Vaso di Pandora

I nostri insegnanti sono i nostri pazienti

Commento alla notizia AdnKronos del 22 aprile 2016: Da malati ad angeli di chi soffre, chi sono gli “ESP” Lombardi

Da sempre i nostri insegnanti sono i pazienti.
Non vedo la novità.
Piuttosto quanto siamo in grado di ascoltarli senza una deformazione, che occhiali scegliamo per vederli. E quindi trarre insegnamenti ed essere aiutati nelle più varie circostanze che l’occuparsi, il curarsi di loro comporta?
Certo non è facile il paziente psichiatrico, né la malattia è una bella passeggiata nella originalità, la sofferenza straluna, il loro dolore altrettanto straluna.

È per questo che figure istituzionali ESP, UFE, guidate formate accanto a specialisti e a esperti mi lasciano perplessa. Mi spiego meglio. Mi sembra necessario sempre l’ascolto, l’attenzione ai bisogni o la lettura dei bisogni espressi e soprattutto inespressi ma da decifrare insieme nella relazione, mi sembra il continuo cammino che facciamo con i malati, psichici o no che siano, anche se sono un chirurgo non posso permettermi di delegare il contatto ad un altro… sono oncologo e chiamo la psicologa che sostiene il paziente e poi coordina un gruppo che a sua volta chiama un facilitatore che guida un gruppo di auto aiuto… no non è la via che porta a cambiamenti. I malati saranno sempre dall’altra parte.

Sono psichiatra ho il compito di studiare le neuroscienze, di formarmi come psicoterapeuta, di conoscere quanto altri hanno conosciuto attraverso il loro lavoro dove i pazienti insegnavano e permettevano incredibili scoperte, a cui posso attingere, ho questa posizione, che considero privilegiata, di non dover usare il bisturi ma di capire o quanto meno cercare di capire prima di usare bisturi di genere diverso che ho in mano e che conosco io e non lui, la persona che ho in cura, memore di un passato mai passato e di un futuro sempre incerto.… se mi ci mettono in mezzo UFE ed ESP corro anche il rischio (e qui volutamente estremizzo senza nulla togliere all’esperienza sicuramente positiva rispetto al divario esistente in tante situazioni) di pensare di capirli attraverso operazioni più legate all’obiettivo della compliance che alla osservazione, alla relazione, e l’incremento dell’apporto delle neuroscienze, degli interventi psicoterapici mirati al risultato, al consenso che mi è richiesto dal contesto sociale mi possono trascinare verso quella deriva che tappa la bocca e il potere all’altro.

Detto questo ben vengano anche gli ESP gli UFE anzi esperienze come le trentine hanno incrementato l’auto aiuto, hanno dato voce ad utenti , ma mi sembra ovvio che si debba continuare a riflettere sulla violenza e il potere che abbiamo e che tutti gli utenti sono ESP o UFE cioè dobbiamo considerarli tali e lavorare con e non per il paziente.

In quanto alle risorse che forniscono ho mille esempi e altrettanti esempi negativi, dagli interrogatori con il ‘bravo’ paziente in manicomio o in altri luoghi di degenza, delatore di trasgressioni, interrogatori che rimangono impressi nella memoria dolorosa dello stesso, alla confidenza di una donna che da parte mi prendeva e mi diceva “non lo dica ai dottori.. ma O. sta male… fa dei salti sui letti e si avvicina alla finestra non lo dica “.

E quella donna si è defenestrata anni dopo e nessuno forse ha capito che metterla in una casa da sola e fare un depot e assicurargli una mensa forse non bastava… anzi non era la terapia giusta anche se sembrava così includente, contro le istituzionalizzazioni! La solitudine di un appartamento popolare, in un luogo estraneo… la somministrazione farmacologica, come il cibo in mensa, erano forse meglio della sua vita in comunità?

O forse non aveva già comunicato che la solitudine e la finestra erano un pericolo, per un’altra come per se? E tanti mille insegnamenti dai pazienti attraverso metafore, mutismi, allontanamenti, agiti, che se cerchiamo di capire e non di fermare semplicemente ci servono, servono loro servono a noi. Poi certamente arrivano anche insegnamenti più strutturati da chi sta meglio, o si fida, o abbiamo saputo ascoltare. Io ho imparato una diversa tolleranza, una pazienza meno angosciata, un rispetto meno di superfice da anni di auto aiuto. Ho imparato ad accettare modi diversi che non capivo. Modi diversi per essere vivo, per non morire psicologicamente, anche strampalati o strani per me.

E sono assolutamente d’accordo che dare voce agli utenti, ai malati, ai pazienti, a quelli che stanno dall’altra parte non sia una cosa facile, ma sia indispensabile nella cura.

Dunque bene agli ESP o agli UFE ma non a persone che di nuovo si collocano in un luogo diverso, né malati né sani, esperti per esperienza, mediatori… mediatori che parola pericolosa.

Giorni fa F. dopo un brutto e lungo periodo in cui avevamo perso il contatto (ci vedevamo certo.. ma fuori contatto) mi comunica che le piacciono ora film di “mezza stagione” insomma non il fuoco dell’estate, dell’esaltazione né il gelo dell’inverno e il nostro ritrovato contatto si conclude parlando di film forse non esaltanti ma delicati, allegri, da “mezza stagione” e mi chiede incontri leggeri cauti…c’è stato anche il bisturi di mezzo, la terapia che ha ripreso e che mi ha coinvolto nell’organizzazione della stessa tanto da impormi come presenza insieme alla psichiatra di competenza territoriale….non ci sono state parole, spiegazioni non ho mediato nulla partecipavo ero insieme ero presente e basta, e ho continuato ad esserlo nelle onde burrascose dell’intervento. F. ha ripreso il rapporto, con cautela e mi chiede cautela.

Ecco il mediatore culturale rispetta la culture diverse , le conosce e cerca una comunicazione tra culture diverse. In psichiatria a volte ho visto usare i pazienti per raggiungere scopi che si ritenevano opportuni, o viceversa disattendere comunicazioni, desideri, perplessità, mettendo al primo posto la cura che si intende più opportuna. E poi cercare la compliance…

Si i malati devono essere presenti nei servizi di curai.. non ci sono già forse? Ma vanno sentiti e sta forse a noi aprire il cervello e l’animo per sentirli oltre a curarli.

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