Recensione di Giuseppe D’Agostino al libro: L’uomo dietro al lettino. Charles Rycroft e la psicoanalisi indipendente britannica. di Gabriele Cassullo (2015)
La storia della psicoanalisi post-freudiana è stata caratterizzata da una proliferazione dei modelli teorici. Se il metodo, da quando Freud lo ha introdotto e sperimentato, è rimasto relativamente lo stesso, le prospettive teoriche dalle quali guardare al paziente e alla sua relazione con l’analista si sono susseguite senza sosta; una tale polifonia di concetti costituisce, al tempo stesso, il “benessere” e il “malessere” di questa disciplina. Chi lavora con la psicoanalisi si può sentire arricchito dalla varietà di punti di vista e di tradizioni ma, altresì, avverte la sensazione di avere a che fare con una babele di concetti.
Il senso di disorientamento è divenuto un vissuto con il quale dover fare i conti, soprattutto perché alimenta il rischio di una chiusura difensiva dentro i propri bastioni teorici.
Studiare la storia delle idee e delle tradizioni psicoanalitiche, conoscere i protagonisti e i contesti socio-culturali dentro i quali sono nati i loro concetti diventa, allora, un aiuto importante per restare “aderenti”, con responsabilità e consapevolezza, alla propria teoria di riferimento e, al contempo, essere aperti ad altri modi di pensare psicoanaliticamente.
Un capitolo fondamentale della storia della psicoanalisi, che ha segnato in maniera peculiare gli anni successivi alla morte di Freud, riguarda la “scuola britannica” e la sua stagione a cavallo fra la prima e la seconda metà del secolo passato; gli anni, cioè, che precedettero il secondo conflitto mondiale, che lo attraversarono e che, infine, portarono alla rinascita post-bellica. La British Psychoanalytical Society di quegli anni fu il terreno di coltura di una vera e propria rivoluzione degli orizzonti concettuali della psicoanalisi e il tutto fu frutto di un processo dialettico “a tre”: la tradizione viennese, impersonata da A. Freud, il modello proposto da M. Klein, portatore di un mutamento di prospettiva, e quel particolare gruppo di psicoanalisti che – per dirla con Rayner – <<non intendevano assolutamente schierarsi con nessuna delle altre due correnti >> (Rayner, 1991, p. 7, ed. it.). I cosiddetti Indipendenti. <<Gli Indipendenti – è sempre Rayner a scrivere – costituiscono un gruppo in primo luogo perché sono tutti analisti impegnati, e, in secondo luogo non perché essi abbraccino qualche particolare teoria al proprio interno, ma semplicemente perché hanno un atteggiamento in comune. Tale atteggiamento consiste nel valutare e rispettare le idee per il loro valore reale e pratico, indipendentemente dalla loro provenienza [in corsivo nel testo]. E’ per loro essenziale l’uso positivo del dubbio e il piacere di poterlo sperimentare. La certezza ideologica e il settarismo sono estranei al loro spirito>> (ibidem, p. 11, ed. it.).
Un “indipendente” di primo piano fu Charles Rycroft (1914-1998), un autore oggi entrato in un cono d’ombra – com’è accaduto e, purtroppo, ancora accadrà a molti altri – al quale, in realtà, la riflessione teorica psicoanalitica deve molto. Il suo lascito – solo per citare i lavori più importanti – comprende opere quali: Imagination and Reality (1968a), A Critical Dictionary of Psychoanalysis (1968b) e The Innocence of Dreams (1979). Tutte opere, queste, delle quali abbiamo la traduzione in italiano. Conoscere la vita e il percorso teorico di Charles Rycroft significa non solo approfondire un pezzo di storia della psicoanalisi ma, anche, prendere contatto con quel peculiare “modo di concepire la psicoanalisi” che caratterizzò il gruppo degli Indipendenti e che, ancora oggi, continua a essere un modello d’ispirazione per molti. Fra i suoi contributi più rilevanti è bene ricordare la riflessione attorno al concetto di immaginazione.
Per Rycroft, la distinzione tra processo primario e processo secondario tende a marcare un’antitesi tra fantasia e realtà, tra le idee dell’immaginazione e gli oggetti reali esterni (Rycroft, 1956). Sulla scia della critica alla concezione kleiniana della fantasia, iniziata da da Milner e Winnicott, Rycroft dedicò la sua ricerca psicoanalitica al ruolo positivo dell’immaginazione nel processo di adattamento alla realtà esterna. Si legga, a tal proposito, questo passaggio tratto da un suo articolo del 1962 dal titolo Beyond the reality principle (Al di là del principio di realtà): <<[…] la teoria di Freud secondo la quale i processi primari precedono quelli secondari nello sviluppo individuale dipendeva dal fatto che egli era rimasto colpito dall’impotenza dell’infante e dall’aver assunto perciò che il rapporto madre-neonato, che a quanto sembra egli non ha mai studiato in dettaglio, fosse un rapporto in cui la madre è attiva e il neonato totalmente passivo, in cui la madre è in contatto con la realtà mentre il neonato ha solo desideri. Se però si parte dall’assunzione che la madre è la realtà esterna del neonato, e che il rapporto madre-neonato è fin dall’inizio un processo di mutuo adattamento, al quale il neonato contribuisce con azioni come il piangere, l’aggrapparsi e il succhiare, che suscitano reazioni materne nella madre, si è costretti a concludere che il neonato prende parte a un comportamento realistico e adattivo, che i processi secondari operano contemporaneamente a quelli primari, e che le funzioni dell’Io non si possono inizialmente distinguere dalle scariche pulsionali>> (Rycroft, 1962, p. 141, ed. it.).
Rycroft riuscì a trasporre queste sue riflessioni nella pratica clinica e il suo lavoro di analista fu caratterizzato dall’interesse per l’interazione dialettica fra mondo interno e mondo esterno, <<[…] lo scopo del trattamento analitico – scrive – non è in primo luogo quello di rendere conscio l’inconscio, né di ampliare o rafforzare l’Io, ma quello di ristabilire la connessione fra funzioni psichiche dissociate, così che il paziente cessi di sentire che c’è un intrinseco antagonismo tra le sue capacità immaginative e quelle adattive>> (ibidem, p. 153, ed. it.).
Il tema della dissociazione fra l’immaginazione e la realtà come conseguenza di una storia traumatica non solo ci porta nel cuore della riflessione di molti fra gli Indipendenti ma ci fa intravedere il collegamento con la radice ferencziana di molte delle loro idee. Idee che sono ancora attuali e che sono oggetto di un rinnovato interesse nel mondo psicoanalitico. La riflessione di Rycroft fu rivolta all’intreccio fra la storia e le fantasie del paziente e, al tempo stesso, all’intreccio, dentro la stanza d’analisi, fra i movimenti di transfert/controtransfert e i “fatti” reali dell’incontro fra analista e analizzando; “fatti” che hanno a che fare – come ci insegnano molti fra gli Indipendenti – con la realtà dell’analista che incontra il paziente e lo “tiene” realmente.
Arriviamo, così, al libro di Gabriele Cassullo, la prima biografia in italiano di Charles Rycroft. L’Autore, che ha dedicato i suoi studi di Dottorato alla “ricerca concettuale” in psicoanalisi, ha portato a termine un lavoro prezioso, che permette di approfondire la portata delle idee dello psicoanalista britannico. Nel libro si annodano due narrazioni: la biografia privata di Rycroft e la sua “vita psicoanalitica”. La parte biografica è raccontata con dovizia d’informazioni (molte raccolte nel corso di un incontro a Londra con Jenny Pearson, la vedova di Rycroft) e con un tatto che potremmo definire “clinico”, tanto l’Autore è capace di raccontare i fatti storici (familiari e personali) di Rycroft illustrandone, in controluce, l’impatto psichico che questi hanno avuto nella sua esistenza privata e nella vita professionale.
Nato nel 1914, Rycroft crebbe in una tipica famiglia dell’upper-class britannica, caratterizzata da consolidate tradizioni culturali e religiose; un mondo, quello dell’aristocrazia, che con lo scoppio del primo conflitto mondiale stava avviandosi verso la sua l’ultima stagione. Nel caso della famiglia Rycroft, la crisi fu accelerata dalla morte precoce del padre e dalle difficoltà economiche che ne conseguirono. Il giovane Charles prese le distanze dal proprio ambiente d’origine e tutta la sua vita fu caratterizzata dall’opposizione alla “tradizione”, soprattutto quando questa diventa sterile formalismo e conformismo. E questo accadde anche nel suo rapporto con la psicoanalisi, difatti, nel 1964, Rycroft si dimise dalla British Psychoanalytical Society, dove era entrato quando aveva ventidue anni. Un atto, questo, che nel libro è spiegato come un gesto creativo di affermazione della propria soggettività. Cassullo, nella parte conclusiva del libro, fornisce delle riflessioni molto interessanti su questo gesto, collegandole all’ultimo scritto di Rycroft, il più travagliato e profondo (del quale non abbiamo una traduzione in italiano): On ablation of the parental images, or the illusion of having created oneself; <<un saggio che indaga alcune ragioni di natura psicopatologica che possono indurre le persone a diventare psicoanalisti>>.
Si tratta di un testo/testamento che penetra nel significato più intimo del divenire psicoanalisti; per l’analista britannico, in questo processo è molto presente il rischio di sentirsi auto-creati, di sentirsi soggetti a-storici che hanno riscritto le proprie origini attraverso una “creazione mitica” che si fonda, implicitamente, sull’escissione della propria storia reale.
Cassullo racconta l’esistenza di Rycroft illustrando gli incontri che questi ebbe lungo il suo ricco percorso di vita e, così facendo, accompagna il lettore dentro il clima culturale londinese dei primi decenni del ’900; in particolare, l’Autore mette in luce il ruolo avuto dal Bloomsbury Group, il noto circolo di intellettuali progressisti, e dalla Medico-Psychological Clinic, una clinica psicoanalitica che dispensava trattamenti gratuiti, nella nascita della psicoanalisi britannica. Come in una scena teatrale, il lettore vedrà comparire Ernest Jones e i fratelli James ed Edward Glover, Ella Freeman Sharpe e Sylvia Payne, la prima e la seconda analista di Rycroft, il suo “difficile” amico Massud Khan, Marion Milner (la sua terza analista), Melanie Klein, Anna Freud, Bowlby e Winnicott, l’autore a lui più vicino.
Cassullo, facendo dialogare i protagonisti attraverso i loro scritti, illustra il clima di scontro teorico di quegli anni, e ci tengo a rilevare che ho trovato molto utili le pagine dedicate alla persona e al pensiero di Melitta Schmideberg, un’autrice molto spesso e frettolosamente relegata al ruolo di “figlia ribelle e arrabbiata di Klein”, la quale fu, invece, anche l’autrice di scritti clinico-teorici innovativi per l’epoca – come ben mostra Cassullo -, dedicati a valorizzare il ruolo dell’ambiente nello sviluppo e nella patologia della mente.
Per concludere, aggiungo che il libro è introdotto dal testo di un ex paziente di Rycroft, Jeremy Holmes (un autore che si è dedicato all’integrazione fra psicoanalisi e teoria dell’attaccamento; si vedano i suoi libri editi da Cortina) che illustra, a partire dalla “posizione critica” di Rycroft nei confronti della psicoanalisi predominante fra gli anni ’40 e gli anni ’60, quale fu l’originalità del suo pensiero e quali furono le influenze filosofico-culturali che lo sostennero nel suo percorso teorico. Si tratta di un vero e proprio saggio breve, che completa e impreziosisce il libro di Cassullo.