Ho gattonato e mosso i primi passi barcollanti sul pavimento di una piccola cameretta di un appartamento di Piazza Rolla a Sassello, poi ci ho giocato a costruire e smontare i lego, qualche pomeriggio cupo di noia ci ho fatto i compiti in castigo e non mi sono mai spiegato come mai quel pavimento fosse così tiepido e confortevole. Non me lo sono spiegato fino a che un pomeriggio d’autunno, aspettando mia madre che faceva la spesa, le chiesi: “Posso entrare lì, in quel negozio sotto casa?”.
Quel posto ricco di oggetti fuori dal comune mi aveva sempre attirato, ma forse un po’ per timidezza, un po’ per soggezione di quell’uomo con la barba nera e i capelli lunghi che sembrava sempre indaffarato, non mi ero mai avvicinato più di tanto. “Certo, vai pure, c’è Guido, ti vengo a prendere lì, non disturbare e non fare cadere niente…”. Entrai in modo quasi furtivo, praticamente sicuro di non essere visto, e quel signore seduto su un macchinario, sporco di grigio, senza togliere gli occhi dal suo lavoro, mi disse con voce paterna: “Oh nin, gira pure, ma stai attento e non avvicinarti al forno”. Il forno! Ecco la fonte del tepore della mia cameretta: per sette anni avevo dormito cullato dal forno di Guido.
Le mie giornate nel laboratorio
Qualche anno dopo, essendo stato rimandato in Disegno Ornato, mi ritrovai nuovamente in quel laboratorio, seduto su una sedia di paglia a copiare le sculture con la teoria delle ombre, il segno tonale e tutte le menate che mi toccavano per preparare l’esame di riparazione, compresi i rimproveri del maestro che, mentre lavorava girato dall’altra parte, sembrava vedere perfettamente me e suo figlio Alessio perdere tempo tra battute e risatine… “Lavuree, asini”.
Passati ancora un po’ di anni, ero in un momento di crisi: avevo cambiato lavoro, trovandomi per la prima volta in un ambiente molto meno creativo di quelli a cui ero abituato. Mi fumavo una sigaretta in pausa e, guardando dentro i vetri della Scuola di Ceramica, vedevo Guido che tirava su vasi perfetti con la semplicità di un bambino che lecca un gelato, con la sola danza delle mani e quello sguardo fisso e centrato, ma con un’attenzione globale che riusciva a non farlo smuovere di un millimetro. Decisi un pomeriggio di entrare nella scuola e le nostre strade si sono incrociate molto più seriamente, dalle lezioni di tornio, a farmi battezzare nel primo forno raku della mia vita, fino a far lezione fianco a fianco.
Quando sono stato contattato per scrivere un pezzo su Guido, le emozioni mi hanno sconvolto il pensiero e ho subito risposto: “Sì! Volentierissimo, ne sono onorato”, e subito dopo sono arrivati mille e mille pensieri. Devo parlare dell’amico, del maestro, dell’artista?
Parlerò di quell’amico un po’ burbero e molto silenzioso, che è capace, con un sorriso, una pacca, un occhiolino, una risata a sbloccare una situazione complicata.
Quello che ho imparato da Guido Garbarino
Parlerò di quel maestro che ti fa rifare 10 volte lo stesso vasetto e, quando hai finito, ti dice “Dai altri 10”, e se vede che ti lasci prendere dallo sconforto, te lo raddrizza quando non te ne accorgi. Vi parlerò di quell’artista che, se sei in ansia per la tua prima mostra, lascia da parte il suo lavoro per darti una mano, e poi ti fa la sorpresa di presentarsi all’inaugurazione a 300 chilometri da casa, in fondo alla sala, con le braccia muscolose conserte e lo sguardo di approvazione.
Parlerò di quella persona che sa essere una pietra di fiume quando qualcosa non gli va bene e scioglie la sua commozione quando parla dei suoi maestri.
Qualcuno che ha ben presente il senso della cura e della condivisione.
Il suo lavoro
Non so se oggi lavoro in questo campo perché sono stato cullato dal tepore del forno, perché ho respirato la polvere di quel laboratorio, o perché ho nutrito i miei occhi di tutte le sfumature del raku di Guido, ma so di per certo che il suo modo di fare arte, fuori da alcuni circuiti e sempre legato alla terra – che sia essa dei boschi, dell’Elba o argilla da tornio – ha curato me e moltissime altre persone.
Il lavoro artistico che Guido presenta non è né contemporaneo né tradizionale, non è un’esibizione tecnica e, soprattutto, non è soddisfazione di un ego che, spesso, molti artisti prendono come punto di riferimento.
Il suo lavoro è espressione di pensieri silenziosi, una raccolta di frasi, espressioni, gioie e disagi messi da parte e fatti propri.
Il tocco con cui plasma la parte scultorea, la sacralità con cui esegue le finiture, le superfici, i graffi e le applicazioni terrose sono firma stilistica di una storia tanto intima quanto pronta ad essere donata.
Il legame concettuale con la propria terra, il proprio vissuto, gli studi che lo affasciano ed il profumo di storia vissuto nei primi anni della sua carriera fanno si che un’opera di Guido si riconosca tra mille, profumata di semplicità nei bianchi impattanti e ustionante di reale nei metalli luminosi.
Come non serve leggere la firma per riconoscere un’opera di Garbarino, non basta fermarsi ad osservarla qualche minuto… il segreto è viverla.



