Leggendo due recenti articoli comparsi sul VdP on line, “Viviamo in un mondo crepuscolare” di Pietro Ciliberti e quello di Giuseppe Caserta “Hikikomori, i giovani eremiti laici della modernità“, mi è venuto in mente che: nel gennaio del 1979, mi recai a Trieste, in compagnia di un mio amico e collega argentino che lavorava in Belgio, Eduardo Crivisqui. Lo avevo conosciuto ad un Seminario sull’Epidemiologia Psichiatrica, a Bruxelles, alla fine di maggio del 1978. Lui si era molto appassionato alle vicende italiane, che avevano portato alla chiusura dell’accettazione degli Ospedali Psichiatrici e si era cominciato a chiedere come avremmo fatto, adesso che il Manicomio era chiuso, a curare i malati psichiatrici.
Poi, nel dicembre del 1978, era stata promulgata la Legge di Riforma del Sistema Sanitario Nazionale, che giudicava, come si è dimostrato, un atto rivoluzionario. A quel punto, non ci ha visto più: mi ha chiamato perché voleva andare a Trieste, a chiedere a Franco Basaglia che cosa avrebbero fatto, adesso che nell’OP non si poteva più entrare per esservi ricoverati.
Così partimmo, in cuccetta, di notte, giungemmo a Trieste e andammo al San Giovanni (OP).
Confrontarsi coi colleghi
Prima di Basaglia, incontrammo un collega psichiatra, che ci raccontò che, nella notte, avevano appena ricoverato, per la prima volta, un paziente presso il SPDC dell’Ospedale Generale di Trieste e che Basaglia era tutto arrabbiato. Perché lui avrebbe voluto dimostrare che, se i Servizi Territoriali avessero funzionato a dovere, non si sarebbe verificata la necessità di ricorrere al ricovero in un reparto di psichiatria ospedaliero, tanto più contro la volontà del paziente.
D’altronde, loro, cioè gli operatori che lavoravano nei Centri di Salute Mentale, i quali disponevano di letti all’interno dei CSM e, quindi, in caso di bisogno potevano effettuare un ricovero utilizzando quei letti, non ce la facevano più a confrontarsi con la psicosi senza l’OP e avevano necessità di aiuto: per questo avevano, per la prima volta, effettuato il ricovero di un paziente in fase acuta presso il SPDC dell’Ospedale Generale.
Successivamente, incontrammo Basaglia che non sapeva nemmeno chi eravamo, ma che si incuriosì del fatto che una persona fosse venuto dal Belgio e uno da Roma per capire quello che stava succedendo.
Confrontarsi coi famigliari dei pazienti
Nel frattempo, però, arrivò una donna, la madre di un paziente di Ascoli Piceno, che si era sentito male in termini psichiatrici e che era stato ricoverato in SPDC, ma che voleva sapere da Basaglia se quello che gli stavano facendo andasse bene e, insomma, che Basaglia le dicesse quello che lei e la sua famiglia avrebbero dovuto fare da quel momento in poi: magari portarglielo a Trieste perché fosse lui a curarlo, come ad un certo punto propose.
A quel punto, Basaglia non si tirò indietro e con pazienza e gentilezza, spiegò alla madre che il figlio lo stavano sicuramente curando bene nell’Ospedale del paese dove viveva, che lei avrebbe dovuto smettere di disperarsi e tornare a casa per occuparsi di lui. E la madre ci lasciò, rincuorata da Basaglia, un po’ più tranquilla.
Poi ci spiegò che quello che era appena accaduto a Trieste era il tallone di Achille della Legge di Riforma Psichiatrica: che se i Sevizi Territoriali avessero fatto ricorso al ricovero in SPDC, in forma massiccia per i pazienti da loro seguiti, questo avrebbe fatto correre il rischio che il Movimento per la chiusura degli OP non fosse riuscito a dimostrare che si potesse fare a meno della necessità di utilizzare l’OP che, pur essendo nato per migliorare le condizioni dei pazienti in esso ricoverati, si era rivelato un lugo che li faceva peggiorare e, in un numero esorbitante, mai più uscire da esso. Per questo, lui avrebbe voluto dimostrare che, ove ci sono Servizi Territoriali ben organizzati e funzionanti, il ricorso al ricovero presso i SPDC avrebbe potuto essere evitato o, comunque, fortemente limitato.
Alla luce di quanto accaduto nei successivi 45 anni, non è possibile dargli torto.
I servizi rerritoriali
Ma da che cosa dipende che i Servizi territoriali di un DSM, nella loro complessità, riescano ad essere efficaci nel senso che proponeva Basaglia?
La Psichiatria ufficiale, quella insegnata nelle Scuole di Specializzazione in Psichiatria, ha seguitato ad essere insegnata in SPDC, perché questi sono gli unici reparti di cui si dota, nella stragrande maggioranza dei casi, una Cattedra Universitaria per insegnare la Psichiatria ai futuri psichiatri in formazione e a psicologi, infermieri, assistenti sociali e terapisti della riabilitazione psichiatrica in tirocinio, cioè a tutti i tipi di operatori presenti nei Dipartimenti di Salute Mentale.
La formazione, in Psichiatria è stata seguitata a fare in Ospedale, prevalentemente con i pazienti in regime di ricovero e, in subordine, presso gli ambulatori del SPDC ospedaliero.
Le conseguenze di tutto ciò sono sotto gli occhi di tutti: gli operatori dei Servizi Pubblici sempre più stressati e, privi della possibilità di combattere, si rifugiano ogni giorno di più in pratiche psichiatriche tradizionali, volte all’identificazione dei sintomi, all’effettuazione della diagnosi e alla somministrazione della corrispondente terapia farmacologica.
E i motivi della sofferenza che si è manifestata nei pazienti? Come sappiamo tutti, se non si apre una riflessione sui motivi, la sofferenza tornerà e tornerà, con facilità, in forme sempre meno aggredibili.
Come se ne esce?
Seguitando ad ignorare i motivi che sono alla base della patologia oppure provando a cominciare ad occuparsene?
Ma, in realtà, perché è difficile occuparsi dei motivi? Perché non si può fare la psicoterapia a tutti: tutti sanno che questo è impossibile. Ma è questo il problema? L’unico problema o il principale? Oppure il problema principale è costituito dalla mancanza di un’adeguata preparazione degli operatori e dalla mancanza dell’accettazione che la propria formazione inizia ma non finisce, che bisogna rassegnarsi a farci i conti per il resto della nostra vita?
Io penso che per moltissimo tempo il problema della preparazione degli operatori è stato posto in una maniera sbagliata, pensando che l’unica alternativa potesse consistere nel fatto che ogni operatore avrebbe dovuto fare l’analisi personale per giungere a confrontarsi con la psicosi.
Secondo me, questo era un modo sbagliato di porre la questione, perché la chiara impossibilità di fare questa operazione ha colluso con le difese personali, finendo per determinare l’idea che gli psichiatri e gli psicoterapeuti non di formazione psicoanalitica potessero fare a meno di un lavoro su di sé. Convinzione che si è rivelata del tutto erronea per chi si occupa di psicosi. Perché è ormai chiaro, proprio per le esperienze maturate nelle Comunità Terapeutiche, che l’unico modo per fronteggiare la psicosi consiste nell’avere la capacità di considerare che si è almeno in due a contribuire all’evoluzione della situazione: il paziente e l’operatore e che è necessario che entrambi acquisiscano la capacità di esaminare i propri errori e, se possibile, provino a modificarli.
Confrontarsi con la psicosi
In tutto ciò, sta emergendo una posizione nuova da parte di un gruppo di psicoanalisti che hanno lavorato nelle istituzioni, consistente nella proposta che i modi migliori per “incontrare” la psicoanalisi siano costituiti dal Seminario Analitico di Gruppo (Sadig) e dal Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare (Gpmf).
Essi basano la loro convinzione sul fatto che in entrambe queste situazioni viene fatto sperimentare, ai soli operatori nel Sadig ed ad operatori, pazienti e familiari (nel Gpmf), che la mente umana può lavorare con profitto, in gruppo, sia in base al cosiddetto Principio Secondario (razionale), sia in base al Principio Primario (per libere associazioni).
Che cosa vuole dire tutto ciò? Che se vogliamo “competere con la psicosi”, dovremmo partire dalla accettazione che il primo mattoncino su cui costruire l’edificio dedicato a questo scopo è costituito dall’acquisizione di una certa curiosità verso noi stessi e, conseguentemente, di approfondire, ognuno a proprio modo e secondo i suoi mezzi, la capacità di guardarsi dentro: partecipare ad un Sadig e/o ad un Gpmf può rappresentare il primo passo di un lungo e complicato cammino trasformativo di ognuno e di tutti gli operatori, per divenire capaci di confrontarsi con la psicosi.