La prima cosa che colpisce è la sproporzione fra la limitata importanza, e il suo eco nella collettività, del Festival di Sanremo, e la grandiosa rappresentazione che ne dà la Rai TV, non solo quella di intrattenimento. Chi seguisse i maggiori programmi televisivi in questi giorni avrebbe l’impressione che l’intero Paese non si occupi di altro. Per fortuna, non è così.
È evidente che Rai TV lo considera un grande investimento, forse moltiplicato oggi quando il digitale in varie forme insidia pesantemente il suo primato informativo, specialmente nel pubblico giovanile: l’annunziare il Festival e il successivo commentarlo – con ripetute, rinnovate celebrazioni occupanti ampio spazio – sono a efficace sostegno di una consolidata utile mitopoiesi.
La rassegna ha grande spazio nei vari notiziari e nella TV spettacolo, con intervento di cantanti e attori che in queste occasioni interpretano sé stessi. Qualcuno ha detto che la TV propone mito di sé a se stessa: un po’ sempre, ma e massimo grado con Sanremo che la TV celebra ciò che intraprende. Riesce, in qualche misura, a motivare gli utenti, e la sollecitata risposta di questi giustifica sempre maggiori investimenti, in un circolo virtuoso? vizioso? Ho visto e sentito una ragazza intervistata: “Non amo l’inverno, ma c’è qualcosa che lo salva: Sanremo”. Sic!
La musica popolare secondo Kafka
Il tema si inquadra in quello più generale di quello della musica popolare. Partirei da lontano, ricordando Franz Kafka che ha dedicato a quella del suo tempo, non so quanto paragonabile all’attuale, pagine in cui il grande acume critico si mescola (venendone inquinato?) al suo abituale disperato pessimismo. Ciò ci induce a far la tara al suo messaggio; ma tuttavia senza negarne il peso, la possibilità di riconoscervi qualcosa di attuale. Quanto molto severamente egli ci dice, oggi si evidenzia meglio nelle rassegne canore come Sanremo, dove il canto si fa grande spettacolo.
In “Josefine la cantante o il popolo dei topi”, Franz Kafka parla di una topolina cantante, uguale a tutti gli altri topi: metafora questi del pubblico, allora verosimilmente non troppo dissimile dall’attuale. Egli ritrae questa popolazione come presa dal potere del canto che la trascina, anche se solitamente non ama la musica. Questa sensibilità del pubblico è stimolata dalle difficoltà della vita che inducono le persone a limitare i propri orizzonti esercitando, più che la riflessione critica e la coltivazione del gusto, una certa furbizia pratica.
Quello di Josefine – prosegue Kafka – forse non è neppure canto, ma uno squittire non diverso da quello di tutti. Per apprezzarla quindi è necessario anche vederla (da qui il fascino particolare delle odierne esibizioni e dei festival?). Non deve far altro che prendere la posizione indicante che canterà: testolina inclinata all’indietro, bocca semiaperta, occhi all’insù. Ad aspetti di tenerezza ne unisce altri di sfrontatezza e altezzosità; ha imparato a rinunciare alla comprensione autentica.
È nel suo canto la malia, o nel silenzio che la circonda? Ammiriamo in lei quel che non ammiriamo affatto in noi. Le siamo devoti, e tuttavia non in modo incondizionato. Può anche atteggiarsi a salvatrice (atteggiamento che oggi riconosciamo in certe canzoni politicamente impegnate?). In ogni caso, le minacce che incombono sulla collettività o sul singolo rendono la popolazione dei topi più sottomessa a Josefine: ”beviamo al calice della pace, in vista della battaglia”. Siamo troppo “vecchi” per la vera musica che eccita, slancia; ci vuole solo un po’ di “squittire”. Kafka ci insegna che la forza di Josefine è quella di essere un topo come tutti, ma tuttavia incoronata dal successo: chi la ascolta può fantasticare di essere come lei.
Ma Josefine è un breve episodio nella storia infinita del popolo, che la dimenticherà. Potremmo aggiungere: sostituendola con una nuova Josefine: serie di durata indefinita.
Quanto dobbiamo concordare con Kafka? È evidente che accogliere totalmente la sua lettura sarebbe molto ingiusto nei confronti della musica “leggera”, ed esporrebbe a fondate accuse di snobismo. Eppure qualche parallelismo può facilitarci una riflessione critica, che non necessariamente avvelena il piacere ricavabile da una bella canzone.
Umberto Eco sulla fenomenologia di Mike Buongiorno
Del resto, quasi lo stesso discorso fa, in epoca ben più vicina a noi, Umberto Eco nella sua fenomenologia di Mike Buongiorno. Ovviamente questi non è un cantante, ma la sua storia è parallela, e come i cantanti fa parte della mitopoiesi televisiva. Così scrive Eco: “Mike Buongiorno convince dunque il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo.
Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello. Nessuna religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli. In lui si annulla la tensione fra essere e dover essere. Egli dice ai suoi adoratori: voi siete Dio, restate immoti”. Credo che questa diagnosi possa applicarsi anche a Sanremo: lo stesso Eco vi ha dedicato pagine, proponendo una futura storia fatta dei testi del Festival.
Tutto vero, ma non lo considererei in modo necessariamente negativo. Intanto, è giusto riconoscere che lo stesso Mike ha dato prova di spirito: pare chiedesse alle vallette di leggere il testo di Eco, che dava la chiave del suo e loro successo. Ma, soprattutto, nel gioco – e Lascia e Raddoppia era, come lo è Sanremo, gioco collettivo in grande stile – la tensione fra essere e dover essere deve annullarsi; e il gioco è una necessità vitale. Credo che Sanremo sia una gigantesca annuale occasione di gioco, con la sua competizione e il suo pubblico che, quando vota, ne diviene parte attiva.
Il Festival di Sanremo e la competizione artistica
Molto stimolante la competizione, anche se il mettere in gara creazioni che vorrebbero essere artistiche o quasi suona, se non improprio, alquanto problematico, poiché la creatività dovrebbe essere fine a se stessa, prescindere da gare e confronti. Ma un terzo aspetto, la spettacolarità, concorre efficacemente a chiudere un triangolo: il tutto diviene garanzia di successo. I momenti non competitivi non sono molti: uno è la pluridecennale – quindi, credo, non in gara – canzone “Imagine”, appropriatamente cantata da due ragazze, ebrea e araba (noterei che lo stesso messaggio di pace fra popoli è tema del volume Apeirogon di Collum Mc Cann). Rilevo ancora che vari cantautori prestigiosi evitavano l’impegno a Sanremo: disdegno di una bassa qualità dei concorrenti? Rifiuto del concetto stesso di competizione? Timore di impegnare il proprio nome col rischio di una intollerabile sconfitta?
Un’altra non piccola fonte di attrattiva è qualche leggera provocazione sessuale, ma soprattutto l’occasione di gossip e di mozioni degli affetti: amori vissuti, amori contrastati, amori infranti; liti, polemiche; pronostici confermati o smentiti dai fatti.
La psicologia delle masse
Se poi spostiamo l’attenzione, da quell’offerta che è Sanremo, al pubblico, entriamo nel campo della psicologia delle masse: al Freud di “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, che a sua volta si è ispirato al Le Bon di “Psicologia delle folle”. E non è male ricordare quanto ha scritto sul tema Alessandro Manzoni nelle grandi pagine ricordanti la rivolta del pane. Passando ai nostri giorni, mobilitazioni di massa analoghe a quelle dei festival canori si verificano negli stadi del calcio e, ben più pericolosamente, in certe adunate oceaniche acclamanti un dittatore, peraltro instabilmente: abbiamo visto il brusco passaggio dall’osanna alla damnatio e viceversa: lo aveva rilevato ancora Manzoni e purtroppo il nostro paese lo ha vissuto in epoca assai più recente. Certo a Sanremo tutto ciò è assai meno sanguinario – almeno di solito e nell’immediato – anche rispetto agli antichi circensi, .durati quasi quanto l’impero romano.
E le motivazioni del grande successo di Sanremo hanno qualcosa di specificamente Italiano. Lo è la passione per il canto melodico che secoli fa, da Monteverdi in poi, ha dato forma a quella importante manifestazione che è il melodramma, ”dramma cantato”. Ho letto da qualche parte ”Sanremo è l’Italia che canta”. Se ne fa un pilastro dell’identità? Di una identità che oggi si sente minacciata? La nostra storica supremazia in questo campo era attestata perfino da Mozart che utilizzava per le sue opere libretti in italiano. Ha utilizzato il tedesco per “Il flauto magico”, ma forse perché era destinato a una sede teatrale popolare e minore, il “Theater an der Weiden”.
Conclusioni sul Festival di Sanremo
Tutto sommato, ben vengano manifestazioni come i festival che fra l’altro soddisfano certi bisogni di un recupero di onnipotenza e sicurezza; attuato questo con la partecipazione-immersione in un grande e forte organismo collettivo, pieno di rimandi di reciproco consenso e approvazione; esperienza che può entusiasmare, e tanto più se il diritto a votare per il vincitore ci fa protagonisti. Tutto ciò in una atmosfera non violenta (o quasi), poiché vede rivali ma non nemici.
E certo non si può negare il godimento estetico-emotivo che qualche pezzo ben riuscito può procurare, di per sé non diverso da quello che si ottiene con l’ascolto privato. Ma è necessario notare che il festival aggiunge qualcosa di grosso ed emotivamente importante, va incontro a certi bisogni di tutti noi, e ciò porta al ripetuto prolungato successo. Qualcuno ha detto “Perché Sanremo è Sanremo”, e ciò dice tutto.
Anche Proust ha scritto sulla musica popolare invitandoci a non disprezzarla.
Considero Sanremo un regressivo rito collettivo dove milioni di persone sono ‘cullate’ da strutture musicali semplici e ripetitive ed anche un’occasione per il dopo Festival per coltivare lo spazio interpsichico di cui parla Stefano Bolognini