Commento all’articolo di Luigi Zoia apparso su La Repubblica il 26/05/2023
Devo dire che quando ho letto il titolo dell’articolo di Luigi Zoia sono un po’ sobbalzato e mi sono chiesto se il nostro Jung, dall’infinito archetipico da cui ci osserva, non si sia un po’ arrabbiato sentendosi dare del maestro, lui che ha sempre detto che non voleva che ci si chiamasse junghiani, perché ognuno doveva seguire la sua strada, e tanto piu’ sentendosi dare del maestro da una persona esperta e così vicina a lui come Luigi Zoia.
Ma poi leggendo ho capito, e ho capito invece che il discorso di Zoia è al contrario profondamente vicino a Jung e coglie, soprattutto nel sottotesto, che invito ad ascoltare con attenzione, alcuni elementi che sono profondamente identitari nel nostro essere ciò che siamo in quanto Psicologi Analisti.
Il punto chiare, che Zoia non nomina, ma che è molto evidente, credo sia la dimensione dialogica del pensiero junghiano.
la dimensione dialogica, che si realizza compiutamente nel Tu Buberiano, ma anche nei momento di incontro di cui parla il gruppo di Boston, vuole dire realizzarsi nell’incontro, nel quale ognuno porta se stesso e capisce l’altro attraverso ciò che ha in comune con lui. In questo sta il senso di ciò che dice Zoia citando Platone, ma nel nostro piccolo è anche quello ci diciamo in struttura, che noi curiamo gli altri con inostri difetti.
Una altra cosa che Zoia non dice esplicitamente, ma che è molto chiara, e che deriva da quella dialogica, è la dimensione educativa.
Tutto il discorso di Zoia porta a definire il Maestro come un educatore, naturalmente nel senso più profondo del termine, perché è con la sua presenza che la funzione si esercita, e non nasce da saperi astratti, ma da gesti, azioni, incontri e relazioni. Nella pratica quotidiana questo significa confrontarsi, imparare dagli altri, e dai pazienti stessi.
In questo senso va ricordato che Jung poneva la educazione, lungo il percorso di aiuto psicologico, al di sopra di quella che chiamava abreazione, la confessione, lo sfogo, e al di sopra, come passo successivo, di quella che chiamava la chiarificazione, che corrispondeva alla pratica analitica. Questo è quello che in questi anni ho potuto vedere nel mio lavoro in struttura, nel quale l’obbiettivo è stato quello di far sì che la dimensione psichiatrica e psicologica facciano da base, e in un certo senso spariscano rispetto a quella che deve essere la esperienza di vita e di cambiamento, che si trova appunto nella dimensione educativa. Questo approccio naturalmente è complesso, e richiede molta formazione per il gruppo, ed è di solito poco visibile dall’esterno, con conseguenze talvolta dolorose
Infine, ma certo non ultimo, nel discorso di Luigi Zoia emerge con chiarezza quanto il pensiero, o meglio il paradigma junghiano, sia complesso, e intendo complesso nel senso in cui definiamo complesse le attuali teorie scientifiche. E questa è una esperienza che stiamo facendo, mentre cerchiamo di organizzare una ricerca in Psicologia Analitica in un paradigma di complessità. Jung è molto adatto all complessità, proprio per le ragioni di cui parla Zoia: empirismo, modelli piuttosto che teorie, tekné piuttosto che logos .
Così anche gli aspetti più contraddittori di Jung (che conosciamo bene noi, ma che si possono vedere bene anche nel racconto di Zoia) cessano di essere degli ostacoli o degli errori metodologici, e diventano invece occasioni di apertura e di incontro e di dialogo, oltre che punti di partenza per modelli nuovi di conoscenza
E così, infine, devo dire che sono sobbalzato inutilmente. È vero che Carl Gusta Jung ci ha dato se stesso, anche se ha cercato di evitarlo per molto tempo, e ci ha insegnato a fare altrettanto. Se non è un maestro questo…
Domani, 17 giugno 2023, si terrà l’Open Day “Come lavora un analista junghiano?” clicca qua per visualizzare il programma