Rodriguez ci richiama alla necessità di una medicina più attenta alle persone, rievocando il mitico ’68 che, fra le altre istanze, ha coerentemente portato avanti proprio questa.
Alla nostalgia di quel momento che lo ha visto fra i protagonisti egli contrappone osservazioni pessimistiche: “ si pensava che un altro mondo fosse possibile, ma ha vinto l’idea che questo mondo sta bene così….la violenza ci ha fatto perdere tutto quel che avevamo guadagnato”.
Davvero l’esperienza del’ 68 non ci ha lasciato niente?
In quel momento storico sono entrate in un discorso politico e divenute così patrimonio collettivo certe posizioni espresse fino allora da pochi pensatori. Heidegger aveva scritto: “Naturalmente si può considerare l’uomo in modo scientifico-naturale come parte della natura. Solo, resta il problema se poi ne resti ancora qualcosa di umano, che riguardi l’uomo in quanto uomo. Nella pretesa della scienza moderna siffattamente impostata parla una dittatura dello spirito la quale degrada lo spirito stesso a un operatore della calcolabilità”.
Discorso che riguardava da vicino l’arte medica, non esclusivamente ma certo in misura particolare. Per il medico è sempre stato meno faticoso dimenticare la globalità dell’uomo e attenersi a una visione scientifico-naturale, madre dell’intervento tecnico: riparare uno o più organi come si ripara il pezzo di una macchina. I progressi scientifici e tecnici, certo preziosi, si sono alleati a questo atteggiamento emotivo del curante che poteva fare assegnamento su strumenti di intervento efficaci ed emotivamente non troppo coinvolgenti .
Questo atteggiamento, comprensibile, ha lasciato un vuoto cui si deve la persistente fortuna delle medicine alternative, che nasce da un oscuro timore di affidarsi totalmente alla scienza con le sue tecniche di per sé dis-umane; i terapeuti “alternativi” non disponendo di tecniche di sicura efficacia sono obbligati a puntare di più su una relazionalità che tende a considerare l’uomo come un tutto: vedi il frequente uso del termine “olistico”.
Psichiatria: è particolarmente sensibile a questo ordine di problemi, per la sua posizione notoriamente posta al crocevia fra scienze umane e scienze della natura. Forse anche per questo i suoi mezzi tecnici sono tuttora non all’altezza di quelli propri di altre discipline.
La ricerca scientifica aveva a suo tempo conseguito importanti realizzazioni, nel campo delle patologie mentali su basi organiche rilevabili con i mezzi del tempo; ma non ne erano nate applicazioni terapeutiche significative, con la possibile eccezione delle terapie per la paralisi progressiva. E’ seguita poi una lunga stasi, finita negli ultimi decenni con lo sviluppo delle neuroscienze. Tuttavia anche queste più recenti acquisizioni teoriche non si sono finora tradotte in terapie rivoluzionarie. Sembra quasi che le prassi terapeutiche e la ricerca seguano due binari paralleli (con qualche scambio come nelle stazioni ferroviarie): la scoperta dei farmaci psicoattivi è avvenuta in larga parte su base empirica, e la ricerca se ne è occupata a posteriori per scoprirne i meccanismi di azione. Il fattore umano è più che mai decisivo, dopo essere stato a più riprese scotomizzato.
Cosa ci riserva il futuro? Un regresso come pare temere o addirittura constatare Rodriguez? Limitiamoci al nostro campo, quello della psichiatria. Essa forse offre più resistenza di altri campi a possibili movimenti regressivi. Il disturbo mentale potrebbe esser definito come una malattia della relazionalità: è difficile occuparsene tornando a scotomizzare nuovamente la dimensione relazionale.
Difficile anche ipotizzare un ritorno diretto ai manicomi: si è costituita una rete di servizi e strutture che per fortuna sarebbe difficile smantellare, come è stato difficile costruirla; in questo caso la resistenza al cambiamento diviene un fattore favorevole. Il rischio è quello di una stasi e di uno svuotamento dall’interno, per la progressiva perdita di impegno e passione negli operatori, accentuata anche da un minore investimento di risorse pubbliche. Questo a sua volta potrebbe essere reso possibile dallo spegnersi nella collettività di quell’interesse al problema che tanto si era acceso nel ’68.
E’ vero che l’angoscia per il “diverso”, l’alieno, oggi ha trovato altri bersagli: quando tempo fa un immigrato folle si è scatenato con una mannaia, la stampa ha posto l’accento sulla sua pericolosità in quanto immigrato, non in quanto folle da rinchiudere. Ma è subentrata una certa indifferenza: sarebbe ben difficile oggi raccogliere sul tema “psichiatria” una folla paragonabile a quella messa insieme, a quei tempi, da Basaglia e Cooper a Genova.
Il panorama è molto variegato: importante che sia subentrata una nuova generazione di operatori psichiatrici, lontani da una visione piattamente organicistica pur se consapevoli dell’impossibilità di ignorare la biologia, ed è importante che questo patrimonio non vada perduto; resta più che mai fondamentale investire sulla formazione. Gli apporti della psicanalisi e della fenomenologia costituiscono assi portanti di un prendersi cura: proprio per questo diviene un fattore di rischio il forte prevalere quantitativo, nella letteratura scientifica, delle ricerche biologiche e di quella prassi cognitivo-comportamentale coi sui mille indici e quozienti che tende – per usare le parole di Heidegger – a degradare lo spirito stesso a un operatore della calcolabilità.
E’ possibile che proprio la nostra disciplina sia quella che meglio ha conservato gli aspetti positivi del ’68: bisogna che ciò non vada perduto.