Vaso di Pandora

Essere e sentirsi donna al di là di una diagnosi: la sindrome di Rokitansky

Quando ho chiesto a Maria Laura se potevo scrivere di lei e della sua storia, non ha avuto esitazioni. Mi ha chiesto di farlo. Perché non ci sono solo corpi da curare.

Maria Laura è una donna di 38 anni, fondatrice dell’associazione ANIMrkhS che ha come obiettivo quello di accompagnare e sostenere le ragazze e le donne che sono nate con una rara malformazione: la sindrome di Mayer Rokitansky Kuster Hauser.

Maria Laura è nata con questa sindrome.

Di cosa si tratta?

È una condizione congenita che colpisce 1 donna su 4500, caratterizzata dall’agenesia, cioè dalla mancata formazione (totale o parziale), della vagina e dell’utero. Una condizione isolata (si parla allora di MRKH di tipo 1) oppure associata ad altri difetti a livello renale, vertebrale, cardiaco (MRKH tipo 2). Poiché i genitali esterni e le ovaie sono presenti (anche se queste ultime possono essere dislocate in sedi anomale), e dunque sono presenti anche i caratteri sessuali secondari, la sindrome viene in genere scoperta solo durante l’adolescenza, intorno ai 14-16 anni, per la mancata comparsa delle mestruazioni. Alla diagnosi si arriva dopo aver escluso altre sindromi cromosomiche e aver confermato l’assenza di vagina e utero con risonanza magnetica nucleare.
Oltre all’amenorrea primaria, la sindrome comporta l’impossibilità ad avere rapporti sessuali e infertilità completa, dovuta alla mancanza di utero.

Mi fermo perché mi manca il fiato.

Mi fermo perché poche righe bastano per stravolgere una vita.

Maria Laura si è vista diagnosticare la malattia a 11 anni, non si capiva perché non riuscisse a trattenere l’urina. Visite ginecologiche e poi il verdetto. In presenza dei suoi genitori.

A 11 anni ha scoperto che non avrebbe potuto avere figli e rapporti sessuali se non dopo interventi chirurgici invasivi e dolorosi. Interventi chirurgici a cui è stata sottoposta, di cui mi ha raccontato.

Che dopo averli ascoltati non trovano posto nella mia testa. Un trauma.

Mi chiedo come sia stato possibile per lei. Senza alcun supporto psicologico.

Cerco su internet notizie.

L’unico intervento possibile, al momento, è la ricostruzione del canale vaginale per permettere una vita sessuale normale. La ricostruzione può essere ottenuta per via chirurgica o non chirurgica, a seconda delle condizioni di partenza. Se è presente un abbozzo di vagina di almeno 1,5-2 centimetri si sceglie un approccio conservativo basato sull’utilizzo di tutori che, con il tempo, ne permettono l’allungamento. Se invece la vagina manca del tutto bisogna ricostruirla ex novo. Per farlo sono possibili diverse tecniche chirurgiche, ma il punto critico è sempre stato il rivestimento del canale neoformato, visto che la mucosa vaginale naturale ha alcune caratteristiche molto specifiche, come una certa elasticità e un certo grado di lubrificazione, difficili da riprodurre. In assenza di utero, o se l’utero è troppo piccolo o malformato, l’intervento di ricostruzione della vagina non risolve il problema dell’infertilità, che però può essere affrontato e superato con l’adozione o con il ricorso alla maternità surrogata, il cosiddetto utero in affitto (non possibile in Italia). Le donne con la sindrome hanno infatti ovaie perfettamente funzionanti e con il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita possono produrre embrioni vitali. La nuova frontiere in questo ambito è rappresentata dal trapianto di utero.

Maria Laura mi ha chiesto di raccontare quello che non viene scritto.

Lo smarrimento. Il dolore. I ricordi che vengono alterati dall’ingombro di quello che viene detto, che non può trovare posto nella vita psichica di una ragazzina di 11 anni. Che da lì a poco si confronterà con coetanee che parleranno di flusso mestruale e di assorbenti. E poi più avanti di baci, desideri, di rapporti sessuali.

Perché non è vero che dopo l’intervento, si ha una vita sessuale normale. Si fugge dall’intimità.

Maria Laura mi chiede di condividere che ancora oggi non sa come gestire le relazioni sentimentali. Cosa succede se mi innamoro? Mi vorrà ancora quando saprà che non posso avere figli? E allora, lo dice subito, al primo appuntamento. Per allontanare. Per non rischiare.

C’è un passaggio di un libro di Annie Ernaux, La vergogna, in cui l’autrice riferisce di essere riuscita a raccontare una tremenda verità della sua famiglia soltanto ad alcuni uomini, ed aggiunge:

“Avere voglia di pronunciare questa frase significava che ero innamorata. Dopo averla ascoltata hanno tutti taciuto. Mi accorgevo di aver fatto un errore, per loro era una cosa irricevibile.”

Irricevibile.

Una sindrome come qualcosa di cui vergognarsi. Che fa sentire difettosa, imperfetta.

Una diagnosi che porta alla ridefinizione di una immagine di sé totalmente negativa. In un momento della vita, quello dell’ adolescenza, in cui tutto questo già di per sé, è molto impegnativo e problematico.

Una sintomatologia che mette in crisi le questione identitarie, il senso di appartenenza al gruppo delle coetanee. Pensiamo a cosa possa voler dire per una ragazzina l’assenza del menarca.

Penso alla ferita narcisistica, al sentirsi mancante, al valere meno.

Maria Laura ha usato l’espressione: il mio rapporto con gli altri è stato ed è gestito per lo più dalla sindrome.

Mi parla dei genitori. Del dolore che hanno provato, di lei che durante le visite mediche non riusciva a guardarli, perché avrebbe visto la loro sofferenza di cui, negli anni, ha cercato di farsi carico, senza lasciare nulla a loro. Una diagnosi che li ha portati a chiudersi, che ha impedito loro di aprire alla possibilità di un aiuto psicologico.

Ancora oggi troppo spesso ci si preoccupa soltanto dei corpi.

I genitori spesso si sentono in colpa. In particolare, le madri che pensano di essere le vere responsabili della malattia delle figlie, che possono diventare così premurose da arrivare a prendere il controllo su tutto ciò che riguarda le scelte, anche mediche, delle proprie ragazze. Ho saputo di alcune madri che hanno addirittura smesso di avere rapporti sessuali perché le figlie non potevano goderne.

E infine, non perché sia meno importante, al contrario, il doversi confrontare con l’impossibilità di concepire un figlio. Una diagnosi che irrompe precocemente e che altera il rapporto con il desiderio. Non puoi. E se anche tu lo desiderassi, non puoi. Naturalmente, quanto meno.

Vengono offerte altre possibilità che però per molti anni vengono sentite come lo scarto di qualcosa che non si può avere. Un lutto da elaborare per poter aprire la strada all’adozione, si dice anche alla maternità surrogata salvo poi aggiungere che in Italia non è consentita. E al trapianto di utero. Che presuppone che un’altra donna muoia.

Ci sono ancora molti medici che non conoscono la sindrome. Famiglie che si vergognano, che si chiudono, che non ne parlano, che dicono di non parlarne. Che si isolano.

Nel 2014 insieme ad altre donne, Maria Laura ha fondato l’associazione ANIMrkhS. Nel 2017 grazie al loro impegno, sono riuscite ad ottenere il riconoscimento di malattia rara ed ottenere un codice di esenzione che permette di fare gli esami di controllo senza dover pagare.

Anche grazie al loro lavoro di diffusione, sono sempre di più i centri specializzati che offrono anche un supporto psicologico. Non fornito in passato. Anche se, e Maria Laura ci tiene a dirlo, ancora ne viene sottovalutata l’importanza. Il codice di esenzione non lo prevede, se viene chiesto al di fuori dei centri specializzati o dopo un certo periodo di tempo dall’intervento, deve essere pagato.

C’è ancora molto da fare.

Per essere accompagnate, sostenute e sentirsi parte, l’indirizzo mail dell’associazione è il seguente: rokionlusitalia@gmail.com

Maria Laura mi ha chiesto di parlarne perché nell’isolamento non si vive. Con l’ignoranza si muore.

Muoiono corpi e menti.

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Commenti su "Essere e sentirsi donna al di là di una diagnosi: la sindrome di Rokitansky"

  1. Un grazie immenso alla dottoressa Rivolta che ha voluto scrivere della sindrome e soprattutto delle donne come me che affrontano ogni giorno difficoltà fisiche, ma soprattutto mentali, importanti e che non vanno sottovalutate. Spero possa questo suo scritto arrivare a persone, donne e uomini, e che faccia comprendere loro quanto c’è ancora da lavorare e impegnarsi affinché si parli della sindrome di Mayer Rokitansky Kuster Hauser senza vergogna e con un pizzico di empatia verso chi ne soffre.

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    • Sono io che la ringrazio, Maria Laura. Per il coraggio di raccontarsi e per aver messo a disposizione la sua storia di sofferenza per altre donne.

      Rispondi
  2. Buonasera, io ho mia figlia con sindrome ed è più di un anno che sta combattendo con l annoressia è ricoverata in un istituto lei e io ne abbiamo parlato della sindrome a specialisti la risposta è stata sua figlia ci deve convivere deve farsi una ragione fosse così facile ora venerdì entrerà in un altro istituto di anoressia premetto mia figlia ha già subito intervento neo vaginale io ho provato a guardare se c erano dei centri psicologici che aiutino su questo argomento ma non ne ho trovati

    Rispondi
    • Gentile Cinzia, prima di tutto mi spiace per quello che lei e sua figlia state vivendo. Come mi raccontava Maria Laura, non è facile trovare persone empatiche e sensibili. Purtroppo. Le scrivo in privato, per rispondere a quello che mi chiede. Un caro saluto. Silvia Rivolta

      Rispondi
  3. Essere diversi e non poterlo dire in adolescenza, sentirsi diversi e ritrovarsi soli in mezzo a gruppetti che ti appaiono felici che si scambiano emozioni sensazioni scoperte… ecco la precoce esperienza dolorosa di una solitudine che accompagna comunque il diverso.

    Rispondi

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