Vaso di Pandora

Io (non) capitano: storia di un viaggio dalla Nigeria all’Italia

L’anno scorso ho visto il film “Io capitano”, film di Matteo Garrone candidato al Leone d’Argento per la migliore regia; il film racconta la storia di un ragazzo senegalese che decide di affrontare il viaggio per raggiungere l’Italia, in una vera e propria odissea di avvenimenti. 

Guardando il film ho subito pensato a I. un ragazzo nigeriano ospite ormai da un paio di anni della nostra comunità. Ho deciso così di intervistarlo e per cercare di scoprire se ci fossero delle analogie fra il viaggio di I. e il viaggio di Seydou, protagonista del film. Questo momento mi ha permesso di entrare in maggior contatto con il paziente, di esplorare pensieri ed emozioni difficilmente decifrabili in lui. È stato intenso osservare la sua commozione mentre mi parlava di una terra cara ma ormai lontana. 

Condivido le sue parole, sperando che questo possa farci un po’ più riflettere e immedesimarci anche nei confronti di temi di attualità che ogni giorno ascoltiamo tramite media.

Nigeria – Delta state.

Com’era la tua vita in Nigeria? Com’era la tua famiglia? che lavoro facevi?

Lavoravo in Nigeria come muratore e facevo soffitti, guadagnavo abbastanza bene. Sono figlio unico. 

I miei genitori sono morti in guerra: la nostra città era in guerra con un’altra città per il possesso di petrolio e per la sharp sand, ovvero sabbia tagliente utilizzata per la costruzione di edifici. 

Dopo la morte dei miei genitori sono andato ad abitare con mio zio. Non ho né fratelli né sorelle, ma ho tanti cugini sia più grandi che più piccoli. 

I grandi lavoravano alcuni vendendo gravel (ovvero terriccio/ghiaia) altri, soprattutto i più piccoli, andavano a scuola. 

Com’è la scuola in Nigeria?

La scuola in Nigeria è buona, anch’io sono andato a scuola per 12 anni. 

Quando e perché hai deciso di lasciare la Nigeria per venire in Italia?

Mamma e papà sono morti nel 2015, ammazzati da persone di un’altra comunità nigeriana, dopo quell’avvenimento ho deciso di andarmene dalla Nigeria. 

Non l’ho detto a nessuno della famiglia e sono partito. 

Ho attraversato la Nigeria a piedi con un gruppo di persone auto-organizzato lì in Nigeria. Ho camminato un mese nel deserto per arrivare in Libia. Nel deserto ho incontrato dei militari niger che volevano derubarci, ma io non avevo soldi con me, quindi mi hanno picchiato; chi aveva dei soldi e li ha dati a loro è stato lasciato stare. Questo è successo più e più volte durante il mese di cammino. 

Il mio naso sanguinava spesso, penso si sia anche rotto, infatti una volta arrivati in Italia, sono stato operato a Bari. Mi hanno dato pugni e schiaffi. Dopo essere stato colpito, avevo dolore in ogni parte del corpo ma dovevo continuare a camminare, ho dovuto essere molto forte. 

Non c’era nulla né da mangiare, né da bere. 

Qualcosa da mangiare ci siamo portati dietro alla partenza, ma non è bastato per un mese intero di cammino. Ero dimagrito di molti chili. 

Come facevate a sapere quale strada percorrere?

C’era una macchina che guidava la strada, non so se pagata da qualcuno, noi dietro seguivamo la strada che compiva la macchina. 

È stato un viaggio difficile, la cosa più difficile era non mangiare e bere. 

Eravamo circa in 15, tutti uomini, tre di noi sono morti per la stanchezza e le botte ricevute. 

Era emotivamente molto difficile lasciare i compagni, ma sapevi che non potevi fare nient’altro. 

E una volta arrivati in Libia?

Siamo arrivati in Libia in 12. Appena arrivato in Libia sono stato arrestato perché ero senza documenti. 

Sono stato trasferito un una prigione libica, lì ci picchiavano tutti i giorni, eravamo tanti. 

Dopo un po’ di tempo sono stato comprato come schiavo da un muratore libico, ho quindi cominciato a lavorare per lui. Costruivamo ville per uomini ricchi, mi hanno fatto lavorare per quasi un anno. Mi pagavano, ma non tutti i giorni e meno di quante ore lavoravo. 

Quando ho saputo di avere abbastanza soldi per il viaggio sono scappato a Tripoli capitale della Libia. Ci ho messo tre giorni a piedi, ho incontrato un altro ladro militare, ho nascosto i soldi che avevo per il viaggio nelle pieghe del collo, sono stato nuovamente picchiato da questo gruppo di militari che indossava delle maschere per coprire il volto e possedeva armi. 

Dopo avermi picchiato mi hanno lasciato andare e sono arrivato a Sabratha. 

Arrivato a Sabratha delle persone hanno minacciato me ed altri con un fucile, volevano obbligarci a fare carwashing, ovvero lavare delle macchine. Tre persone prima di me hanno rifiutato e sono state uccise davanti ai miei occhi, a quel punto il loro capo ha deciso che era abbastanza che io ed altri potevamo accettare di lavare le macchine per poi prometterci il viaggio in barca. 

Abbiamo aspettato un mese prima di partire in questo mese io ho continuato a lavare macchine. 

Un giorno ci hanno detto che la barca era pronta e potevamo partire, eravamo 125 fra uomini, donne e bambini, la barca era piuttosto grossa. 

Siamo partiti a mezzanotte e siamo arrivati a mezzogiorno del giorno successivo, il viaggio è durato quindi 12 ore prima di ricevere i soccorsi. Il mare era piuttosto calmo, non ci avevano dato nulla né da mangiare né da bere, cosa che ci è stata poi portata dai soccorsi. 

Una persona random (casualmente) di noi è stata scelta come scafista e ha guidato la barca, senza che questa avesse competenza alcuna. Quando i soccorsi sono arrivati eravamo circa a metà strada; i soccorsi provenivano dalla Germania. 

Ci hanno dato da mangiare e da bere, ci hanno fatto trasferire su un’altra nave italiana arrivata in un secondo momento, durante quel viaggio non c’era niente da mangiare, solo biscotti e noi avevamo molta fame. 

Su quella barca siamo arrivati tutti e 125 in Italia, precisamente a Salerno. 

E dopo il tuo arrivo in Italia?

Sono stato a trasferito a Bari, in un campo profughi fatto di grandi container. Ho vissuto dentro una casa prefabbricata per due anni e mezzo, quasi tre anni. Condividevo la stanza con altre 4 persone, sempre nigeriani che non conoscevo.

I. è entrato in comunità nel 2020: i primi mesi è rimasto per lo più ritirato in stanza, senza parlare, presentandosi agli operatori solo nei momenti dei pasti, sintomi di una possibile condizione post traumatica. Gradualmente ha iniziato ad aprirsi, affidandosi per lo più all’educatrice di riferimento per alcune richieste e per contattare tramite social parenti e amici in Nigeria. Grazie all’aiuto del servizio è stato inserito all’interno di un progetto, dove ha avuto modo di entrare in contatto con una mediatrice culturale, tali incontri hanno permesso a I. di raccontare la propria storia.

Dopo quel momento è iniziata un’apertura graduale e costante di I., ha iniziato a partecipare alle attività della struttura, ad avanzare richieste in modo adeguato agli operatori, a rapportarsi con gli altri ospiti fino ad oggi, quando gli è stata offerta la possibilità di effettuare una borsa lavoro interna alla struttura, che sta portando avanti con estrema affidabilità e diligenza. Il percorso terapeutico e comunitario è stato di grande aiuto per I., la terapia farmacologica è stata diminuita e le condizioni cliniche del paziente sono rimaste sempre buone. Al momento si sta lavorando per permettere un rientro sociale adeguato, attraverso il raggiungimento di alcune pratiche amministrative e burocratiche come il permesso di soggiorno.

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