Commento all’articolo apparso su La Repubblica il 19 dicembre 2016
L’uomo che cambia la testa ai campioni
L’articolo non ha nulla di sorprendente: la letteratura, specie americana, è ricca di contributi sulla psicologia dello sport, vista in un’ottica cognitivo-comportamentale: rilievi, raffinate analisi statistiche sui rapporti fra performance e dimensioni emotive e cognitive, proposta di questionari etero- ed autosomministrati, suggerimenti migliorativi.
Più numerosi quelli riguardanti sport di ampio interesse spettacolare ed economico (come del resto risulta dall’articolo di cui parliamo): è ovvio che, se si pensa che un intervento psicologico possa fare la differenza, per i committenti vale la pena investire in attività che offrano un concreto ritorno.
Non è il caso, né è possibile, citare tutti gli articoli, e basterà parlare delle topiche più ricorrenti: la caratteristiche di una performance che migliora sotto pressione, fra le quali emergono concentrazione, sforzo, maggior consapevolezza; la relazione fra la possibilità di leadership e la collocazione fisica nel campo di gioco; le ricerche sul c.d. Executive Control Network, maggiore in sport come il tennis da tavolo che richiedono rapide reazioni e movimenti; l’utilità di interventi indirizzati, prima della gara, alle cognizioni penose associate con la competizione e il sonno, poiché ovviamente l’umore e la qualità del sonno influenzano i risultati; quella degli interventi di mental skills training (MST), che migliorano le fonti di godimento (enjoyment) intrinseche all’attività e quindi i risultati; le varie esperienze psicosociali correlate ai diversi sport…
Nei giocatori di rugby si è visto che la consapevolezza spaziale è correlata a modelli di movimento di moderata intensità. Il puntare a una meta e la qualità di tale spinta influenzano la partecipazione a una attività fisica. E’ stata rilevata una correlazione positiva fra pratica di sport e funzioni neurocognitive nei ragazzi. E si potrebbe continuare.
Ovvietà, si dirà: ma – piaccia o no – lo spirito di questi contributi è quello di spostarle dall’area dell’ingannevole senso comune a quella della verifica su precise basi quantitative.
Numerosi i fattori negativi responsabili di sotto-performance: la depressione, rilevata frequente nelle giocatrici di football; il timore del fallimento che può sfociare in burn out, specie se è orientato individualmente.
Sorprendentemente, di questi non farebbe parte il pensare la morte, che anzi migliorerebbe le prestazioni degli atleti, tanto che esistono specifici esercizi (TMT: Terror management training)! Può divertirci il pensare a un allenatore che prima dell’incontro dice ai suoi ragazzi “memento mori”; ma a pensarci bene la correlazione – peraltro dimostrata con le solite tecniche – non è poi così impensabile.
E’ possibile che l’angoscia della morte incentivi la spinta a dimostrare a sé stessi che si è forti? Ne sappiamo qualcosa noi anziani che perseguiamo la fitness e le prestazioni: nel CAI l’età media sta continuamente aumentando. Tendiamo così a proteggerci dall’ansia legata alla consapevolezza della mortalità.
C’è poi un contributo specifico che riguarda l’interesse non allo sport ma alla riproduzione: si è rilevato che la preoccupazione per la riproduzione, dopo la somministrazione di reminders of mortality, cresce più negli anziani che nei giovani. Si ipotizza che l’aumentata preoccupazione per le future generazioni e la simbolica immortalità che ne deriva possono essere particolarmente importanti negli anziani quando la consapevolezza della mortalità cresce.
L’articolo ci aiuta a ricordare le implicazioni emotive dello sport competitivo, dove si riciclano in modo socialmente accettato e abbastanza innocuo le nostre pulsioni aggressive, come accade in almeno due delle attività citate: rugby, dove il forte confronto fisico trova compenso (reattivo?) nella leggendaria lealtà degli atleti; e formula uno, dove le auto si inseguono rischiosamente e ruggendo rabbiosamente.
Trovavo interessante l’accenno del Prof. Pisseri al tema del “pensare la morte” coniugato allo sport. Dunque, il pensiero della morte non sarebbe poi così depressogeno. E mi veniva in mente una battuta che faceva più o meno così: – Perché ti accanisci tanto a voler fare sport? Alla tua età, poi? – …- Per arrivare in forma al mio funerale. Sarò il vecchietto più giovanile di tutto il cimitero! -.