Sono rimasto molto colpito dopo aver letto tre articoli presenti sul supplemento domenicale del Corriere della Sera.
In essi viene tracciato un quadro, a dir poco: luci ed ombre, a proposito del significato attuale dell’esistenza e del funzionamento prevalente dei “social”.
Il riassunto del primo e più consistente articolo, a firma di un insigne antropologo, propone che: “la rete (internet) e, quindi, i social, da strumento di libertà e, perfino, di liberazione degli individui e dei popoli (così come erano apparsi essere inizialmente, venti anni fa), sembrano essersi trasformati in pericolosi sistemi di manipolazione di massa.
Il titolo del secondo ci parla della “capacità delle piattaforme di cancellare il noi” e il terzo ci propone di riflettere sul fatto che, in realtà, la rete, paradossalmente, ci disimpara a dialogare.
Che pensare di fronte alla lettura di articoli siffatti? E, soprattutto, mi chiedo, è possibile fare qualcosa di fronte a uno sfacelo di queste proporzioni?
Mi è tornato in mente il senso di quanto proposto dai Gruppi di Psicoanalisi Multifamiliare: aprire un dialogo in situazioni in cui la capacità di dialogare era andata perduta, per es. nelle famiglie psicotiche.
E mi sono chiesto: forse questo è un modo, assolutamente minoritario, però forse significativo di ricordarci che, viceversa, dentro di noi seguita ad albergare la capacità di confrontarsi: che non tutto è perduto.
Una strada ci sarebbe per cambiare la situazione verso la quale stiamo inesorabilmente scivolando: provare a diffondere che, contrariamente a quello che ci propone la rete, è possibile costruire una situazione in cui due pareri diversi possano essere reciprocamente tollerati e contribuire, nella e per la loro diversità, ad avviare una discussione arricchente per tutti, a patto di “non pretendere di avere ragione”.
In poche parole, riunirsi in gruppo, possibilmente con la presenza di persone appartenenti ad almeno due generazioni, sembra configurarsi utile a contrastare la perdita della capacità di tollerare di avere dei dubbi su quello che pensiamo e, viceversa, di tendere sempre più a rifugiarsi in un gruppo in cui siamo sicuri che l’altro la pensi come noi.