Quando ero in procinto di abilitarmi come psicologo – ormai più di dieci anni fa – e studiavo per sostenere l’esame di stato, mi capitò di leggere il resoconto di una giovane collega che, con un pizzico di malinconica ironia, raccontava le sue peripezie legate alla poca valutazione della sua professione e alle difficoltà incontrate all’inizio della stessa. Gli argomenti esposti li conoscevo bene: colleghi pagati poco e con discontinuità, zero possibilità di assunzione nel pubblico servizio, tirocini interminabili e non retribuiti, alti costi di gestione della professione tra formazione e affitti che erano insostenibili per uno psicologo alle prime armi.
Al tempo accantonai ben presto quella lettura temendo che potesse portarmi a un calo di motivazione nell’avviare la professione, e feci bene, poiché una esperienza soggettiva non va mai generalizzata, anche se è un ottimo spunto di riflessione. Fortunatamente, riuscii a evitare gran parte di quelle disavventure – un po’ per merito un po’ per i ricchissimi incontri con colleghi e mentori fatti per strada – ma ora che posso con serenità affermare di “fatto la gavetta” ormai tempo fa, devo constatare che – ahimè – poche cose cambiate sono nel frattempo per i poveri psicologi.
Questa riflessione nasce dalla lettura di un articolo[1] dove un collega esponeva quella che è una drammatica situazione, ovvero la condizione di sostanziale povertà della gran parte delle colleghe e dei colleghi del nostro paese, che a fronte di moltissimi anni di studio (attualmente 3+2 per le due lauree, un anno di tirocinio e 4 di specializzazione, per chi vuole e può), vengono retribuiti in maniera che non esiterei a definire ridicola da molte strutture o cooperative private, le quali spesso si appoggiano a questi giovani professionisti per il mantenimento delle loro attività.
Ciò ha dato origine negli ultimi tempi a quello che, sempre citando l’articolo, viene definito dall’autore il fenomeno dei “riders della psicologia”, ovvero giovani psicologi e psicologhe che vengono reclutati da alcuni portali online e che vengono pagati nemmeno 30 euro netti all’ora, con la pretesa in cambio di molte ore di disponibilità, precise indicazioni sul setting che non derivano dalla cornice teorica del professionista ma da direttive aziendali e imposizioni di colloqui gratuiti, tutto ciò al solo fine di apparire “user friendly” e un po’ simpatici agli utenti.
Ma abbiamo davvero bisogno di una psicologia “simpatica”? Si, se ci atteniamo all’etimologia del termine, che indica il “risuonare con”[2]. Senza sumpatheia, ovvero senza una sofferenza condivisa – come indica l’origine greca – è impossibile comprendere il vissuto esistenziale del paziente: Benedetti, Jung, Bion, Ogden, Von Franz e tanti altri ci hanno insegnato che è assolutamente necessario stare con il paziente e in qualche modo farsi “infettare” per poter prendersi cura di chi abbiamo di fronte.
Ma, ahimè, non è di questo che stiamo parlando in questa sede: la “simpatia” a cui mi riferisco parlando di una psicologia “amicona”[3] è piuttosto una strategia di marketing, una copertina che tiene caldi e che promette al paziente che tutto avverrà senza nessun tipo di scomodità, senza che lui provi disagio, ma che la sua condizione esistenziale di benessere sarà raggiunta soltanto grazie a un interessante (e rapido) percorso al prezzo di qualche chiacchierata con un professionista empatico. Sarebbe bellissimo se fosse così, e qualsiasi psicoterapeuta non desidererebbe altro, ma parliamoci chiaro: è pura utopia. La psicoterapia è scomoda, è un percorso di salvezza, non di benessere, per parafrasare Guggenbühl Craig[4], il che vuol dire che non garantisce esenzione dalla sofferenza, ma promette ricerca di senso, quel senso che ci fa venir voglia di affrontare una ennesima giornata pesante anche quando sarebbe molto facile fermare tutto, quel senso che da speranza, senza la quale la morte spesso viene vista come l’unica soluzione possibile.
Questa premessa mi è servita per affrontare quello che è il punto centrale della riflessione: la psicologia viene costantemente sminuita, come fenomeno di moda, folkloristico, o come un gigantesco seno buono che deve secernere solo latte caldo e nutriente, pena la distruzione. Questo le fa perdere credibilità nel mondo accademico, la relega a volte ai margini di quelle discipline “olistiche” a cavallo tra scienza e pseudoscienza, e ciò si riflette immancabilmente sulla condizione dei giovani colleghi, i quali sembra debbano chiedere “per favore” di essere pagati o di avere condizioni dignitose.
Eppure, nessuno si sognerebbe di chiedere a un barista “il primo caffè gratuito” una volta al bancone, mentre sembra che dallo psicologo quasi si pretenda la “prima seduta gratuita”, come se gli anni e i costi della formazione fossero magicamente sospesi per quella prestazione, che è forse una delle più complesse.
Certo, esistono gravi problemi istituzionali legati alla figura dello psicologo: tirocini senza borsa e della durata spropositata, un sistema di formazione estremamente costoso a cui si è obbligati dai famigerati ECM – problema che condividiamo con altre professioni sanitarie, quasi come se l’etica di un professionista non fosse abbastanza per certificarne la serietà in ambito formativo – contratti con importi ai limiti del ridicolo ed estrema competitività frutto di un sistema che non regolamenta l’accesso alla facoltà in modo da non saturare il mercato.
Tuttavia, io credo che accanto a una sana battaglia nelle sedi specifiche si debba lavorare su una percezione interna della professione come un qualcosa dotato di dignità, che va difesa da quelle che sono vere e proprie offese alla professionalità: un onorario di 10 euro lordi all’ora per un turno, l’imposizione di colloqui gratuiti, la valutazione tramite feedback online con le stelline, il proliferare di sedicenti coach o counselor che usano gli stessi strumenti della professione senza una preparazione adeguata (quasi come se si permettesse a un macellaio di asportare una appendice solo perché taglia la carne e ha i coltelli affilati…) sono scempi che siamo innanzitutto noi a dover denunciare e rifiutare.
La nostra è una professione illustre, con grandi maestri che hanno rivoluzionato il modo di pensare e di percepirsi di milioni di persone: dobbiamo difenderla ed esserne fieri, e ciò passa innanzitutto per una attitudine consapevole. Lo psicologo è un professionista della salute mentale la cui formazione peculiare lo distingue da tutte le altre professioni sanitarie, con le quali collabora in un rapporto di pari dignità, e per questo non è tenuto a far sconti a nessuno, sia professionalmente sia economicamente.
“Se – come dice Jung – le cose della vita vanno male, è solo perché i singoli vanno male, perché io stesso vado male”[5]: questa riflessione mi è molto cara, perché fornisce la speranza che tramite il singolo atteggiamento di ognuno di noi un domani la nostra professione abbia la dignità che merita, speranza che non si venga additati come dei professionisti “accessori” ma fondamentali[6] e soprattutto che finalmente la psicologia venga considerata una risorsa della collettività e uno strumento valido per risolvere problemi individuali e sociali.
[1] Reperibile al seguente link: https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/10/01/lo-psicologo-lo-trovi-online-cosi-le-piattaforme-reclutano-terapeuti-a-basso-costo/7300925/
[2] https://www.treccani.it/vocabolario/simpatico1/
[3] Semi (1985 pag.9) definisce il terapeuta con atteggiamento troppo confidenziale fatto di “sorrisi, pacche sulle spalle, e “tu” al paziente” uno dei fattori, insieme all’estrema rigidità, non giovano all’analisi.
[4] Guggenbühl-Craig, A. Matrimonio: vivi o morti / a cura di Marta Tibaldi; con una prefazione di James Hillman
Bergamo: Moretti & Vitali, stampa 2006
[5] Jung C.G., Opere 10/1, Torino Bollati Boringhieri 2003 pag.223
[6] Esempio che a mio avviso è più esemplificativo di questo è il d.lgs. 81/08 che contiene norme inerenti la prevenzione del disagio da stress lavoro correlato e nel quale la presenza dello psicologo è identificata come figura “accessoria” e quindi facoltativa nel processo valutativo.