Insieme a tutti i professionisti della salute mentale che lavorano con me in una UOC romana stiamo vivendo una grave crisi di sistema rispetto ad un aspetto periferico della cura: i luoghi in cui lavoriamo, accogliamo i nostri pazienti, i familiari, i colleghi. Dico periferico perché non parlo di processi terapeutici, di psicologia dell’organizzazione, di farmaci, di strategie d’intervento, di appropriatezza, di linee guida.
Sto parlando di luoghi, di ambienti in cui svogliamo il nostro lavoro quotidiano, un aspetto importante per chi lavora sul setting, ma ritenuto non centrale da molti, se questa è la condizione reale e attuale in cui lavoriamo. Ho pensato di parlarne pubblicamente perché, pur consapevole che la nostra situazione specifica sia transitoria e straordinaria, penso che alcuni aspetti di fondo possano restare nascosti tra di noi, dentro il nostro modo di fare salute mentale pubblica.
L’elemento di fondo, che mi preoccupa, è quello che si possa lavorare nel registro “brutti, sporchi e cattivi”, una dimensione un po’ eroica, un po’ maledetta, che fino a pochi anni fa attraversava trasversalmente i luoghi del lavoro psichiatrico. Penso a tanti SPDC cadenti, a CSM improbabili, penso ad ambienti fatti con i mobili dismessi dagli operatori, sedie traballanti, automobili vecchie e rumorose, penso a Centri Diurni nascosti a chiunque, piccoli, trascurati, a comunità fatiscenti, buie, finestre con le grate, divani sfondati. Questo è il recente passato e la dimensione brutti sporchi e cattivi la conosco bene, quasi sostenesse una componente straordinaria del nostro lavoro, la nostra capacità di lavorare ovunque, di “sporcarsi le mani”, di tenersi a distanza di sicurezza dall’odore di disinfettanti degli ospedali, da quella pulizia asettica dei reparti chiusi dei manicomi, dove la suora caposala dava il flacone di trementina per le pulizie di ogni giorno, i giardinieri tenevano le siepi perfettamente potate, la stanza del primario con la scrivania di mogano, la libreria a cassettone, lo scheletro vicino al lavandino e dietro, le corsie invisibili a tutti, dove si consumava l’orrore.
Poi ho visto e partecipato ad una fase di riorganizzazione degli ambienti, dove la cura delle persone si interfacciava profondamente con la cura dei luoghi. Ricordo un reparto SPDC dell’Ospedale Nuovo Regina Margherita, pulito, essenziale, bene organizzato dentro mura del 1200. O quello del Fatebenefratelli, all’Isola Tiberina. Tutte le stanze da due con il bagno. Penso a tanti CSM e Centri Diurni ristrutturati, a tanti posti pubblici curati, dove il luogo parla di rispetto e soprattutto di speranza. Penso alla ristrutturazione del SPDC del San Filippo Neri che ha trasformato un luogo insopportabile in un reparto moderno e accogliente.
Accanto a questi, spesso merito di integrazione sapiente tra governo clinico e amministrazione, tanti luoghi della psichiatria pubblica sono rimasti indietro, forse a rappresentare ancora quel passato in cui, pur di restare lontani dall’isolamento dorato del manicomio, si è continuato ad investire sulla militanza, piuttosto che sulla cura.
Dobbiamo fare molta attenzione ogni qualvolta ci troviamo a lavorare in ambienti inadatti. Ogni clinico ha un dovere di ribellione, ha il dovere di manifestare i bisogni che ogni luogo di cura rappresenta. Credo che un ambiente malcurato sia sempre espressione della responsabilità di coloro che ci lavorano ogni giorno. La modalità di delega della responsabilità agli amministratori ritengo che possa contenere, non vista e riconosciuta, quella dimensione eroica e maledetta che sopravvive nell’opposto, attaccata alla stessa radice incurabile del manicomio.
Abbiamo avuto dieci anni di spending review e abbiamo dato l’anima ai nostri servizi, ai pazienti, ai familiari, in pochi operatori, stanchi e sempre più vecchi. Tra il 2015 e il 2018 abbiamo perso più del 10% del personale sanitario che lavora nei nostri servizi. Negli ultimi tempi sembrava si cominciasse a vedere la luce, insieme alle ristrutturazioni arrivavano i giovani infermieri, i giovani medici, qualche psicologo, sembrava finalmente tornare la speranza.
Con il Covid-19 rischiamo di tornare ad essere l’ultima ruota del carro della sanità. La ASL ha troppe priorità. Centri tampone, centri vaccinazioni, presidi ovunque. E lo capisco. Ma questo è un momento storico importante per dire ai cittadini che si può, si deve continuare a vivere anche in tempo di pandemia. Perché tanti si chiudono a casa e sono terrorizzati dal contagio. Come possono affacciarsi, dico solo affacciarsi in un luogo trascurato e malmesso, troppo freddo o troppo caldo, con strumenti obsoleti e medicherie fatiscenti? Tutta la popolazione sta a contatto strettissimo con i servizi di salute, in questa fase. Lo sforzo per rendere i luoghi accoglienti e curati deve essere massimale.
Un giorno un paziente mi chiese di essere curato presso un altro centro perché il suo CSM, purtroppo tuttora in fase di faticosa riqualificazione, gli provocava un senso di sporcizia e di disagio. Mi disse che ogni volta che andava si sentiva peggio. Come interpretiamo questo sentimento? Non aderenza? Non collaborazione? Sono entrato in una infinità di case dei nostri pazienti. Devo essere sincero. Se mi offrono il caffè rispondo di si solo se mi sento in un ambiente sufficientemente curato. Altrimenti lascio perdere. Non “aderisco”. Lo voglio dire pubblicamente: io alla salute mentale Brutti Sporchi e Cattivi non ci credo. Io credo alla Grande Bellezza, dove può esserci la sofferenza, la diversità, la follia, ma anche cura, attenzione all’ambiente e al dettaglio. Credo che la salute mentale abbia bisogno di spazi puliti, moderni, quadri alle pareti, gente serena – o quasi – che lavora, musica di sottofondo, tecnologie moderne e il giusto comfort termico. Credo che questo sia importante per curare le persone, tante persone che vengono da noi per ritrovare la speranza e un posto nel mondo. Non un posto di lusso, figuriamoci, ma neanche una baracca.
Concordo, amaramente. La dimensione “eroica”, come da tradizione epica, è essenzialmente solitaria e si coniuga con una visione drammaticamente nichilista. Vendicatori e supereroi, conquistatori e predicatori, tuttologi e (molti) leader assumono una posizione individualista annullando ogni valenza comune in nome di un Io ideale, spesso dalle tinte paranoiche. Il degrado di molti nostri servizi (e qualche esempio di riorganizzazione brillante) mostra la qualità della posizione di ciascuno di noi di fronte all’etica del nostro lavoro. Se lavoriamo sfidando il rischio dell’insuccesso personale, con ferreo spirito agonista, restiamo a guardare i modelli ideali degli eroi (Achille, Ettore ecc.) mentre il sistema va in macerie essendo la spinta prevalente quella del godimento e della pulsione di morte. Piantare insieme un albero o condividere un progetto maturato in gruppo fa sfiorare il fallimento ma mira a far crescere pulsioni vitali per tutti.