Vaso di Pandora

Ehi voi sani, che cosa significa la vostra salute?

Se volete che il mondo vada avanti, dobbiamo tenerci per mano.
Ci dobbiamo mescolare, i cosiddetti sani e i cosiddetti ammalati.
Ehi voi sani, che cosa significa la vostra salute?
Tutti gli occhi dell’umanità stanno guardando il burrone,
dove stiamo tutti precipitando.
La libertà non ci serve, se voi non avete il coraggio di guardarci in faccia,
di mangiare con noi, di bere con noi, di dormire con noi.

Andrej Tarkovskij, Nostalghia (1983)

Nel corso della storia il folle, o pazzo, è stato oggetto d’odio e di persecuzione, inquilino suo malgrado di un tragico inferno dei viventi. In Storia della follia nell’età classica Michel Focault ricostruisce gli eventi della sua cacciata dalla società e analizza l’ideologia che ne architettò l’internamento. Durante il Medioevo i pazzi furono espulsi dalle grandi città, frustati nelle piazze, bruciati al rogo dell’Inquisizione. Nella Parigi d’inizio ‘800 furono incarcerati ed incatenati: Jean-Étienne D. Esquirol, psichiatra francese, scrisse in merito: “Io li ho visti nudi, coperti di stracci, senz’altro che un po’ di paglia per proteggersi dalla fredda umidità del selciato sul quale sono distesi. Li ho visti grossolanamente nutriti, privati d’aria per respirare, d’acqua per spegnere la loro sete e delle cose più necessarie alla vita. Li ho visti in balia di veri carcerieri, abbandonati alla loro brutale sorveglianza. Li ho visti in stambugi stretti, sporchi, infetti, senz’aria, senza luce, rinchiusi in antri dove si temerebbe di rinchiudere le bestie feroci”. Stesso secolo altro luogo, simile scempio: in Inghilterra i pazzi furono confinati in gabbie ed esibiti in zoo per il pubblico ludibrio. Nel corso del ‘900 la ferocia si fece scienza, nel suo nome furono legittimate le asportazioni chirurgiche, l’elettroshock violento, i dispositivi di manicomializzazione in condizioni disumane (cfr. Hornstein, 2005).

Con l’intenzione di placarne l’agitazione, a partire dalla metà del secolo il malato mentale fu fatto stendere sul letto di Procuste della farmacologia, da cui si risvegliò intiepidito nei comportamenti, ovattato nelle percezioni, disinfestato delle idee parassitarie. Negli ammalati si ammutolirono le convinzioni disancorate da un condiviso senso di realtà e nei sani venne meno la spinta all’odio persecutorio: da questo momento storico in avanti la diffusa tendenza ad isolare i malati si mescolerà a striscianti sentimenti di indifferenza nei confronti del loro destino. “Oggi si procede, di fatto, ancora così. Tutti gli elementi produttivi o positivi della psicopatologia schizofrenica, cioè i deliri e le allucinazioni, vengono potati, come i rami e la chioma degli alberi, ma rimangono in piedi i tronchi, irrigiditi e bozzuti, mutilati, ma, cionondimeno, sinistramente presenti, come cicatrici che indicano che là c’è stato, un giorno, un essere umano, di cui altri esseri umani non sono riusciti a tollerare l’irriducibile diversità” (Ballerini, Di Petta, 2015, p.135). Una psicofarmacologia così intesa è perciò una vittoria sull’atroce sanguinarietà del passato oppure un’arresa liberticida che sancisce l’impossibilità di guardare in faccia, mangiare, bere, dormire con il malato mentale per come egli è? Lo psichiatra scozzese Ronald D. Laing in una poesia contenuta in Mi ami? scrive: “Prendi questa pillola/ e urlerai un po’ meno/ ti porta via la vita/ senza, stai più sereno” (p.44, 1978). La somministrazione di gocce e pasticche immobilizza il malato mentale in una chimica camicia di forza o lo libera dalla prigionia dell’eccesso di sensorialità e dall’angoscia di non esistere? Si può rispondere a queste domande dicotomiche, che originano da una posizione schizo-paranoide, con risposte altrettanto risolutive, ma proseguire su una simile metrica “non farebbe che riproporre la semeiotica clinica in un altro linguaggio” (Ballerini, Di Petta, 2015, p.7). Oppure si può deragliare dalla logica dell’aut aut e rinunciare a dare una risposta perentoria, provare a tessere significati per promuovere un pensiero critico maggiormente inclusivo che trattenga dal buttar via farmaci o follia con l’acqua sporca. Una prima considerazione riguarda perciò la farmacologia.

Nel ‘500 il medico e alchimista Paracelso sosteneva che ogni cosa è veleno e che non esiste nulla che non sia velenoso, solamente la dose fa in modo che il veleno non produca questo effetto. Terapie psicofarmacologiche appropriate, laddove possibile moderate, mirate al contenimento dell’angoscia acuta, implicano una tutela delle ragioni etiche della vita. Testimoniano l’intenzionalità a rianimare quel desiderio di esistere che a stento respira fra le acuzie psicotiche e la tentazione iatrogena di soffocarle insieme al sofferente. Grazie ad esse il battito psichico della persona ammalata può essere ripristinato ad una rinnovata regolarità, che non è ancora vivere ma il suo necessario antecedente, sopravvivere. In questo spazio di sopravvivenza fra vita e morte psichica, ricavato attraverso un’appropriata prescrizione di psicofarmaci, si inserisce una seconda considerazione, che rimanda al potenziale di ascolto ed azione della cura psicoterapeutica. Eugenio Borgna, psichiatra e accademico, auspica un approccio di cura che crede nei valori umani e nel senso della follia, una psichiatria che non consenta alcuna farmacoterapia che non sia indirizzata a fondare un’apertura al dialogo e alla comunicazione psicoterapeutica (cfr. Borgna, 1995). Quest’ultima da intendersi come base di un “paziente lavoro di sostegno relazionale e di accoglienza umana del dolore, […], di valorizzazione dei desideri e dei sentimenti, strumento di riappropriazione dei propri spazi di vita e di ripristino di legami affettivi personalizzati” (Thanopulos, 2022). Ad oggi persiste un certo scetticismo attorno all’idea che una terapia della parola possa apportare effetti documentabili e visibili (per tramite di apposite strumentazioni) al funzionamento cerebrale. Lo psichiatra e premio Nobel Eric Kandel, a partire da molteplici evidenze sperimentali, spazza via simili riserve: “non c’è più alcun dubbio che la psicoterapia possa portare a cambiamenti rilevabili nel cervello” (2005). Da allora studi di neuroimaging (ossia l’insieme di strumenti tecnologici e di procedure sperimentali per la visualizzazione del cervello in vivo), fra cui quelli di Kumari e colleghi (2017), con persone che sperimentano sintomi psicotici, hanno rilevato una diminuzione dell’iperattivazione dell’amigdala e un aumento della connettività con la corteccia prefrontale a seguito di percorsi psicoterapici.

Alla luce di queste considerazioni, relative all’opportunità di un’adeguata farmacoterapia e all’imprescindibilità di specifiche psicoterapie per la cura dell’intensa sofferenza psichica, si autoevidenzia con naturalezza una via da seguire: quella di un pluralismo scientifico fondato su un approccio multidisciplinare. Ciononostante la realtà dei fatti traccia una differente traiettoria: il rapporto nazionale sull’uso dei farmaci OsMed-AIFA 2021 evidenzia un aumento del consumo di farmaci antipsicotici di oltre il 20% negli ultimi otto anni, mentre nei servizi pubblici italiani la psicoterapia rappresenta solamente il 6% dei trattamenti complessivamente erogati. Ciò contribuisce ad adombrare il volto umano della cura e a confinare le persone sofferenti “in esistenze diagnostiche costruite in funzione di trattamenti farmacologici sintomatici” (Thanopulos, 2022). Riappare il fantasma di un’anestesia della diversità. In un lungimirante e profondamente umano “Manifesto della Salute Mentale” (2022), il presidente della Società Psicoanalitica Italiana, Sarantis Thanopulos, insieme ad altri colleghi scrive: “il diritto alla salute mentale è fondamentale e ha un enorme valore politico per la democrazia. Investire fortemente nella salute mentale è necessario alla costruzione di una società democratica, equa e garante di una buona qualità di vita. […] perché  il dolore acuto, destrutturante, possa essere contenuto senza eccessi dì sedazione, perché si eviti la sua sorda cronicizzazione, perché le emozioni e i pensieri dì chi soffre abbiano ascolto e rappresentazione, perché il soggetto lacerato (ma vivo, resistente nonostante tutto) ritrovi il suo posto dì cittadino nella vita lavorativa, culturale e politica, perché si riappropri della sua espressione creativa. Questa non è un’utopia, è una spinta vitale, una scelta civile: la sofferenza, a cui siamo tutti esposti, può essere alleviata, elaborata, trasformata in desiderio di vivere”. Si tratta in fondo di riconoscere, a vantaggio di tutti, che ciascuno è esposto alla sofferenza e che essa è connaturata al fatto stesso di esistere.

A questo proposito lo psichiatra e psicoterapeuta Giovanni Stanghellini riprende il concetto focaultiano di dispositivo e adattandone il campo semantico all’ambito esistenziale vi riconosce quei “fenomeni che fanno parte dell’esistenza umana e ne rappresentano il fondamento” (Stanghellini, Rossi Monti, p.201): fenomeni che non sono disposti dall’individuo ma che dispongono, piuttosto, dell’individuo stesso. Fra questi il dispositivo di vulnerabilità, che rimanda a quell’insieme di caratteristiche che fanno di un essere umano un essere fragile ed esposto alla patologia e, contemporaneamente, un individuo in rapporto dialettico con sé e con il mondo. In altri termini un dispositivo che riconosce la vita umana per ciò che è, vulnerabile, “strutturalmente sospesa fra salute e malattia” (Stanghellini, Rossi Monti, p.204). Alla luce di questo concetto ci si può allora domandare che cosa significhi per i cosiddetti sani la propria salute. Significa anzitutto necessità di sospendere se stessi, o meglio, la tendenza a contrapporre le categorie sano/malato, e non tanto in termini di utilità clinica finalizzata ad esempio alla presa in carico della sofferenza, quanto più come alveo d’origine di quell’odio per la diversità che legittimò fiumi di sangue nel corso dei secoli. Salute significa riconoscere che sanità e sofferenza presenziano e regolano la vita di ciascuno a prescindere dalla volontà individuale e che questo non significa mancanza di libertà, piuttosto esistenza di confini entro i quali ha luogo la vita. Significa riconoscere che quando una persona non può più contare sul dispositivo di vulnerabilità, ma che è esso a disporre univocamente le cose per lei, lì si è in presenza di un dispositivo patogeno, creatore di sofferenza. Perciò riflettere sul senso della salute significa aprirsi al dubbio più che alla certezza, sapersi un po’ più precari, vulnerabili, significa riconoscere la necessità dell’altro, poter usufruire del diritto ad una cura che si faccia carico della vulnerabilità quando il soggetto non possa più disporne per conto proprio, di modo che “la psicopatologia resti così in contatto, in interazione permanente con la realtà vivente”. (Minkowski, 1966, p.56).

Note Bibliografiche
1

Ballerini, A., Di Petta G. (2015), Oltre e aldilà del mondo: l’essenza della schizofrenia. Fenomenologia e psicopatologia, Giovanni Fioriti Editore, Roma

2

Borgna, E. (1995), Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofrenica, Universal Economica Feltrinelli, Milano, 2015

3

Esquirol, J-E.D. (1819), Des établissements des aliénés en France et des moyens d’améliorer la sort de ces infortunés, Impr. de Mme Huzard, Paris

4

Etkin, A., Pittenger, C., Polan, H.J., Kandel, E. (2005), Toward a neurobiology of psychotherapy: basic science and clinical applications, Journal Neuropsychiatry Clinical Neuroscience

5

Foucault, M. (1961), Folie et déraison. Histoire de la folie à l’âge classique. Trad. it. Storia della follia nell’Età Classica, BUR, Milano, 2003

6

Hornstein, G.A. (2005), To redeem one person is to redeem the world. The life of Frieda Fromm-Reichmann, Other Press, New York

7

Laing, R.D. (1976), Do you love me? Trad.it. Mi ami?, Giulio Einaudi editore, Torino 1978

8

Mason, L., Peters, E., Williams, S, Kumari, V., (2017) Brain connectivity changes occurring following cognitive behavioural therapy for psychosis predict long-term recovery, Transl. Psychiatry 7, e1001

9

Minkowski, E. (1966), Traité de psychopathologie. Trad. it. Trattato di psicopatologia, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2016

10

Mitre, M.E. (2016), Las voces del silencio. Trad. it. Le voci del silenzio. Perché si curano i pazienti che si curano, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2021

11

Stanghellini, G., Rossi Monti, M., (2009), Psicologia del patologico, Raffaello Cortina Editore, Milano Thanopulos, S., et al (2022), Manifesto della Salute Mentale, La cura nella Salute Mentale come valorizzazione della persona e difesa della democrazia, www.spiweb.it

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