Marta ha abbandonato la vita nel più crudele dei modi: qualcuno si è arrogato il diritto di strappargliela via. È una storia dai confini lugubri: un alloggio popolare di Milano, una fetta di popolazione bisognosa, una scomparsa da oltre due settimane. Poi l’epilogo straziante: Marta non è più viva.
Marta in quell’alloggio popolare l’abbiamo accompagnata noi a coronazione di un percorso comunitario che le riassegnava autonomia e diritto a provarci ancora, perché aveva tutte le carte in mano: era brava a badare a sé e alla casa, aveva imparato a gestire oculatamente il denaro e a programmare, prima con la sua operatrice in Comunità e poi da sola, le spese; non faceva finta che non esistessero. Aveva imparato a fidarsi dei curanti a raccontare quelle voci che la facevano ridere da sola o preoccuparsi di un’infilatrazione dei corpi speciali tra le persone della comunità. Era felice il giorno che l’ho accompagnata in Aler Milano per la consegna di chiavi di casa e regolamento di condominio. Le aveva chiare le regole, le rispettava.
Aveva solo un unico, voraginoso, punto debole che tutti quelli che l’hanno conosciuta hanno provato a rattoppare, colmare, gestire, strutturare. Marta deficitava di confini personali solidi che la aiutassero a piazzare dei bei NO sonanti a richieste nei suoi confronti. No alle sigarette chieste in prestito, no ai favori in nome di relazioni che lei forzava sempre alla parola amicizia. NO NO NO. Avevamo creduto di averle trasmesso l’importanza di quei NO. Invece una volta di più non è riuscita a dirlo ed è caduta nelle mani del suo assassino. Uccisa per incassare gli spiccioli della pensione, ipotizzano gli inquirenti, ma sono speculazioni.
Quel che sappiamo e conosciamo è la qualità del progetto con cui l’abbiamo traghettata in questa casa popolare, con la partecipazione solidissima del suo servizio ambulatoriale. Visite domiciliari, terapia in CPS per valutarne lo stato psichico ed emotivo, soldi gestiti con l’erogazione e l’aiuto dei curanti. Avevamo l’illusione di averla messa in una botte di ferro; peraltro a ripensarla alla fine del percorso in comunità non rintraccio motivi per non accordarle quella fiducia, umana e clinica. “Marta mi raccomando, dì di No, ricordatelo” “sì Francesca”, con quel sorrisetto bonario di chi sapevi che non avrebbe mai fatto male a una mosca. Aveva un figlio Marta, avevano portato avanti il rapporto come erano riusciti. Poco, ma era sopravvissuto alle loro sventure.
Ma ora la domanda che mi attanaglia con colpa, colma di desiderio di riparare l’irreparabile, è quella relativa allo spazio nel mondo che rimane per i nostri pazienti, quando DOBBIAMO emanciparli, perché lo meritano. Alloggi popolari infestati di ultimi tra gli ultimi? Persone bisognose che incontrano bisogni ancora più grandi dei loro? Non va bene, non è giusto. Se Marta avesse vissuto in un condominio “per bene”, in mezzo a persone che avessero saputo sostenerla e supportarla nella sua inadeguatezza in qualche area della vita? Persone che non si fossero approfittate dei suoi bisogni?
Questa non è la storia di un femminicidio, non è l’epilogo tragico di una paziente psichiatrica finita male per la sua follia. Questa è una storia sui NO mancati e sulla ghettizzazione di alcune fasce umane. E fa schifo.
Marta, sei stata una persona buona e gentile, che in quella casa aler preparava le lasagne per noi operatori e per i tuoi ex compagni di viaggio comunitario quando venivi a trovarci dopo le dimissioni. Se solo i giornali lo sapessero… non eri una ludopatica, non eri una pazza, sei solo una vittima, che lascia dietro alla sua vita mortale un ricordo dolcissimo.
Buon viaggio!
È così, Francesca: i DSM possono spendere per un “posto letto” in una comunità, ma non per una casa dove abitare, che di un percorso comunitario riuscito ( le rare volte che si riesce a costruirlo) è l’indispensabile coronamento. Hai proprio ragione, è uno schifo. Ma sarebbe bello che anche i gestori delle strutture residenziali riuscissero a dirlo: la “psicoterapia istituzionale”, per essere tale, non può esaurirsi nei confini poveri e rigidi del posto letto.
Ciao Marta, ti ho conosciuto, anche se per poco. Mia mamma abita in quel cortile dove ti hanno spento quel sorriso dolce e ingenuo. Il ricordo che ho di te è quando un giorno, poco tempo fa, mi hai fermato per farmi i complimenti per il mio cane e mi dissi che anche tu molto tempo fa avevi un cane. Chi l’avrebbe mai detto che quella sarebbe stata l’ultima volta che ti vedevo….e giovedì 26/10 alle 21:00 abbiamo organizzato in quel cortile, dove ormai non si fa altro che parlare di te, si svolgerà una messa perché te la meriti. C’è chi, pensando a te, ha preparato un cartellone attaccato all’esterno del cancello con una tua foto, dei fiori e dei lumini per non dimenticare. Spero che adesso sarai in un posto migliore dove c’è solo amore perché te lo meriti. Ciao Marta, un un’abbraccio forte
Infatti il nostro gruppo continua a favorire il sostegno all’abitare, fondamentale per consentire a pazienti ex ospiti di strutture di esistere anche fuori dalle istituzioni.
Per far questo bisogna conoscere e formarsi con della scuola.
Che tragedia grande e questo ci fa pensare a quello che succederà DOPO DI NOI e che succederà DURANTE NOI se gli prendiamo un appartamento per farlo vivere con le “chiavi di casa” ma senza vicino persone che possano seguire la sua vita con le competenze giuste e per sempre. È un desiderio utopistico!!
Sostenere l’abitare in autonomia vuol dire creare una rete solida tra le stesse persone che affrontano l’autonomia. La nostra esperienza di auto aiuto tra dimessi dalle comunità (e poi altri) è stata la più importante rete di appoggio. La solidarietà e la consapevolezza delle debolezze dell’altro ha permesso aiuti alla pari, accettati e fondamentali. In particolare ricordo quanto una persona forse simile a Marta sia stata protetta da un altra persona un uomo consapevole dei rischi che correva con la sua disponibilità… Federico la portava fuori da situazioni di confidenza immotivata, interveniva delicatamente la riportava in sede o a casa sua. Il servizio pur collaborante non risulta sufficiente. Lunga è la strada per costruire appunto una rete che sostenga dove i protagonisti siano gli stessi ‘pazienti’ che in una sorta di albergo diffuso (le loro case) si mantengano tra loro in contatto con le loro preferenze, con scelte di lavori o divertimenti in comune, ma sopratutto con un legame che identifica i pericoli meglio di un tecnico. O come uno specialista. E’ la nostra esperienza alla PRATO e ci abbiamo messo anni (dal 2005). Soli anche con il sostegno di bravi specialisti si corrono rischi. Non basta il maggiordomo di quartiere. E’ la rete affettiva che tiene lontano dai ‘lupi’
Sono molto vicina alla vostra sofferenza perché so quanto sia triste una morte quando si apriva la speranza di una vita libera e si era felici del buon risultato del proprio lavoro. E si voleva bene a Marta, si voleva il suo bene.
Grazie a Roberta Antonello di questa breve ed intensa riflessione sul senso e significato del nostro lavoro.
E’ a mio avviso un nuovo capitolo di un tentativo che si sta esaurendo: quello di creare un capillare servizio territoriale di salute mentale.
L’immagine dell’albergo diffuso rende bene l’idea che vorrei riproporre di appartenenza e di riconoscimento.
“Aiutati che Dio ti aiuta” è un proverbio che ben evidenzia la necessità di essere protagonisti consapevoli del proprio divenire. Senza voler deificare la Roberta che pur lo meriterebbe, ritengo che l’attività della associazione di volontariato Prato che lei ha fondato, ben si cala nella consapevolezza della necessità di far partecipare le persone sofferenti ad una ricerca del senso di stare insieme in modo solidale.
Fondamentale evitare la solitudine e le prevaricazioni che essa costringe spesso a subire con false promesse e trappole ad ogni angolo, come è accaduto alla paziente di Redancia Po.
Spero che si voglia insieme dibattere l’argomento che a mio avviso dovrà liberarci dal tranello del “posto letto” sostituendolo via via con quello di “casa partecipata”.
Personalmente sto pensando ad un progetto diffuso di sostegno all’abitare che possa diminuire sostanzialmente il ricorso ai ricoveri pur in collaborazione con i luoghi in cui avvengono.
L’esperienza delle comunità alloggio di Savona, in stretta collaborazione col Dipartimento di Salute Mentale e le comunità terapeutiche rappresentano anche esse un esempio concreto di un intervento per pazienti psichiatrici gravi che vengono curati con minor rischio di incistamenti cronici.