“Attenzione al rischio di scambiare la spudoratezza per intimità e l’amichevolezza per amicizia”
Non mi soffermerò più di tanto sul merito dello studio di Robin Dunbar dell’università di Oxford che si basa sostanzialmente sull’ipotesi che la neocorteccia cerebrale sia in grado di gestire non più di 150 relazioni – 150 è il cosiddetto “numero di Dunbar” – estensione del limite cognitivo oltre il quale i legami sono inclini a degradarsi irrimediabilmente, fino ad estinguersi, per l’affievolirsi o per mancanza di contatti.
Quello che mi interessa approfondire, se è vero che le parole e i loro significati sono importanti, è il concetto, inflazionato sui social network come Facebook, di “amicizia”.
Cito dai vocabolari: L’amicizia è un legame, una relazione e un sentimento tra due o più persone, caratterizzato da una rilevante carica emotiva e fondante la vita sociale dei due (o più) individui. L’amicizia viene intesa e percepita come un rapporto alla pari, basato sul rispetto, la sincerità, la fiducia, la stima e la disponibilità reciproca.
Alcuni distinguono diversi gradi di amicizia: 1) amicizia casuale legata a una simpatia che emerge fortuitamente in una certa circostanza magari in modo temporaneo, 2) amicizia cosiddetta intima, ovvero associata a un rapporto continuativo nel tempo fra persone che arrivano a stabilire un grado di confidenza reciproca paragonabile a quella tipica del rapporto di coppia.
Classificazione che mi sembra impropria perché accolgo il termine “amicizia” unicamente nella sua seconda accezione citata più sopra.
Vorrei premettere che riguardo al cambiamento proposto dalle nuove forme di comunicazione multimediale non nutro una particolare “resistenza”: non sono animato da una vocazione luddista, né da una concezione catastrofista dei moderni media della navigazione-in-rete. E nemmeno ritengo che questo nuovo modo di entrare in “connessione” possa avere una forza influenzante e persuasiva scontata e ineluttabile sui fenomeni psicologici, sociali e relazionali più in generale. Se vogliamo difenderci dal potenziale “manipolativo” della “rete” basterebbe forse cominciare ad intendersi su cosa effettivamente stiamo facendo o cercando quando adoperiamo determinati strumenti (o termini), io credo. È sempre la vecchia storia: “non il mezzo in sè il problema quanto l’uso che ne facciamo”, sebbene la natura del mezzo ne condizioni di per sè l’uso. Tuttavia, ritengo che rimanga pur sempre uno spazio di libertà all’interno delle possibilità (affordances) previste (e quindi in qualche modo obbligate) dal mezzo.
È pur vero che ormai tutto si sta spostando progressivamente on-line, quindi dal reale al virtuale che da più parti è considerato una forma più evanescente, impalpabile, ma ciononostante comunque rappresentativa del “reale”. Dunque se tanto mi da tanto tutto ciò che viviamo, vediamo, sentiamo nella vita “reale” perché non dovrebbe potersi riprodurre con i medesimi canoni di “verità-realtà” altrettanto nella vita virtuale che si sviluppa o si sperimenta su Internet?
Dalla rete potremmo compiere il download (possiamo scaricarci) persino di un sentimento come l’amicizia a forte valenza emotiva e sociale, quindi?
A questo punto varrebbe la pena chiedersi cosa significa essere “reale” o “vero”.
Se partiamo dal presupposto “postmoderno” che non esiste una realtà indivisibile, assoluta e uniforme, allora l’antitesi di “reale-virtuale” risulta troppo carente e vaga perché “non considera adeguatamente quanto possa risultare concretamente problematico delimitare i confini del − non-virtuale − nel contesto culturale dell’esistenza umana reale”. Lungo un continuum potremmo ad un estremo considerare “reale” tutto ciò che è percepito istantaneamente e direttamente con i sensi e il corpo e all’altro estremo il “virtuale” vale a dire “l’esperienza mentale di qualcosa che non ha una reale corrispondenza sensoria” e nel mezzo tutta una serie di sfumature date da varie proporzioni di reale e di virtuale.
La posizione non è così bislaccca se pensiamo che persino la fisiologia della visione da adito a qualche dubbio perchè insegna che tutta la percezione è fondamentalmente virtuale, una proiezione di contenuti mentali che strutturano le sensazioni. Nella “realtà reale” figure, sfondi, prospettive, trame e colori, come insegna la psicologia della Gestalt, tra le altre, non esistono in assoluto, ma sono il risultato di fenomeni cerebrali, costruzioni dell’apparato visivo. Addirittura anche la cultura e l’arte sono “realtà virtuali” se le interpretiamo come “raffigurazioni, attraverso astrazioni mentali o sensorie, di aspetti sia concreti che astratti del mondo e del pensiero”. E se ci appelliamo ai dettami della fisica quantistica scopriamo che il mondo non funziona secondo i canoni della causalità lineare: viene meno la prerogativa della nostra mente di interpretare gli eventi in termini di causa ed effetto e la nostra esperienza “virtuale” del mondo rischia di introdurci “in un baratro terrificante privo di punti di riferimento, sprovvisto di coordinate spazio-temporali”.
Messa così (alla maniera costruttivista) allora non avrebbe molto senso distinguere tra “amicizia reale” e “amicizia virtuale” che pari risulterebbero, a questo punto.
Preciso, visto che sono partito dal presupposto che le parole sono importanti, che in questo contesto utilizzo il termine “virtuale” nell’accezione di “potenziale”, che “potrebbe manifestarsi, ma non può mai manifestarsi concretamente”. E ancora “virtuale” come “creazione digitale che ricerchi una verosimiglianza sia a livello fantasioso e immaginifico sia a livello di riproduzione di qualcosa di reale”.
Dunque, vista in questi termini ha senso parlare di “amicizia” in un contesto “virtuale” come quello di Internet e di Fb nello specifico? Cosa stiamo facendo “realmente” quando, ad esempio, “chiediamo l’amicizia a qualcuno su Facebook”?
Vorrei prendere in considerazione alcuni punti fondamentali, secondo me, che possono fare del web un’esperienza (virtuale) “bella e terribile” al contempo.
Inizierò per la disamina “dall’esperienza terribile” del web.
Partiamo dal presupposto che non bisogna sovrastimare l’influenza della “mediazione” (cioè del “net” e della materialità del computer) sulla relazione che si sta instaurando attraverso il web, vale a dire che non considero il mezzo come causativo di per sé di un esito “perverso” scontato e ineluttabile. È più utile, forse, spostare l’attenzione sul tipo di relazione tout court che si sta sviluppando all’interno della ragnatela telematica e sulla sua “dimensione illusoria e segretamente collusiva”, semmai.
In effetti, si ha l’impressione che Fb e internet, così come certe trasmissioni tv dove quotidianamente si fa strame di sentimenti e del dolore umani e senza pudore alcuno, si alimentino della più bieca “intimità individuale” banalizzandola in tutti i suoi aspetti più nobili. Il termine “banalizzare”, non vuole essere qui un giudizio di valore necessariamente negativo (non completamente almeno) ma attiene alla constatazione che è in corso una tendenza “oggettiva” quanto eccessiva, secondo me, alla semplificazione che ha tutti i crismi di certo “appiattimento” cui può andare incontro la nostra esistenza quotidiana reale.
Insomma, sembra di assistere ad una “perdita di competenze riflessive e critiche” da parte dei fruitori delle “comunità telematiche” per un’urgenza spasmodica di “semplificazione” come reazione al malessere e alle difficoltà scaturite “naturalmente” dalla complessità della “carnalità-corporeità” della vita quotidiana.
Molti internauti capita che si sentano davanti allo schermo animati da una forza e temerarietà che nella vita “reale” non si riconoscono; si sentono incoraggiati ad esprimere “maggiore spontaneità, maggiore naturalezza, maggiore schiettezza e immediatezza, più egualitari, meno convenzionali, a volte fin troppo estroversi”, alla fine. Si nota una tendenza di matrice non necessariamente patologica a perdere o quantomeno ad allentare i confini tra l’interno e l’esterno. Nel mondo “virtuale” siamo ciò che vorremmo essere, nel “reale” semplicemente soffriamo per essere ciò che siamo.
Ma allora cosa si cela effettivamente dietro la richiesta di amicizia sui social network?
Si ha l’idea che si guardi ad internet col timore però di rimanere asserviti, imbrigliati da questa ragnatela telematica. E allora ci si mette nelle condizioni, attraverso la ritualizzazione e simulazione dei sentimenti e delle emozioni, di non doverci annegare fatalmente in questo mare magnum dagli abissi letteralmente infiniti.
Si oscilla tra un senso di vicinanza e di compiutezza totale, a una percezione di lontananza siderale, la sensazione terrificante di sradicamento, l’insostenibile leggerezza e fatuità del vuoto. Ed è proprio la sensazione di vuoto trasmessa dello spazio incommensurabile del web che renderebbe operativo nei “net-surfers” il meccanismo di difesa, per così dire, della “gruppalità interna” presente, anzi, sarebbe meglio dire latente, in noi lungo tutto il corso della nostra vita. Poco importa se manca ogni contatto o interazione sensoriale tra i suoi net-membri come in una vera struttura gruppale. Ciò che conta è che le “fantasie gruppali” della nostra mente (o “aspetto collettivizzato cioè orientato verso l’esterno della nostra personalità”) si inneschino per reagire alla sensazione di essere sprofondati nell’anonimia e destinati all’oblio e nonostante si avverta contemporaneamente la sensazione di condividere un’energia e le “potenzialità” di un gruppo “prestigioso” e di conseguenza avvertito come protettivo. Ma più un gruppo è vasto e più numerosi sono i suoi iscritti meno è possibile stabilire “reali” relazioni interindividuali, come richiamato dallo studio stesso di Dunbar. In rete questa frantumazione in uno spazio sempre più grande insieme alla percezione del rischio di poter perdere la propria identità personale non fanno altro che alimentare quel “fantasma di smembramento che può essere alla base di un vissuto di depersonalizzazione”.
E potrebbero essere proprio i timori di depersonalizzazione e le fantasie di disintegrazione a spingere i navigatori dell’immenso oceano virtuale a riunirsi in comunità virtuali che di fatto sorgono come “isole più organizzate nel mare magnum del cyberspazio”. In questo “infinito virtuale” si percepisce sotto traccia comunque una lacerazione dell’esperienza “normale-reale” che viene vissuta come una minaccia alla propria identità verosimilmente.
È fatale allora che Facebook nonostante sia frequentato da milioni di persone venga percepito comunque dai suoi frequentatori come un “piccolo campo gruppale” condiviso, un’isola felice virtuale in cui ci si può finalmente aggregare e “riconoscersi” e “riconoscere gli Altri” perché, seppure rarefatta ed evanescente questa oasi, è munita di “coordinate virtuali chiare e riconoscibili capaci di fornire le basi per un senso di appartenenza”.
E per avere contezza della propria esistenza e di quella del gruppo non è necessario partecipare attivamente attraverso messaggi scritti o immagini da postare o faccine per commentare, ma è sufficiente essere semplici osservatori silenziosi di foto altrui, lettori nascosti di messaggi di altri. Allora poter sbirciare nella vita del nostro prossimo non è più né peccato, né vietato anzi si gode persino dell’autorizzazione implicita di tutti coloro che per esistere devono spiattellare momenti della propria vita privata ancorandoli al web prima che si dissolvano nei meandri della loro memoria: Facebook come un immenso hard disk virtuale che immagazzina sequenze di fotogrammi del film della vita di ciascuno. Parole, foto, video-frammenti di esistenza, ricordi che si possono dire veramente vissuti solo a patto che siano stati comunicati, visionati, pubblicati sul grande e immenso” “libro delle facce” multimediale. Internet una sorta di finestra da cui possiamo affacciarci per vedere scorrere la vita altrui, ancora una volta si realizza una simulazione di vita, un surrogate di esistenza che ci riduce a “semplici spettatori di una vita presa in prestito”, una vita altrui.
Condivido l’idea che i rapporti che si possono intrattenere nella rete non potranno essere mai paragonabili né sostitutivi di quelli vissuti nella concretezza di una rapporto faccia a faccia poiché la dimensione psicologica di un individuo esiste in quanto in relazione reale con la dimensione psicologica di altri individui in quanto la crescita della personalità dipende molto dai fattori emotivi che scaturiscono dal vero rapporto in carne e ossa interpersonale. Io non chiamerei molto superficialmente “amicizia” quelli che mi appaiono più verosimilmente come “attaccamenti compulsivi” e transitori tra persone per le quali la relazione prende la forma di una “corrispondenza appassionata”, per così dire, eventualmente, a tratti impetuosa, violenta persino oppure affettivamente molto intensa. Queste fervide “fissazioni transitorie” sono paradossalmente spesso tanto più rapidamente e completamente abbandonate, quanto più sono appassionate ed esclusive e non rappresentano realmente delle “relazioni oggettuali”, cioè non si può dire nemmeno che siano relazioni contrassegnate dall’ambivalenza in quanto non riconducibili a semplici espressioni di odio o amore. È vero che come nella vita reale anche nello scambio virtuale ci si può insultare, aggredire in molti modi e poi fatalmente ritornare d’amore e d’accordo come se nulla fosse successo, ma trattasi pur sempre, secondo me, più verosimilmente di “attaccamenti identificatori” dominati dallo sforzo di aggrapparsi al mondo esterno, a qualcun altro, per così dire, con una modalità narcisistica-dipendente.
Adesso veniamo all’esperienza “bella” del “virtuale”.
La simulazione-semplificazione del web e sul web è sì una “mistificazione”, ma dettata pur sempre da motivi di opportunità, per così dire. Sussiste per l’Io cosciente nel web come nel mondo “reale” un bisogno sostanziale, “reale” di coerenza, un bisogno vitale di coesione interna e di adattamento alla “nuova realtà virtuale”, in questo caso (da qui il ricorso ai social network, i gruppi telematici come prefigurato più sopra), così come nella “realtà reale” accade che necessitiamo di far parte di un gruppo. Questo bisogno di “integrazione” come ricordato prima espone spesso la coscienza al rischio della “normalizzazione”, un processo in virtù del quale il mondo – reale e virtuale – dev’essere descritto in termini di “senso comune”, pena una “sensazione di esclusione” che può sfociare nella disintegrazione dell’Io medesimo.
Questa necessità di unità risponde a un’esigenza di economia cognitiva e psicologica insieme propria dell’attività mentale che deve forzosamente procedere ad una selezione delle informazioni in entrata, per evitare di precipitare nello “smarrimento del caos”: tuttavia è proprio questo processo di cernita che potrebbe risolversi al contempo in una scarsa propensione alla riflessione critica in quanto gran parte delle sue risorse è utilizzata nell’arduo “dovere” dell’adattamento.
Si ripropone allora anche sul web il problema della falsa coscienza, come dato strutturale dell’esperienza umana.
La buona notizia è che ciò non significa però necessariamente né sminuire “l’autorità” della coscienza, né screditare l’attività dell’Io.
Mi spiego! Com’è noto, la coscienza è il luogo essenziale dove viene espressa la consapevolezza della propria “vocazione” (delle proprie inclinazioni) e tramite la quale l’essere umano deve dare prova di se stesso. La coscienza è anche unità dell’Io. L’Io sano (integro), costituisce il principio unificatore di tutti i processi e le funzioni della personalità, è l’agente centrale che opera in modo da unificare la personalità e mantenerne l’integrità. In tal modo si acquisisce una conoscenza profonda e durevole di sé (Io strutturale) unita a una padronanza della propria persona al fine di canalizzare tutte le energie verso la realizzazione di scopi e mete costruttivi sia psichici che metapsichici (io finastico o metafisico o escatologico). In sostanza il “mondo reale” richiede un essere umano dall’Io integro (olistico); un Io “compiuto”, cioè capace di integrare armonicamente tutte le sue funzioni. Soltanto un Io siffatto pone il futuro adulto, in linea di principio, nelle condizioni di poter prendere una decisione libera, responsabile e ragionata riguardo alla propria scelta di vita.
Sostanzialmente, la persona nel “mondo reale” entra nella “relazione-con-l’Altro” in quanto “tutto” (fisico e psichico), non parzialmente, cioè la “relazione”, in quanto esperienza della coscienza, è sempre caratterizzata dalla totalità: tutta la persona, la persona integrale e integrata (libera, consapevole e responsabile), entra in connessione con gli Altri.
Ciò significa che l’individuo è una “realtà integrata” che presenta le diverse componenti (istanze) o funzioni di cui è composto (cognitive, affettive, biologiche, socio-relazionali), in continua transazione, interagenti costantemente le une con le altre al fine di facilitare una crescita globale e armonica.
Consideriamo, in questa sede, il Sé nell’accezione di istanza che designa ciò che devo diventare, che indica la maturazione di un’autocoscienza accompagnata da una precisa volontà di essere quel che si può essere, che attesta il riconoscimento dell’avvenuta realizzazione della propria originaria natura. L’Io è invece descrivibile come l’istanza che individua ciò che sono in un determinato momento della mia storia di vita e che dovrebbe promuovere finalmente l’estrinsecazione del Sé.
Purtroppo o per fortuna è nell’ordine naturale delle cose che questo processo di “individuazione” non si dipani mai in modo ottimale (la crescita non è mai lineare, non sempre almeno).
Capita allora che l’Io per tanti motivi non riesca a svolgere degnamente il ruolo di fautore della crescita e dello sviluppo del Sé, finendo, al contrario per diventare motivo di blocco, di arresto, di ostacolo alla emancipazione, alla maturità. L’Io diventa un giogo, una trappola, un inganno, un’insidia, una gabbia. I reciproci rapporti di collaborazione tra l’Io e il Sé vengono alterati; il sincronismo di queste due strutture psichiche salta, ma non in modo ineluttabile.
Ecco allora che viene in aiuto, per così dire, questo nuovo e curioso, per molti versi, mix di identità, corpo e relazione che si sviluppa “in-rete”.
Nella “ragnatela telematica” dei social network può affermarsi “l’immagine di un Sé multiplo e decentrato, ovvero la concezione dell’identità composta da Sé deboli protagonisti di relazioni e biografie alternative liberi da vincoli di coerenza e staticità che possono vestirsi di più soggettività (provvisorietà sociale del soggetto)”. A differenza che nel “mondo reale” dove i Sé multipli sono tendenzialmente già codificati, formalizzati (“Io” posso essere di volta in volta, ad esempio, un figlio, un genitore, un lavoratore, un amante, un marito, un vicino di casa, un attento ascoltatore o un passivo spettatore ecc.), nel “mondo virtuale” si assiste a “un processo di distorsione spazio-temporale grazie al quale è possibile eliminare i vincoli e le costrizioni percepite nella vita reale per aprirsi alla libertà di sperimentare una mutuata percezione di sé e degli altri”.
Se è vero che nel web da un lato rischiamo una “grave perdita di informazioni” foriera di “semplificazione, banalizzazione, massificazione, manipolazione”, dall’altro si assiste all’affermazione di “un’etica della responsabilità radicale” che allontana il soggetto da ogni illusione e pretesa insieme di dominio.
Allora, l’indebolimento dell’identità più che un suo rafforzamento viene richiesto dall’esperienza multimediale. Un “Io diviso”, non è un “Io-debole” tout court, ma delinea un soggetto dinamico che ha coscienza di sé aperto all’altro e ai rischi che questa apertura comporta, non l’individuo monolito, granitico, compatto, autistico, chiuso in sé e “sprofondato nelle sue incrollabili certezze”, una monade, insomma. Ma un soggetto che rompe l’asservimento a se stesso, che si libera delle proprie limitazioni proponendosi come “persona” capace di superare i propri limiti e di strutturare strategie diverse per raggiungere più ampi orizzonti cognitivi del Sé e del reale. Ecco allora “l’essere” ambivalente, travagliato sempre disposto ad andare oltre i propri limiti, a trascendere il proprio “Io” quello che mette in discussione i granitici convincimenti in se stesso e nella propria identità. Quindi, si abbandona la concezione di un “Io forte” che procede lungo un percorso coeso sorretto da principi stabili e duraturi. Si evidenzia invece un’esperienza di “frantumazione del Io” nella rete che non è necessariamente l’esperienza psicotica di chi ha perso “l’esame di realtà”, ma un modo più “realistico” e complesso, di vivere questa flessibilità dell’identità che è molteplicità del Sé pur nella rarefazione della “rete telematica”. Può apparire paradossale ma è proprio questa “coscientizzazione” delle potenzialità personali nel web che può condurre alla strutturazione di un Io più integrato e meglio strutturato nelle sue funzioni, per consentire il superamento delle problematiche regressive aprendo il cammino a prospettive di sviluppo e di crescita della personalità.
Come si vede la realtà anche quella “virtuale” è fin troppo sfaccettata.
Dunque, “viste le premesse, vagliati i dati e analizzati gli esiti del percorso”, di una cosa rimango discretamente sicuro: quella su Fb non può dirsi “amicizia”: essa è fatalmente un’altra cosa. Potremmo parlare forse di una simulazione di pensiero, di simulacro di un evento reale, ma non della “realtà dell’amicizia”. Trattasi alla fine di un “emulazione fallita”, quella che pretende di “ripetere stili e modelli senza padroneggiarne il significato profondo”. E non potrebbe essere altrimenti, secondo me. Non bisogna pretendere di vivere sul web la natura profonda dei sentimenti e delle emozioni che proviamo nel corso della nostra vita “corporea”. Pensiamo alla trasposizione cinematografica di un romanzo. Non si può esigere di ritrovare il libro al cinema. Fatalmente il mezzo cinematografico farà di quel romanzo un’altra storia e se uno si ostina a voler fare confronti rischia di rimanere profondamente deluso e si perderà tutto il fascino eventualmente posseduto dal film stesso. Bisogna essere coscienti che stiamo assistendo ad altro. Così occorre essere coscienti che non è amore o amicizia quello che stiamo vivendo sul web ma senso di solitudine, bisogno di appartenenza, necessità di semplificazione, bisogno di protezione, affermazione di identità, bisogno di riconoscimento, tutte cose degnissime s’intende, ma l’amicizia è un’altra cosa, fatalmente.
Probabilmente può aiutarci ricordare sempre che dietro la magia delle nostre interconnessioni telematiche si nasconde una realtà alquanto squallida per certi versi fatta di “numeri e simboli e algoritmi” impenetrabili alla maggioranza silensiosa. Tutte le immagini sono il risultato di un puzzle i cui tasselli “sono costituiti di un numero limitato di pixel, tutti i suoni hanno una frequenza di campionamento, tutti i programmi celano dietro i corpi rigogliosi delle loro interfacce agghiaccianti scheletri esadecimali, tutte le colorate e animate pagine del web hanno origine da spigolosi ipertesti zeppi di tag e di strutture di formattazione, tutti gli effetti mirabolanti 3d sono possibili grazie a complicate tecniche ornamentali di rendering, di filtraggio, di mappatura, di texture”. Non nego che tutto ciò possa avere un suo fascino, ma non è questo il tipo di bellezza che può fare di un’iterfaccia “confidenzialmente” friendly il tramite per una “reale” amicizia. Non illudiamoci di “scaricare” l’amicizia da internet! Al massimo potremmo utilizzare Internet per “scaricare” l’amicizia, ma nel senso di “sbarazzarci” dell’amicizia di qualcuno. Servirci di Internet per comunicare notizie che non abbiamo il coraggio di esprimere nel faccia a faccia del “reale” quotidiano può essere un espediente possibile seppure discutibile. Un po’ come quelli che utilizzano gli sms per “scaricare” amanti o licenziare lavoratori.
Certo, non è un comportamento garbato! Non è per niente friendly!