Commento all’articolo apparso su La Repubblica il 31 maggio 2017
Blue Whale è il “gioco” che sta coinvolgendo molti giovani e giovanissimi di tutto il mondo. Per comprendere di cosa si tratti è necessario risalire al 2015 in Russia dove ha avuto inizio la lunga catena di suicidi di adolescenti. Secondo la storia dal novembre di quell’anno, nel principale social network russo si è diffuso il gioco il cui scopo è quello di costringere al suicidio il giocatore.
Si articola in una serie di cinquanta prove costituite da altrettante regole di pericolosità crescente fino al suicidio: dal guardare film horror durante la notte, procurarsi dei tagli in numero sempre crescente, incidersi una balena sul corpo con un taglierino, raggiungere la cima del palazzo più alto della città e sporgersi fino al gettarsi dal palazzo.
Il tutto deve necessariamente essere documentato attraverso fotografie o filmati da inviare al “curatore” che, dopo averne valutato la veridicità, ne assegna un punteggio in classifica.
Molte sono le teorie e le spiegazioni attribuite a questo “gioco”: qualcuno sostiene si tratti di una notizia falsa, qualcun altro di un modo per adescare solo quei giovani fragili e problematici, qualcun altro lo definisce un vero e proprio incubo.
L’ideatore sarebbe un ex studente di psicologia russo (espulso dall’università e arrestato nel 2016) che avrebbe indotto 16 adolescenti al suicidio.
Che sia vero o presunto ormai poco importa. Ciò che è certo è il fatto che i giovani ne parlino, tra loro e virtualmente, in modo virale e questo credo sia già sufficiente per poterlo definire essere un “fenomeno” allarmante.
Perché la scelta del nome Blue Whale? Prende il nome dal fenomeno dello spiaggiamento dei cetacei; nel mondo animale questo accade quando un cetaceo o un gruppo di cetacei si smarrisce per varie cause, arenandosi sulla spiaggia: spesso muore per disidratazione, per l’impossibilità di sopportare il proprio peso oppure perché l’alta marea copre lo sfiatatoio. Ma se lo spiaggiamento e quindi la morte dei cetacei è dovuta allo smarrimento, nel “gioco” l’induzione al suicidio è guidata da un curatore. Se per il vocabolario della lingua italiana il curatore è colui che è delegato all’esercizio di particolari funzioni di assistenza, custodia, amministrazione e sorveglianza, calato nel “gioco” descritto assume toni inquietanti. Il curatore (detto anche amministratore o tutor), infatti, è colui il quale convince il giocatore attraverso minacce rivolte a lui e ai famigliari, a sottostare alle regole che con il passare dei giorni (50) gli vengono imposte.
Un altro aspetto incredibilmente macrabo di tutta questa vicenda è il fatto che coloro che si suicidano devono per “regolamento” essere filmati da altri coetanei. Il web è pieno di immagini emotivamente fortissime di ragazzi e ragazze che si lanciano da palazzi mentre altri li filmano quasi come a confondere il gioco con la realtà. Apparentemente, come il nome stesso può indurre a pensare, si tratta di finzione ma poi le persone coinvolte muoiono davvero.
Se da un lato il diffondersi dell’utilizzo dei social network ha permesso di tessere collegamenti con chiunque si voglia, dall’altro ha spinto all’isolamento sociale soprattutto coloro che faticano a fare esperienze reali. Questo fenomeno spinge al suicidio passando attraverso una regola fondamentale: il silenzio. Nessuno può parlare del gioco con amici e parenti se non con coloro che già stanno “giocando”.
Impossibile non interrogarsi sul motivo che spinge i giovani e i giovanissimi ad aderire a tutto questo. Dalle interviste fatte a madri che hanno perso le proprie figlie emerge come dato fondamentale l’imprevedibilità del gesto, come se fosse dagli adolescenti inserito in una cornice di normalità che di normale però non ha proprio nulla. Non possiamo definire normalità il confondere il gioco con la realtà, lo spingersi a tagliarsi pur di sottostare alle regole del gioco e guadagnare punti in una fantomatica classifica, l’indurre al suicidio ragazzi per ripulire la società (come sostenuto dall’ideatore di Blue Whale).
Come possiamo prevenire che tutto questo diventi quasi una scalata al successo? Quali possono essere i fattori protettivi? Se le Forze dell’Ordine sono impegnate nelle indagini di coloro che si professano “curatori”, noi che abbiamo scelto di prenderci cura di adolescenti, così come coloro che con funzioni diverse vivono a stretto contatto con questa particolare fascia di età, su cosa dobbiamo riflettere e porre attenzione? L’adolescenza è di certo un periodo di costruzione e di trasformazione il cui esito non può che dipendere dai riferimenti che si hanno, siano essi famigliari che amicali. Quando questi riferimenti “in carne ed ossa” vengono a mancare, si osserva un aumento della ricerca di riferimenti virtuali, immediati e spesso ingannevoli e mistificati.
Ecco allora che l’osservazione dell’adolescente nel quotidiano e la regolamentazione dell’utilizzo dei social a favore delle esperienze reali diventa fondamentale. Il confronto con l’altro reale arricchisce e responsabilizza, seppur talvolta risulti più complesso dell’immediatezza delle esperienze filtrate dallo schermo del computer. Il bisogno di un senso di appartenenza potrebbe essere un altro fattore di rischio che, se per le generazioni passate spesso si traduceva nel bisogno di appartenere ad una compagnia, ad oggi troppo spesso si traduce nell’appartenere a gruppi virtuali composti da sconosciuti con uno scopo comune. Non sempre lo scopo con cui le persone si aggregano virtualmente è nobile. Talvolta fa leva proprio su alcune fragilità spiralizzandole fino a farle diventare insormontabili oppure sul bisogno di avere un “ruolo” nel mondo, qualunque esso sia. Se l’esperienza reale ha confini ben determinati il rischio dell’utilizzo del web è l’espansione a macchia d’olio attraverso l’emulazione.
L’ingaggio in questo tipo di fenomeno non riguarda però solo gli adolescenti. Da alcuni approfondimenti emerge il fatto che esiste una versione per i più piccoli: “la fata del fuoco”. Se per gli adolescenti la struttura prevedere l’adesione alla regola, per i più piccoli (sono stati riportati casi di bambini di 8 e nove anni) il fenomeno prende le sembianze di una (macabra) favola.
Se è vero che gli adolescenti che arrivano ad essere incuriositi da Blue Whale poi non riescono più a sottrarsi alla sfida nella quale vengono ingaggiati e che sentono in qualche modo di dover vincere, sono convinta che la sfida più costruttiva che possano affrontare sia quella di proiettarsi in un futuro ancora tutto da costruire.