L’articolo passa in rassegna una serie di punti riguardanti patologia ed epidemiologia della depressione: la sua frequenza, anche nei bambini con manifestazioni particolari e non facili da cogliere e inquadrare diagnosticamente; il rischio di suicidio; il potenziale patogeno di uno stile di vita che sacrifica il riposo; il concetto di vulnerabilità; lo specifico significato di tappe esistenziali come l’adolescenza, la svolta dell’età matura, la senilità.
Viene ricordato come in quest’ultima il disturbo depressivo si intrecci variamente con il declino cognitivo, ponendo delicati problemi diagnostici e di trattamento. Si invita poi ad associare farmaci e psicoterapia (ciò che a mio parere non può essere una regola).
Cose da tempo note, incluso il classico concetto di depressione post-partum che invece viene discutibilmente presentato come recente. Il senso dell’articolo è dunque divulgativo – educativo, e in questo senso potrebbe avere una sua utilità.
Meno scontato l’accenno al ruolo della infiammazione della microglia. Non sono un esperto di neuroscienze, e non sarebbe male che intervenisse qualche collega più specificamente preparato di me; ma mi permetto lo stesso qualche osservazione. Al di là dell’articolo, la letteratura che ho potuto esaminare chiama in causa l’infiammazione nelle più diverse condizioni: non solo nei disturbi dell’umore, ma anche nell’Alzheimer, nel Parkinson, nel declino cognitivo dello schizofrenico, nel disturbo d’ansia, nell’autismo, nell’uso di cannabinoidi sintetici, nel disturbo postraumatico da stress: l’ infiammazione conseguente allo stress farebbe da mediatore fra questo e l’insorgere della sintomatologia. Per l’alcolismo è stato proposto un complicato feedback in più tappe: all’abuso di alcool conseguirebbero nell’ordine una accresciuta permeabilità della parete intestinale, una alterazione del microbiota, il passaggio di componenti batterici nel circolo ematico con conseguente rilascio di citochine proinfiammatorie; da cui neuroinfiammazione e conseguenti turbe cognitive e dell’umore, con ulteriore aumento dell’abuso.
E’ questa estrema polivalenza – e inevitabile aspecificità – che mi lascia perplesso, poiché pare additare una sorta di via comune alle più svariate patologie mentali; riconoscere una significativa valenza eziopatogenetica a questo fattore significherebbe riconoscere un terreno comune a tanti disturbi molto eterogenei. Viene in mente l’arcaico modello della psicosi unica, che peraltro era più limitato, lasciando fuori le c. d. nevrosi e le forme demenziali o comunque psicoorganiche.
Beninteso, i dati sperimentali non possono essere misconosciuti: si potrebbe ipotizzare che l’infiammazione sia in qualche modo correlata al generale malessere mentale che variamente caratterizza tutte la condizioni psicopatologiche. Oppure, alternativa più audace, non solo di fronte a questi dati – se ampiamente confermati – ma in linea generale, l’attuale classificazione pseudonosografica fondata in gran parte sulla sintomatologia potrebbe dover cedere il passo prima o poi di fronte a quella più solida eventualmente fondata dalla ricerca neuroscientifica. Lo diceva già Freud. Vedremo.
Ma questa è materia che lasciamo al futuro. Mi sembra invece attuale un altro problema, che attiene alla definizione del disturbo depressivo, e alla sua delimitazione dal lutto normale e da quel dolore che occupa poco o tanto il nostro essere psichico. In linea generale, ciò fa parte del complesso problema del confine fra norma e patologia mentale, che usiamo porre secondo una serie di criteri: statistico ( patologico ciò che è molto insolito); formale ( patologici i contenuti espressi in forme molto atipiche o letteralmente incomprensibili); sociale ( patologico il comportamento molto deviante e disturbante); funzionale, relativo al compromesso “funzionamento” socio-lavorativo; emotivo, nella misura in cui ci turba e sconcerta come esperienza straniante; soggettivo, relativo alla sofferenza e alla sua intensità. Questi criteri sono non sempre dirimenti, e spesso fra loro non concordanti.
Nel caso della depressione poi sembra proprio esserci un continuum fra patologia, risposta normale all’avvenimento, oscillazioni fisiologiche dell’umore; e come ogni continuum anche questo si presta alla definizione di confini alquanto arbitrari e mutevoli. La psichiatria classica aveva presente il problema, e rispondeva fra l’altro con la distinzione fra forme endogene e reattive: risposta inadeguata anche perché istituiva ancora una volta categorie chiare nelle intenzioni ma di fatto male applicabili alle realtà cliniche. Nasce il dubbio che l’attuale incremento dei disturbi depressivi descritto da tanti non sia tanto reale quanto dovuto a uno spostamento dei confini e dei criteri che li regolano; in conseguenza anche di una spinta alla medicalizzazione esercitata da una industria che tanto potere ha nell’indirizzare la ricerca e nel gestirla.
Mi spiace, ma non mi intendo molto di infiammazioni varie, ma soltanto un pò di depressione, per così dire. Volevo comunque manifestare il mio totale accordo con quanto commentato dal Prof. Pisseri. È verosimile che “l’incremento dei disturbi depressivi…sia dovuto a uno spostamento dei confini e dei criteri che li regolano”, ma anche l’accresciuta sensibilità della pubblica opinione verso la più blanda percezione di malessere, pilotata o no da certa infomazione farmaceutica, non la sottovaluterei.