Commento all’articolo di Massimo Ammaniti apparso su La Repubblica il 25 maggio 2016
L’Autore ci mostra l’attuale ampliamento del concetto di inconscio rispetto a quello freudiano: non solo quello dinamico rimosso dalla coscienza, ma una più ampia espressione di particolari modalità di funzionamento, come la conoscenza implicita.
Fa presente che già prima di Freud autori ottocenteschi come Stevenson avevano prestato forte attenzione all’inconscio; a parte i ben noti riconoscimenti di Freud stesso a Nietzsche e Schopenhauer.
Ma forse si può risalire ancor più indietro, e proprio in riferimento alla concezione estensiva dell’inconscio. Schelling: “I morti e inconsci prodotti della natura non sono se non dei conati falliti della natura per riflettere sé medesima; la cosiddetta natura non è se non una intelligenza immatura; perciò nei suoi fenomeni traluce, ancora allo stato inconscio, il carattere intelligente.
La natura raggiunge il suo più alto fine, che è divenire obbietto a sé medesima, con l’ultima e più alta riflessione, che non è altro se non l’uomo o ciò che noi chiamiamo ragione…”. Schelling prosegue il discorso portandolo alle sue conseguenze radicalmente idealistiche: la natura è sin dall’origine spirito, e di ciò diviene gradualmente consapevole. Non lo seguiamo fin lì, certo; ma dobbiamo riconoscere come di questo filone di pensiero fa parte l’intuizione che sotto la psiche cosciente esiste allo stato inconscio quel che lui chiama un “carattere intelligente”.
Non siamo lontani, mi pare, dal concetto di inconscio delineato da Ammanniti, quale “struttura mentale coesa e attiva che ci aiuta a valutare continuamente le esperienze che viviamo”. Nitido anche il possibile riferimento a Leibniz con il suo concetto di “percezioni insensibili” che “formano quel non so che, quei gusti, quelle immagini delle qualità sensibili, chiare nell’insieme ma confuse nelle parti: quelle impressioni che i corpi che ci circondano fanno su di noi e che involgono l’infinito; quel legame che ciascun essere ha con il resto dell’universo”.
Fra Leibniz e Schelling si inserisce tuttavia un insieme di movimenti che saranno la base dell’Illuminismo. L’empirista Locke nega alla radice il concetto di inconscio, come logicamente contraddittorio: ogni fenomeno mentale di cui siamo a conoscenza empirica è, per definizione, cosciente.
Agli illuministi il concetto di inconscio non poteva piacere poiché pareva incrinare il primato della ragione: di una ragione, di fatto, non ancora attrezzata per occuparsene. E’ una posizione che sopravvive in qualche modo nel “buon senso” comune, e che ci rende non così immediata l’accettazione di una mente inconscia. Del resto, lo stesso Jaspers in qualche modo vi aderiva, svalutando il concetto di inconscio che definiva una modalità di comprensione “come se”: non più che una ipotesi.
Freud ha trovato, in questa miniera, un filone collaterale ricco di minerali preziosi: l’inconscio come luogo di contenuti mal tollerati dalla mente cosciente, con i suoi codici e le sue simbologie. Grande concezione, e tuttavia non esaustiva.
Il movimento attuale di cui ci parla Ammaniti allora è forse in qualche modo il ritorno a una concezione più ampia, non proprio nuova quindi ma certo nutrita, come lui rileva, dalle nuove acquisizioni delle neuroscienze e dalla ricerca sulla mente infantile. Ancora una volta, il pensiero filosofico ha indicato strade che altri prima o poi hanno percorso. Non per caso: il suo prescindere da consolidate metodologie e tecnologie ne compromette la capacità di verifica ma amplia quella di iniziativa e di esplorazione.