L’Autore ci parla quasi si trovasse ancora, come nel 1970, nella Clinica svizzera dove allora è stato ricoverato abbastanza a lungo. In un prolungatissimo monologo interiore ci dice la sua depressione, offrendone una visione dall’interno che coniuga l’intensità del dolore mentale con la sensibilità e professionalità dello scrittore; valido quanto insolito aiuto alla comprensione empatica di questo stato, e che forse per lui ha un senso riparativo.
Disperazione nera, orrore del proprio fisico; sfiducia in sé stesso pur nella consapevolezza del proprio valore, reale ma perduto: “non sarò mai più un grande”. “Meglio il carcere della depressione”. Fuga dalla realtà, scacco del desiderio: meglio stare a letto, non cercare nulla. Stare in clinica? Andarsene? Beve continuamente acqua, in mancanza di alcoolici, come a riempire un vuoto. Avverte come una pietra sul petto. “Non posso prevedere nulla, tranne l’infelicità”. Giornata vuota eppure “piena come un lungo viaggio del pensiero e dell’emozione”.
In un tentativo di resilienza cerca un qualche salvagente in modi di rapporto surrettizi: fare domande sulle cose degli altri, divenire gregario, quasi parassita delle vite altrui: si definisce alloplastico anziché autoplastico. Fantastica di donne, vorrebbe avvicinarle ma è molto ambivalente: la cosa è troppo impegnativa. Fare una passeggiata con l’infermiera? Forse l’ambiguità – equivocità di questa vicinanza (affettiva? professionale? una via di mezzo?) la renderebbe meno rischiosa. Pur tuttavia non si decide.
Un altro aiuto lo cerca attaccandosi, da scrittore, a quello che chiama uno “scrivere astratto”, perché gli pare non esprima davvero qualcosa (noi suoi lettori non siamo d’accordo). Penna dunque come aggancio alla realtà, come un mettersi alla prova: ma non lo fa star meglio, anche se gli consente di non tornare sulla “pista non prevedibile dei pensieri” , pista pericolosa perché non si sa dove porta: pare accennare a un rischio di suicidio. Perciò vuol continuare infinitamente a scrivere, anche se lo sente come uno scrivere fine a sé stesso, che non ha oggetto. Ciò si applica, credo, a tante altre attività del depresso non gravissimo: possono anche continuare apparentemente immutate, ma prive di anima.
Forse il solo tema che agli occhi di Ottieri varrebbe la pena è proprio la depressione, ma questa non si può descrivere: “se ne può dare solo un’eco, quando è passata”. Forse questo è vero, anche se a noi non parrebbe, nel suo caso: forse resta sempre un residuo inespresso e inesprimibile. La giornata è un incubo di tempo fermo; come ben sappiamo, diviene più tollerabile nel pomeriggio, quando si riesce ad avvertire l’avvicinarsi dell’incoscienza del sonno. Si avverte l’immobilità disperata del mondo, come da una espressione Junghiana.
E questo ci porta al rapporto con l’ambiente della Clinica, zurighese e, pour cause, necessariamente di ispirazione Junghiana. Clinica di lusso, “molto internazionale”: i pazienti non raramente si parlano in varie lingue di “cose culturali”; questo sguardo ironico è per Ottieri un’altra strategia di sopravvivenza.
Paradossalmente in questo contesto ricercato, e orientato psicanaliticamente, la contenzione meccanica non è affatto esclusa, e lo scrittore ne è testimone. E qui torna la possibile alternativa fra due possibili significati della preparazione tecnico-culturale: concreta guida all’operare o al contrario – è accaduto – mero strumento di soddisfazione narcisistica per l’operatore, compensazione a frustranti vissuti di impotenza terapeutica.
Ancora paradossalmente, l’Autore definisce la Clinica come “Carcere volontario”: vi ravvisa un’alleanza fra costrizione esterna e costrizione interna, da cui il titolo “campo di concentrazione”. Stare chiusi oppure no? avere o no la chiave della porta d’ingresso? Pericolo della libertà. “Cosa accadrà quando non avrò divieti?”. Vorrebbe lasciare la clinica quando tutto sarà chiaro. Ma quando? Forse mai? E possiamo chiederci: cosa è per lui chiarezza? Quel che invece sappiamo è che la degenza è per lui una necessaria pausa di attesa.
È continuo il raffronto di questa clinica con quella italiana dove è stato in passato, di indirizzo ben diverso da questa attuale: là era “imbottito di medicine”, e si svegliava “felice”, chiacchierava con i compagni. Ma l’analista criticamente definisce ciò “tossicomania organizzata”. Lui ammette che, certo, era spensierato ma non aveva risolto nulla. Infatti appena dimesso è ricaduto, ha cominciato a bere.
Si sente come disputato fra due ideologie, e nessuna della due lo convince davvero. È sì costante il riferimento al rapporto con l’analista, “maestro di vita” naturalmente junghiano; ma tuttavia non sa quanto se ne senta aiutato: è frustrante non avere risposte alle proprie domande, e sentirsi dire che per ora è necessario soffrire; né aiuta la consapevolezza intellettuale che una dose di frustrazione è componente essenziale del processo analitico. Fondamentalmente, Ottieri si sente solo. E’ una realtà interiore insuperabile? Oppure una corretta e realistica percezione?