Studiato, incompreso, amato, snobbato, a volte venerato, a volte persino odiato.
Resta difficile tracciare un quadro unitario di come Carl Gustav Jung, psichiatra svizzero fondatore dell’approccio psicodinamico noto come Psicologia Analitica, venga percepito da chi ci si imbatte, tuttavia è innegabile che egli abbia lasciato una impronta duratura e indelebile nella psichiatria e nella psicoanalisi contemporanea. Zoja ha, in occasione dell’uscita dell’ultimo libro di memorie su Jung di Aniela Jiaffé, magistralmente raccontato nella prefazione l’impatto che la personalità e il pensiero dello psicologo analista zurighese hanno avuto sui contemporanei e sui posteri, ma tracciare un quadro generale del suo effettivo contributo è impossibile in poche righe.
Jung si è infatti interessato non solo di psichiatria, ma anche di storia delle religioni, di miti, di antropologia, di politica, di arte e persino di esoterismo, naturalmente sempre tentandone una lettura psicologica, come nel caso dell’alchimia e dello spiritismo. Insomma, Jung ha tentato di studiare l’uomo come fenomeno in tutta la sua interezza, definendosi in più occasioni un empirista, e sottolineando nell’ambito delle sue ricerche la sua attinenza ai fatti osservati, più che alle speculazioni.
Molteplici sono quindi i contributi dell’autore, accolti in maniera ambivalente dal mondo accademico, ma senza dubbio rivoluzionari e coraggiosi. A mio avviso uno dei più degni di nota è proprio l’attenzione ai malati psichiatrici e alla sofferenza mentale profonda, praticamente unica nel suo genere per l’epoca.
Di lui Gaetano Benedetti, psicoanalista che si è dedicato alla psicoterapia delle psicosi per tutta la vita, dice: “Non frequentemente è possibile far risalire lo sviluppo di una scienza ad un singolo individuo; ma qui possiamo dire che prima di Jung una psicoterapia della schizofrenia, nel senso moderno e scientifico della parola, non esisteva neppure” (1973 pag. 10).
Proprio questo è il punto che mi preme sottolineare: se la psicologia freudiana pone le sue basi sulla nevrosi come punto di partenza per la sua riflessione teorica, quella junghiana lo fa assolutamente partendo dalla psicosi, ovvero da quella forma di dolore mentale così profondo da negare allo sventurato che vive tale condizione esistenziale persino la certezza di esistere. Egli fu uno dei primi a battersi per la dignità di questi malati, spesso ammassati in discutibili “cliniche” dove venivano semplicemente resi inoffensivi con metodi coercitivi e condannati a un ergastolo non dichiarato.
Di fronte a chi negava persino la validità dei contenuti espressi dai pazienti psicotici, Jung affermava: “Grazie al mio lavoro con i pazienti mi resi conto che le idee ossessive e le allucinazioni contengono un nocciolo significativo. Nascondono una personalità, la storia di una vita, speranze e desideri. È solo colpa nostra se non riusciamo a capirne il significato. Mi fu chiaro allora per la prima volta che una psicologia generale della personalità è implicata nella psicosi, e che anche in questa si ritrovano i vecchi conflitti dell’umanità” (1961 pag. 166).
Fu questa la vera e propria “rivoluzione copernicana” della psicoterapia delle psicosi a cui Benedetti si riferiva parlando del suo collega svizzero. La profonda comprensione che ciò che il malato esperiva fosse qualcosa di non molto diverso da una esperienza che nel bene o nel male appartiene alla razza umana, sebbene con declinazioni e intensità diverse. L’idea di un Inconscio non solo personale, ma anche Collettivo, contenente il patrimonio simbolico comune a tutti gli uomini, apriva a parere di Jung la strada a una comprensione molto più profonda della psicosi. Jung ci arrivò proprio partendo dal basso: non tanto dai libri o dai confronti con i colleghi, spesso affezionati al tempo a una psichiatria che riteneva di doversi occupare solo di “cervello, sangue e urina” (Benedetti, 2010 pag. 378), ma piuttosto dall’osservazione diretta dei pazienti ricoverati.
Celebre è infatti un suo aneddoto che vale la pena ricordare: un giorno, Jung fu chiamato in maniera concitata alla finestra da un suo paziente ricoverato nella clinica dove lavorava. Quando l’allora giovane psichiatra si avvicinò, il paziente gli disse entusiasta di guardare il Sole, allora avrebbe capito tutto. A detta di quest’ultimo, infatti, il Sole stava agitando il suo gigantesco fallo e stava producendo il vento che accarezzava i loro volti in quel momento.
Al momento, Jung ammise di aver considerato questa affermazione un contenuto privo di qualunque importanza ma quando un anno dopo, studiando per la stesura di un suo scritto i culti mitraici, scoprì nella religione orientale dell’antica Roma una rappresentazione sacra praticamente identica al delirio del paziente. Egli si rese conto che il malato, per formazione e livello culturale, non avrebbe mai potuto razionalmente avere avuto accesso a questa informazione e che quindi doveva trattarsi non di un prodotto insensato della mente, ma di un contenuto universale inconscio che in qualche modo aveva un nesso con la sua storia di vita.
Questo fu per lui la chiave di volta che lo portò a pensare che i pazienti psicotici fossero raggiungibili, che nessun sintomo della schizofrenia potesse essere dichiarato “senza senso”, e che quindi un dialogo era possibile. Identificare una immagine mitica o religiosa all’interno del delirio e discuterne col paziente avrebbe aiutato quest’ultimo a ricompattarsi, sentendo nuovamente quel filo invisibile che lo legava all’umanità, dalla quale si era sentito escluso a causa della schizofrenia. Sebbene purtroppo a differenza di altri egli non abbia lasciato una tecnica specifica di psicoterapia delle psicosi, Jung ha lasciato una forma mentis, una attitudine a cui prendere spunto, insieme a delle riflessioni esistenziali di fondamentale importanza, che hanno dettato la strada a chi si è poi speso per la dignità di questi pazienti.
Infine, Jung ha coraggiosamente ribadito la necessità di un coinvolgimento intimo profondo con il paziente, affermando che non ci può essere liberazione per quest’ultimo senza l’amore disinteressato dell’analista.
“Nel corso di una psicoterapia – egli scrive -il fatto stesso che il paziente abbia delle emozioni influisce sul medico […] e se il medico pensa di poterne restare immune, compie un grosso errore. Non può far altro che prendere consapevolezza del fatto di esserne influenzato, altrimenti diventa troppo distante e fa interventi inappropriati. Inoltre è suo dovere accettare le emozioni del paziente e rispecchiarle. […] Io lo faccio sedere davanti a me e gli parlo in modo naturale, così come un essere umano parla a un altro essere umano, mi espongo completamente e reagisco senza alcuna renitenza” (vol. XI ed. 1991 pag. 146).
“Il medico si addossa, letteralmente, il male del paziente, lo condivide con lui.” (vol. XVI ed.1991 pag. 183)
Questo è quindi il lascito importantissimo di Jung per la psicoterapia delle psicosi: fede nella comprensione che ciò che il paziente porta nelle sue comunicazioni ha un senso da scoprire anche quando si tratta del delirio più bizzarro, e profondo rispetto dell’umanità del sofferente, unita ad una intenzione d’amore nei suoi confronti che ne permette la condivisione emotiva del suo male di esistere. Naturalmente, dalla morte di Jung nel 1961 le cose sono molto cambiate, la psicoterapia delle psicosi di oggi è una realtà affermata, con metodi e tecniche validate scientificamente e con una corposa letteratura, ma chiunque operi in questo campo a mio avviso non può non avere un debito di riconoscenza verso il saggio di Kusnacht che, seduto sulle rive del lago di Zurigo, ha avuto la forza di scrutare all’interno dei più neri abissi dell’anima.
Mi pare possano interessare due parole sull’origine storica della psicanalisi junghiana
Freud aveva accolto con piacere l’adesione di Jung al movimento psicanalitico: lo aveva addirittura designato come possibile successore alla guida del movimento, riconoscendogli l’eccezionale talento, l’energia, i contributi teorici che aveva già portato, e perfino il suo spirito indipendente. Condivideva il suo interesse per la ricerca di una comprensione psicologica degli stati psicotici: nel lavoro sul caso Schreber riconosceva il brillante esempio offerto dall’amico – rivale con l’interpretazione di un caso ben più grave di “demenza precoce.” Nella stessa sede, citava con favore e condivideva l’assunto junghiano che le forze mitopoietiche dell’umanità non fossero esaurite, ma sopravvivessero precisamente nelle condizioni nevrotiche e psicotiche (e, aggiungeva, nelle religioni). Gli ha riconosciuto la paternità del fecondo termine “introversione”.
Naturalmente, le differenze di approccio c’erano. Freud tendeva a seguire l’impostazione scientifica (scientistica?) del suo tempo, privilegiando la verifica e lasciando meno spazio all’ intuizione e all’intelligenza emotiva.
La rottura definitiva è avvenuta sulla teoria della libido: Freud non ha tollerato che Jung negasse il collegamento esclusivo di essa con la sessualità, a suo avviso riducendola a pulsione affettiva aspecifica. Il suo dissenso è andato al di là di quel che di solito comporta una differenza teorica, e ce n’è una ragione. Egli aveva incrinato ( e definitivamente ) il muro di silenzio che la puritana cultura dell’epoca aveva eretto intorno alla consapevolezza sessuale: la reazione delle istituzioni e di parte del pubblico era stata fortemente negatoria, e Freud si era sentito accerchiato come fosse un pornografo, Quasi inevitabile un suo reattivo atteggiamento militante, che lo ha portato ad accusare Jung di tradimento, di abbandono, di opportunismo: di aver sacrificato l’originalità e fecondità della dottrina al desiderio di farla più largamente accettare, cessando di dar priorità al dato clinico. Ha tuttavia riconosciuto che la diversa posizione Junghiana lo aveva in qualche modo stimolato ad allargare il suo orizzonte, affiancando e anzi contrapponendo al concetto di libido quello di istinto di morte. Ma il contrasto non si è più ricomposto.
Il loro incontro – dissidio è stato una occasione perduta? Credo di no: la creatività di queste due menti non poteva esser mortificata da compromessi.
L’articolo di Giuseppe su Jung e l’inconscio collettivo mi ha rimandato alle odierne teorizzazioni di Kaes a proposito di inconscio ectopico, non collocato all’interno di una mente e ai fenomeni trasmigratori della sofferenza che, da una generazione, può passare alla successiva.