tomba” non burocratiche né paternalistiche, promuovere servizi solidaristici accessibili a tutti facilitando progetti orizzontali di comunità, incoraggiare la partecipazione al processo decisionale fondata sull’autodeterminazione e su un’idea di democrazia orientata ai bisogni collettivi. Dovrebbe quindi contrastare privatizzazioni e finanziarizzazione del sistema e attuare una nuova radicale regolazione dei mercati. Il rapporto tra globale e locale risulta cruciale, così l’indipendenza delle organizzazioni internazionali come l’OMS. “È necessario trovare un equilibrio fra l’eccesso di “globale” e l’eccesso di “locale” nelle strategie e negli interventi di salute globale. Se la influenza del globale può costituire un vantaggio dal punto di vista dell’impatto politico, la assenza del locale rende gli interventi astratti e privi di radicamento nelle realtà locali. “(Saraceno)[7]
La comunità di cura
La creazione di “comunità di cura” mediante servizi di comunità e prossimità che valorizzino le pratiche solidaristiche e le esperienze di condivisione della cura rispetto a bisogni in contesti precisi rappresenta una scelta di politica sociosanitaria in grado di coniugare le migliori conoscenze e tecniche globali con le esigenze delle persone e delle comunità locali. Tutto questo può essere basato su un’etica della responsabilità, della condivisione e del trascendimento[8]
L’emergenza climatica e ambientale sta ponendo al centro l’importanza della cura, sia delle persone che del pianeta.[9] Le esperienze di comunità di cura, di spazi e risorse comuni, non solo come beni, bensì come processi in cui si costruiscono nuove relazioni sociali. Queste pratiche dal basso ispirate alla sussidiarietà non possono e non devono sostituirsi ai compiti e alle responsabilità degli Stati. La democrazia della cura deve costituire un nuovo paradigma statale e transnazionale che integri il welfare state, allargando i beneficiari dei servizi statali fino ad includervi chiunque, superando così il concetto di cittadinanza e quello di confine. Il Manifesto introduce infatti il concetto di “cura promiscua” che riguardi tutti e tutte ed è “indiscriminata” – ossia che non discrimina.
Da sempre parliamo di cura su preferenze individuali nella nostra dipendenza e interdipendenza dagli altri. Dietro queste ombre però c’è anche una luce: si moltiplicano iniziative di mutuo soccorso e reti di solidarietà che continuano a concepire il prendersi cura degli altri come un bene comune, un obbligo morale e un processo collettivo. Perché la cura è anche una capacità sociale, un capitale sociale, che dà luogo ad attività in grado di alimentare tutto ciò che è necessario al benessere e al nutrimento della vita.
Le convinzioni del capitalismo neoliberista
Il capitalismo neoliberista ci ha convinti che non siamo esseri sociali ma monadi indipendenti le une dalle altre. E tuttavia una qualche forma di società si determina e questa viene centrata sulla famiglia tradizionale e su una creazione di gruppi e strati neocorporativi. Questa deriva può essere evitata mediante una concezione della cura come sostiene Emmanuel Levinas[10]: nella misura in cui il sé si costituisce attraverso la relazione con l’altro, siamo eticamente obbligati a prendercene cura e ciò costituisce il centro della vita.
Quindi la cura come fondamento ontologico, etico e relazionale va declinato in senso politico prevedendo forme di presenza (De Martino) che diano senso nella comunità a partire dalle tante tipologie di famiglie e di aggregazioni sociali, spontanee in grado di connettersi, collegarsi come parte integrante al sistema di welfare pubblico e universale. Questo significa porre il progetto di vita al centro dell’autodeterminazione, la casa come primo luogo di cura. La cura può essere promiscua tra casa e ospedale ma anche nel senso che può essere fatta di presenze reali e virtuali e può mettere in relazione indiscriminatamente persone non necessariamente vicine.
In conclusione, per superare la crisi globale della cura è necessaria riformulazione del welfare e dello stato sociale keynesiano su basi nuove, universalistiche, ugualitarie ed ecologiste, a partire da forme nuove relazione con le persone basate sulla loro diretta partecipazione ai progetti di vita, alla definizione dei bisogni-risorse e rivedendo esplicitamente il patto sociale.
Citazioni
[1] The Care Collective Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza, Edizioni Alegre 2021, pp. 124
[2] Mortari L. La sapienza politica. Grammatica dell’agire giusto. Cortina Ed. 2024
[3] Tronto J. Who cares? Come ripensare una politica democratica, Castelvecchi 2023
[4] Saraceno B. Medicina centrata sulla persona. Salute Internazionale, 1 novembre 2023 https://www.saluteinternazionale.info/2023/11/la-medicina-centrata-sulle-persone/
[5] Fraser, N. (1994), After the Family Wage, in «Political Theory», vol. 22, pp. 591-618.
[6] Vedasi nota 2
[7] Saraceno B. Chi finanzia l’OMS. Salute Internazionale, 1 luglio 2024 https://www.saluteinternazionale.info/2024/07/chi-finanzia-loms/
[8] Galimberti U. L’etica del viandante. Feltrinelli, 2023
[9] Papa Francesco Laudato sì. Enciclica sulla cura della casa comune. Guida alla lettura di Carlo Petrini.San Paolo Ed., 2015
[10] Levinas E. La traccia dell’Altro Tullio Pironyi Ed.1979
Questo impegnato e impegnativo contributo non limita il concetto di cura alla dimensione del rapporto individuale – duale, e neppure solamente gruppale, ma lo lega a quello collettivo, sociale: legame fra la sofferenza individuale e quella della collettività ampiamente lumeggiato qualche decennio fa da tanti Autori: da Michel Foucault a un Franco Basaglia ampiamente ispirato dal sociologo Erving Goffman di Asylums. Questa lezione non è stata dimenticata, ma ha perso incisività, in collegamento con l’affermarsi di un neoliberismo con la sua enfasi sulla competizione che ignora la solidarietà: liberismo trionfante fino alla fantasia maniacale di una Fine della Storia proposta da un Fukuyama.
Esso porta allo sviluppo di una società del diniego e dell’autoaffermazione. Aspetti non nuovi, quasi una ritorno al passato, sicchè è appropriato ed esatto definirli “reazionari”. Oggi, credo, se ne aggiunge uno nuovo: il moltiplicarsi delle informazioni digitali, nuovo strumento di potere nelle mani di pochi – configuranti quella che Bauman e Lyon definiscono “società della sorveglianza”.
Torna dunque in forme nuove il conflitto di classe: aggiungerei, forse più squilibrato di un tempo, per la minore capacità di aggregazione delle categorie sociali più sacrificate e per la maggior difficoltà nell’identificare un “padrone”.
L’Autore sollecita dunque uno stop alla privatizzazione, una regolamentazione dei mercati, la realizzazione di di una “cura universale” che sfumi il confine fra interventi rivolti all’individuo e quelli attenti alla dimensione collettiva. La prassi andrà caratterizzata da mutuo soccorso, condivisione di risorse, democrazia di prossimità, nuovo modello di famiglia: a questo proposito ricorderei l’Engels di “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, che lumeggia l’evoluzione storica dei modelli familiari nel loro rapporto con le altre dimension socio-politiche.
Va messa in atto l’elaborazione di una spazio sociale con armonizzazione delle istanze sociali e quelle psicologiche; anche tramite meccanismi partecipativi diretti, con redistribuzione del potere Ciò ha un aspetto rivoluzionario, anche se non violento. E’ questo l’aspetto più schiettamente politico, e fa venire in mente il leniniano “tutto il potere ai soviet”, consigli spontanei di operai e soldati. Purtroppo, storicamente ciò ha rapidamente ceduto il posto a un “tutto il potere a segreterie e funzionari di partito”: a quel burocratismo vanamente denunziato da Trotsky.
Mi pare dunque che questo contributo inviti a un ripensamento del messaggio marxiano, come farebbe pensare anche il riferimento a un “Manifesto della cura” che forse volutamente riecheggia il “Manifesto del partito comunista” di Marx ed Engels. Giustamente quindi l’Autore invita anche a una elaborazione del lutto, quindi anche del dolore per ciò che poteva – doveva essere e non è stato.