Vaso di Pandora

Facciamo caso…

In un recente articolo, pubblicato sul Corriere della Sera, una delle scrittrici italiane più vivaci, racconta di avere fatto delle ipotesi a proposito di alcune sue problematiche odierne, quali non riuscire ad abbracciare il marito quando vorrebbe farlo oppure a cullare la figlia la notte quando non dorme, in relazione a fatti accaduti nella sua vita tanto tempo fa.

In particolare, fa riferimento a quello che è accaduto nel primo anno successivo alla propria nascita, quando la madre dell’autrice è stata sottoposta alla cura del sonno per una patologia post-partum con l’accordo del padre.

L’autrice si dichiara molto dispiaciuta per l’accaduto, dicendo sia che quando non riesce ad alzarsi pensa di essere la madre ma anche che sente di essere legata al padre che ha avallato una pratica rivelatasi controproducente: di far dormire la madre nel primo anno di vita della figlia.

In poche drammatiche battute, l’autrice ci fa capire come “viaggia” la sofferenza tra le generazioni: come sofferenze provate dai genitori e da questi, in qualche modo gestite, nel senso di accettate e dimenticate, riemergano prepotentemente in un figlio/a, che si ritrova a star male e a soffrirne anche se capisce che la madre non poteva sapere che la cura a cui veniva sottoposta avrebbe potuto avere effetti così negativi sulla figlia e che il padre, a cui la figlia seguita a volere bene, tutto avrebbe voluto meno che la figlia soffrisse per quella cura.

Questo non è che un esempio che ci da un’idea per riuscire a capire che i primi tre anni di vita di un figlio sono fondamentali, non soltanto perché i figli già “sentono” tutto, ma anche perché quelle sofferenze corrono il rischio di essere congelate e mai più ricuperate, visto che il meccanismo psicologico della scissione e conseguente dissociazione non consentirà di avvicinarle nuovamente, Prima dei tre anni, infatti, la memoria non si inscrive e non può essere recuperata e, viceversa, in quel periodo possono accadere molti fatti importanti, come questo.

Tutto quello che accade in quei primi tre anni entra a far parte dell’Inconscio non rimosso che, come accennato, risulta molto difficile da raggiungere ma, al cui interno, possono rimanere dolori in grado di lasciare il segno.

Se questo è l’esempio di una patologia che stiamo imparando a riconoscere, credo che sia molto importante riflettere su quali siano i luoghi in cui poter avere la possibilità di affrontarli.

In relazione a ciò, ritengo che il Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare (GPMF) offra delle possibilità di osservazione e intervento che vanno a sommarsi ai più classici modi di intervenire psicoterapeuticamente in queste situazioni. Proprio per la capacità che ha, a mio parere, di colmare uno iato altrimenti difficilmente superabile tra quello che accade oggi e quello che era accaduto in passato.

A questo proposito, mi ha colpito il modo in cui, sempre sul Corriere della Sera, il direttore dell’Area Archeologica di Pompei descrive l’importanza, per tutti noi, di poter disporre della possibilità degli scavi che vi sono stati fatti e che tutt’ora vi vengono svolti: perché è come se Pompei fosse un luogo “congelato” nel tempo e nello spazio, che ci consente di immergerci nel modo in cui vivevano i Romani più di duemila anni fa.

Allo stesso modo, è un po’ come se all’interno dei GPMF ci fosse data la possibilità di avvicinare la realtà della trama familiare di una famiglia a transazione patologica come si svolgeva allora e come tende, inesorabilmente, a ripetersi oggi, proprio per questa caratteristica specifica delle famiglie patologiche di “tendere alla ripetizione”. Nelle famiglie a transazione psicotica in particolar modo, ma anche nelle altre seppure in misura meno pronunciata, il tempo perde la sua importanza: non scorre più.

Quello che vediamo oggi è simile a quello che è avvenuto originariamente e ha dato luogo al problema. Occuparci oggi di quegli scambi relazionali può significare cambiare contemporaneamente quello che accade oggi ma anche quello che è accaduto ieri e che ha teso a ripetersi senza fine.

E’ come se queste famiglie fossero state colpite da un cataclisma che ha fatto sì che loro rimanessero come erano, senza vivere un processo di cambiamento che riguardasse i suoi partecipanti. Che è il compito fondamentale per cui una famiglia ha senso che esista, altrimenti diviene un modo per non far vivere le persone, ma per farle attendere di morire.

E’ come se in un GPMF potessimo individuare il quadro complessivo in cui tanti oggetti che abitualmente ritroviamo separatamente all’interno dei percorsi psicoterapeutici classici, così come osservando Pompei possiamo avere quel quadro di insieme in cui collocare gli oggetti che vengono ritrovati separatamente e che, abitualmente, in tutti gli altri siti archeologici, non possiamo che provare a immaginarci.

Questo non significa che non siano validi i metodi utilizzati in genere dall’Archeologia come che non lo siano quelli utilizzati dalle altre forme di psicoterapia.

Diciamo che a Pompei per l’Archeologia, come nel GPMF per la Psichiatria-Psicoterapia, è possibile farsi un quadro d’insieme e uno dettagliato, ad un tempo, di come andavano le cose allora e di come ce le ritroviamo di fronte ai nostri occhi oggi.

Tutto ciò può costituire un arricchimento importante per la comprensione e, se possibile, l’attenuazione delle sofferenze di pazienti e familiari delle famiglie coinvolte nella patologia mentale grave.            

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