Vaso di Pandora

Babà

di Antonello D’Elia, Federico Russo

Sono trascorsi quarant’anni ormai dalla riforma psichiatrica italiana che tuttora è nota come legge Basaglia. Anni che hanno visto cambiare il mondo, le idee, la politica, non solo, ovviamente, il campo della salute mentale, le sue prospettive e la sua reale collocazione all’interno della Sanità pubblica.

La legge era semplice nella sua formulazione ma decisa nel collocare la sofferenza psichica nell’ambito delle condizioni da trattare e curare e non da escludere e segregare, una questione di diritti da applicare.

E aveva un’altra ambizione, una carica radicale nel riformare i rapporti tra Stato e Follia, malati e normali. Quattro decenni quelli trascorsi che, nonostante tutto, hanno visto modificarsi i modi, le forme e la qualità della presa in carico dei pazienti psichiatrici.

Almeno fino a un certo punto e fino a un certo momento, quando si è avviata una pericolosa deriva i cui esiti, non ineluttabili, è faticoso ma necessario contrastare.

Di fonte a tanti mutamenti uno dei pregiudizi presenti già al tempo della promulgazione della legge permane tuttavia pressoché intatto nell’opinione di molti, a volte anche tra chi della salute mentale ha fatto una professione: quello secondo cui Basaglia e i basagliani credevano nella casualità sociale della malattia psichiatrica e rifiutavano qualsiasi approccio che non fosse appunto sociale, qualunque commistione con il mondo della psicoterapia identificata come una delle tecniche di controllo ancor più insidiose dopo l’abbattimento delle mura manicomiali.

Ovviamente non si tratta di un pensiero condiviso dalle migliaia di psichiatri, psicologi psicoterapeuti che hanno operato, descritto, ed elaborato il lavoro istituzionale di questi fecondi e faticosi decenni costituendo un caposaldo di quella cultura che non ha mai ceduto agli strumentali luoghi comuni pur se spesso soffocata da un dibattito mai sopito che ha nutrito anche un numero ineguagliato di proposte di controriforma guadagnato in tanti anni dalla Legge 180 del 1978.

Il nostro modo di contribuire a questo quarto decennale della legge è ricordare, attraverso le sue stesse parole, che Basaglia aveva del cambiamento un’idea radicale e profonda che rimandava essenzialmente al recupero della soggettività umana soffocata da meccanismi di classe e di potere, senza dubbio, ma anche da vicende più intime, da relazioni personali e familiari.

Non lontano nello spirito, anche se distante per luoghi e atteggiamenti, in quegli anni così importanti per la psichiatria e la psicoterapia, si muoveva Jorge Garcia Badaracco, psicoanalista argentino, allievo di Pichon-Rivière, iniziatore di un approccio clinico alla psicosi allargato ai familiari e alle comunità, la Psicoanalisi Multifamiliare.

Ci è sembrato necessario ricostruire un dialogo tra Basaglia e Badaracco anche sulla scena della storia, così come era già avvenuto dentro noi stessi. Nasce così questa conversazione originale (nel senso che abbiamo cercato di attenerci per quanto possibile a quanto da loro è effettivamente stato detto e scritto) che proponiamo ai lettori.

Questo breve lavoro, a metà tra review scientifica e pièce teatrale, racconta il loro incontro ed è frutto, forse, del sogno dei due autori che provano a misurarsi con il grande sogno dei nostri due personaggi, mai stanchi di sognare e nutrire visioni.

Basaglia e Badaracco presentano molte differenze nell’approccio al mondo; nella loro conversazione cerchiamo di farle emergere insieme ad alcune convergenze inattese che sorreggono la speranza, non dismessa, di un dialogo, di un accostamento esplicito e per noi necessario tra due mondi culturali e operativi che non risultano poi tanto distanti.

Una scelta che è frutto anche dell’esperienza che in questi anni abbiamo fatto con i Gruppi di Psicoanalisi Multifamiliare nel sistema salute mentale italiano che tanto deve al pensiero di Franco Basaglia. La più significativa di queste convergenze deriva dallo stile di lavoro di entrambi: appartenevano a quel genere di medici che non si tirano mai indietro, che si “sporcano le mani”, a quegli psichiatri che si avvicinano alla dimensione psicotica mettendo se stessi in discussione, senza filtri e con coraggio; tutti e due mostravano per il genere umano una fiducia immensa che li sosteneva in ogni loro atto, esperienza, pensiero.

Franco Basaglia ci ha consegnato una concezione del mondo illuminata e potente, dove ogni uomo ha pari diritto di libertà e dignità e non può essere definito solo dal suo comportamento, e dove anche la raison ha i suoi diritti ma solo insieme alla déraison.Jorge Garcia Badaracco ci ha donato la sua visione dello spazio e del tempo terapeutico in cui ogni persona, anche la più gravemente disturbata, ha il potenziale di liberarsi dalla gabbia delle relazioni che fanno ammalare.

Raccogliere il testimone di queste visioni e integrarle può ancora favorire lo sviluppo di una psichiatria umana e scientifica, paritaria e democratica. E di istituzioni basate su tali principi.

Premesse di un incontro

I protagonisti di questa storia sono due giovani rampolli della buona borghesia, hanno la stessa età, uno è portegno, come si dice dei cittadini di Buenos Aires, l’altro veneziano. Entrambi hanno alle spalle grandi porti, naviganti e città di visionari, sono colti, raffinati, pronti a partire e a confrontarsi con il mondo. Il giovane Badaracco poco dopo la laurea in Medicina va in Europa. Viaggia in Spagna, Inghilterra e Germania e nel 1951 si stabilisce alla Casa Argentina di Parigi.

È in piena formazione, frequenta i seminari di Lacan, studia la neurofisiologia, nel 1956 pubblica un lavoro su Psicoanalisis y Neurologia, lavora con Julian Ajuriaguerra all’Ospedale Sant’Anna, con Sacha Nacht, Serge Lebovici, Henry Ey.

Il contesto che incontra Badaracco a Parigi non è molto distante da quello culturale in cui cresce come psichiatra Basaglia.

Anche lui brillante studente a Padova non ha difficoltà ad entrare in contatto con la psichiatria italiana che conta. Pubblica in quegli anni “Su alcuni aspetti della moderna psicoterapia: analisi fenomenologica dell’“incontro” (Basaglia, 1954). Nell’accademia circola il pensiero sulla “follia” e molto poco entra la follia vera.

La stessa psicoanalisi europea negli anni 1950 è saldata sulla cura dei nevrotici. Il grande tema di fondo del Novecento è lo scontro tra capitalismo e comunismo.

Ma in politica nessun governo, espressione delle due dottrine di riferimento, ha declinato in chiave economica reale la questione: essendo i poveri molto più numerosi dei ricchi avrebbero vinto qualsiasi confronto democratico.

La soluzione adottata diventa quella di rendere più ricchi coloro che aspiravano a posizioni di potere, rendendoli in tal modo immediatamente parte della minoranza che lo detiene. La psichiatria di quegli anni funzionava nello stesso modo.

I folli non contavano nulla, ed erano poveri. E gli psichiatri che lavoravano a stretto contatto con le navi dei folli altrettanto, relegati nei manicomi, dipendenti delle Provincie. Il potere era accentrato nelle università e nelle società scientifiche.

Si parlava di follia tenendosi alla larga dai folli. Per gli psicoanalisti era essenziale scovare la follia da subito per allontanare potenziali analizzandi pericolosi, per gli psichiatri altrettanto fondamentale annientarla da subito utilizzando mezzi chimici, chirurgici, elettrici, meccanici.

A rimanere fuori era la vera essenza dell’uomo, lo sguardo al profondo, all’incomprensibile, e l’analisi dell’esistente, del reale, di quello che lo circonda e determina. La psichiatria era piena di classificazioni, una passione che ha attraversato tutto il Novecento e non ci ha ancora lasciato, finita nelle varie edizioni dei Manuali diagnostici e statistici dei disturbi mentali (DSM) che a forza di accumulare nomenclature ha stremato i desideri di conoscenza di tutti gli psichiatri del mondo.

Basaglia si innamora di Minkowski, l’unico tra i fenomenologi che utilizza le proprie emozioni per avvicinare la follia vera (la “diagnosi per penetrazione”). In quegli anni il giovane Basaglia studia moltissimo e scrive.

Oltre al già citato articolo del 1954 si avvicina alla schizofrenia, incontra pazienti difficili, vuole comprendere l’incomprensibile (“Il mondo dell’“incomprensibile” schizofrenico attraverso la Daseinanalyse” [Basaglia, 1953]).

La psichiatria per un giovane propone da subito una scelta che, per chi lo sa, è anche filosofica: la malattia è sviluppo o processo, il delirio può essere derivabile o deve essere solo classificato per la forma e il contenuto senza pretendere di conferirgli senso? Basaglia è affascinato dal mondo psicotico.

Lo guarda a fondo attraverso il registro della tradizione esistenziale francese e tedesca, ma guarda la follia anche in rapporto al reale. E si tiene alla larga dall’inconscio di quella psicoanalisi che i fenomenologi criticavano per essere ancora troppo legata al mondo della natura con le sue pulsioni e scariche energetiche.

Invece Badaracco guarda se stesso attraverso la psicoanalisi. Scopre che in ogni essere umano c’è follia, nevrosi e salute. Cresce a Parigi, la capitale degli intellettuali di allora, ma sembra più attratto dalla prassi, guarda agli anglosassoni, soprattutto ad Harry Stack Sullivan (1953, 1924-35, 1940, 1956) e alla sua teoria interpersonale della psichiatria, ma anche a Frieda Fromm Reichmann (1950, 1959) e nel complesso agli autori che sperimentano e utilizzano la loro matrice psicoanalitica per buttarsi con essa oltre l’ignoto.

Ma sia Basaglia che Badaracco sono soprattutto, entrambi, drammaticamente attratti dagli ultimi, i poveracci, gli alienati, i disperati, sentono l’intensità della sofferenza nascosta nelle pieghe delle teorie.

Hanno entrambi una formazione sofisticata e cominciano a sentire in quegli anni che questa ha bisogno di alimentarsi, di nutrirsi, della saggezza nascosta ed emarginata della psicosi.

Così Basaglia accetta l’incarico di direzione nel manicomio di Gorizia e Badaracco torna a Buenos Aires e va a dirigere un reparto del manicomio Borda. La diversità tra i due sta nel fatto che Badaracco ottiene incarichi prestigiosi, all’università di Mendoza, appena rientrato in Argentina, e poi partecipa alla fondazione dell’Instituto National de Salud Mental. Ha 33 anni quando crea la prima specializzazione in psichiatria del Paese.

Basaglia che va a Gorizia viene espulso dal sistema universitario, lui che ha una vocazione psicopatologica e grandi potenzialità scientifiche abbandona la carriera lanciandosi nell’avventura manicomiale alla ricerca di se stesso. Le realtà che i due “Ba” incontrano nel manicomio sono di certo molto somiglianti. Istituzioni chiuse, organizzate per il controllo sociale della follia, dove è facile entrare e difficile uscire.

Luoghi isolati, ripetitivi, in cui è impossibile mantenere uno sguardo sulla persona al di fuori del ruolo che ha all’interno dell’organizzazione. Operatori arroccati sul ruolo e internati prigionieri delle mura che li circondano e dei personaggi che la propria psicosi interpreta. Sono due direttori interessati all’umanità, alla relazione e ognuno a suo modo inizia il proprio lavoro.

Tentano la mutazione del manicomio in comunità, entrano con una forza trasformativa potente e con uno sguardo attento e profondo sui pazienti, sul patologico ma anche su ciò che sopravvive alla malattia. In questa prima fase si manifestano tutte le differenze.

Badaracco è interessato ad aprire il reparto all’esterno. Attraverso la continuità con la Società psicoanalitica e l’università porta la formazione all’interno del manicomio, porta la comunità dentro. In questa azione Badaracco è facilitato, forse, dal contesto sociale in cui si muove: l’Argentina è un paese che viene dal peronismo, con una tradizione golpista e in cui è in corso una grave crisi politica mentre l’economia va fortissima.

È un paese immenso, la capitale è immensa, el Borda è immenso, ci si può perdere per i viali. È probabile che questa situazione abbia permesso al giovane direttore di osare senza dare troppo all’occhio.Diversamente, il giovane Basaglia a Gorizia si trova stretto tra le paure dell’amministrazione locale e quelle della popolazione. Ha gli occhi addosso e fa di tutto per attirarsene sempre di più. Scrive, pubblica, parla ai congressi, si mostra irriducibile e in lotta contro l’istituzione. Si pone da combattente in tutte le cose che intraprende. Attacca senza paura il palazzo della psichiatria istituzionale e universitaria.

Badaracco è invece cauto. Si muove con destrezza, cambia, ma stando accorto a non attivare troppe paure, prima la disposizione del reparto, poi il gruppo spontaneo delle 12 al centro del salone, poi l’invito agli operatori esterni, agli psichiatri in formazione, alle famiglie dei pazienti.

Il gruppo si ingrandisce a vista d’occhio ed emergono a poco a poco le sue scoperte: le “interdipendenze”, la “virtualità sana”, la “mente ampliada”. Il gruppo cura pazienti, familiari ed operatori. Così apre il primo Day Hospital d’Argentina, nel 1964. Basaglia a Gorizia lotta, Badaracco a Buenos Aires sceglie di non lottare («una lotta attiva sempre una resistenza», dirà tanti anni dopo [Narracci, 2005]).

In questa fase le strade dei due si dividono. Basaglia è destinato a scontrarsi con la società se la vuole usare per curare i suoi matti. Badaracco crea letteralmente la sua micro-società in cui curare i suoi matti. Basaglia deve cercare l’alleanza con le famiglie almeno per non averle contro, Badaracco le include nella cura, ritiene che il nodo centrale sia nella relazione tra genitori e figli, in un sistema patologico reciproco che intrappola entrambi i poli dell’interdipendenza.

Basaglia lotta contro l’istituzione, immagina i servizi territoriali, immagina operatori anti-istituzionali, democratici, coraggiosi, in grado di sopportare le contraddizioni della disciplina che comunque continuano a praticare per trasformarla dal di dentro, non passivi rispetto alla patologia delle istituzioni chiuse.

Nel 1968 pubblica L’istituzione negata mentre sta per andarsene da Gorizia. Tutti i cambiamenti operati da Basaglia nel manicomio pilota restano incompiuti, di fronte al rifiuto della società e delle famiglie a riaccogliere i malati. Dopo il breve passaggio a Colorno (Parma) andrà a Trieste a operare una trasformazione che l’amministrazione pubblica lì è pronta a sostenere. In questo processo Basaglia resta intrappolato tra forze politiche e forze patologiche.

È come un magistrato che a un certo momento si toglie la toga ed entra in politica. E quando Basaglia toglie il camice, forse non è un caso, muore. Badaracco ha la fortuna di avere un sistema terapeutico interno, sente che gli operatori sono coinvolti nel gioco dell’interdipendenza, che possono diventare essi stessi patogeni o patologici nel momento in cui entrano in continuità con la psicosi.

Sente che qualsiasi istituzione ha una sua tendenza compulsiva, una coazione a ripetere, un istinto di morte che chiude la mente (la mente cerrada). E individua nel suo gruppo di psicoanalisi multifamiliare la forza capace di generare una mente ampliada.

Basaglia si accorge subito che pazienti e operatori sono legati gli uni con gli altri. «Quando il paziente è legato lo psichiatra è libero, quando il paziente è libero lo psichiatra è legato», formulerà Basaglia (1981a, p. 267) che per uscire da questa trappola il medico dovrà «porsi su un piano di parità con il malato, dividendo con lui il rischio della sua libertà» (ibidem). Ma questo cambio di posizione non può essere frutto di un gesto, di un’intenzione.

Essere alla pari vuole dire essere disposti a fare lo stesso percorso, entrare in gioco. Pazienti e operatori allo specchio, a curarsi simultaneamente. Un salto nel buio che Basaglia era pronto a fare, ma che pochi insieme a lui potevano fare, e soprattutto senza un paracadute.

Un incontro sudamericano

Nell’estate del 1979 Franco Basaglia parte per il Brasile.

È trascorso poco più di un anno dalla approvazione in parlamento di una legge che ha riscritto in modo sostanziale il rapporto tra Stato e follia e che porta forte l’impronta sua, e quella del lavoro di scardinamento del nesso tra malattia mentale, pericolosità e internamento condotto in Italia per quasi due decenni da psichiatri, psicologi, infermieri ed operatori sociali, seguiti poi da intellettuali, registi, scrittori e tanta gente comune.

Basaglia terrà conferenze e incontri pubblici a San Paolo, Rio de Janeiro e Belo Horizonte.

L’eco della sua opera e del suo pensiero ha varcato da tempo le frontiere italiane. È arrivato, tra l’altro, anche in Brasile, dove da poco si è insediato il presidente João Figuieredo, che ha avviato la progressiva uscita dalla dittatura militare durata quasi quindici anni, e si assiste a un lento ritorno alla democrazia che tuttavia avverrà solo nel 1985 con il ritorno alle urne per le elezioni.

In questo clima Basaglia viene chiamato a parlare e a spiegare cosa significa aprire i manicomi e le menti e a raccontare cosa è stato fatto nel suo paese e si può fare altrove. Mai trionfalistico, è consapevole che la storia non procede in una sola direzione e che i risultati raggiunti non costituiranno che l’inizio di un nuovo processo tutto da scrivere e per il quale sarà necessario continuare a impegnarsi.

Lucido, realista e pessimista al tempo stesso, difende l’attualità della distruzione del manicomio sapendo che ha un valore anche testimoniale: «(…) dice ai suoi interlocutori a Rio, ma quello che è stato fatto non potrà essere cancellato, non se ne potrà mai più prescindere perché si è dimostrato “che si può assistere la persona folle in altro modo”» (De Salvia Rolle, 1984, p. 8).

Il tour brasiliano inizia il 18 giugno a San Paolo, all’Istituto Sedes Sapientiae, e prosegue fino al 21. Il 22 è alla sede del Sindacato dei lavoratori delle industrie chimiche e farmaceutiche e al Teatro Cultura Artística. Il 26 giugno si trasferisce a Rio dove parlerà in vari luoghi, compresa l’Università di Medicina e poi a Belo Horizonte ai primi di luglio. Franco Basaglia torna in Brasile a novembre per un altro ciclo di conferenze a Belo Horizonte.

Qui incontrerà il pubblico all’Associação Médica de Minas Gerais per quattro giorni di fila. Sappiamo da testimoni di quel secondo viaggio brasiliano che al termine delle faticose conferenze lo psichiatra veneziano si rese irreperibile per tre giorni: forse stanco per gli impegni serrati, forse desideroso di una distrazione. Qualcuno insinuò pure una fuga romantica.

Altre fonti, ben documentate, ci dicono invece che Basaglia da Belo Horizonte, nello Stato del Sudeste, sia sceso fino alla sponda brasiliana del Río Paraná e risalendo verso ovest abbia raggiunto le Cataratas do Iguaçu, le spettacolari cascate che il fiume omonimo produce poco prima di confluire nel Paraná. Un luogo di natura magnifica e imponente, certamente, ma troppo turistico per immaginare che il nostro sia stato spinto dalla sola curiosità vacanziera.

Di fronte al lato brasiliano le cascate si sviluppano su quello argentino del fiume, dove sorge la cittadina di Puerto Iguazù che dista dal confine solo pochi chilometri. In quegli stessi giorni, come confermato da una prenotazione alberghiera ritrovata tra le sue carte, anche Jorge Garcia Badaracco si era recato a Iguazù, prendendo alloggio proprio a Puerto nell’albergo El Loco Curado, un piccolo hotel non privo di fascino a poca distanza dalla chiesa principale del paese.

Cosa lo avesse spinto a compiere il lungo tragitto da Buenos Aires verso nord fino al confine con il Brasile è un mistero. O almeno lo è stato fino al ritrovamento di una vecchia bobina di registratore rimasta a lungo dimenticata nel cassetto di un piccolo scrittoio della casa portegna di Badaracco e portataci di persona dalla sua allieva, la nostra amica Maria Elisa Mitre nel corso della sua ultima visita a Roma.

Grazie a quel nastro possiamo ora svelare le ragioni di quel viaggio: Franco Basaglia e Jorge Garcia Badaracco alloggiarono in quei giorni nello stesso albergo, ed ebbero un lungo scambio di idee rimasto impresso sul nastro del magnetofono. Con il rispetto dovuto ai due personaggi, entrambi ormai morti, per i quali proviamo sincera ammirazione e un pizzico di devozione, dopo averla ascoltata abbiamo deciso di proporla a un pubblico interessato.

Jorge Garcia Badaracco (JGB): Da dove cominciamo? Come ha trovato il Brasile? Lì stanno cambiando tante cose: da molti anni in questo continente abbiamo avuto regimi militari e la democrazia è scomparsa in Brasile, in Cile, Argentina, Uruguay… Mentre da noi il clima sta iniziando a cambiare, in Brasile si è già inaugurato un nuovo corso.

Franco Bsaglia (FB): Ho incontrato moltissima gente e mi pare che tutti desiderino parlare, confrontarsi. Non proprio una rivoluzione ma tutti si aspettano grandi riforme. Mi hanno invitato anche per questo.

JGB: A dire il vero io non mi sono mai interessato di politica. Troppa smania di potere, troppe trame, tanto protagonismo e manipolazione: mi sembra molto meglio concentrarsi su quello che fanno le persone più che sulle idee. I conflitti sono inerenti al mondo umano e gli individui hanno la capacità potenziale di risolverli, ma in molte circostanze si presentano sotto forma di dilemmi che appaiono insolubili e di cui non si riesce a vedere la soluzione (PMF, p. 28). Gli esseri umani fanno già tanta fatica a diventare individui che a me pare più urgente occuparsi della loro sofferenza e delle rivoluzioni interiori e familiari che possono fare per liberarsene.

FB: Non sia modesto. Abbiamo saputo tutti cosa ha fatto in manicomio: ha cacciato i medici dalle loro stanze e ci ha messo i pazienti, ha trasformato il reparto in un luogo di riunioni in cui cavar fuori dal silenzio le parole. Anche se, e veniamo subito al dunque, lei e i suoi colleghi siete rimasti in una condizione ambigua: dentro il diritto alla parola e fuori la repressione, dentro la libertà e fuori l’oppressione. Volete far emancipare chi è intrappolato nella psicosi insieme ai suoi familiari ma in pratica confermate quel sistema di potere che isola i malati, non li cura perché il manicomio non è fatto per curarli ma per tenerli sotto controllo. Finché si sta nell’ospedale, gli psichiatri, come diceva Gramsci, sono funzionari del consenso (CP, p. 6).

JGB: Ma di che parla! Come si permette! Lei ha idea di cosa succeda in Argentina? O pensa che tutto il mondo sia uguale e le sue analisi vadano bene ovunque? Ma bravo! Lei combatte con i suoi allievi e seguaci la segregazione e la mancanza di libertà nei manicomi italiani ma nel frattempo noi il fascismo non lo abbiamo avuto, ma ce l’abbiamo. Siamo una nazione ondivaga: durante la guerra siamo rimasti neutrali, poi abbiamo appoggiato la Germania nazista e infine le abbiamo fatto guerra, tutto in cinque anni… Abbiamo ospitato gli ebrei che scappavano dal nazismo e i nazisti che fuggivano dalla Germania… Dal 1944 a oggi abbiamo avuto otto colpi di stato, una decina di elezioni, retate, assassinii, attentati, torture… Io ho vissuto in Francia e in Europa dal 1950 al 1957, poi sono tornato. Volevo stare nel mio paese, lavorare, portare le novità che avevo appreso e con le mie idee cambiare le cose. Cominciai a lavorare con modalità totalmente diverse da quelle abituali. Iniziai ad arrivare in reparto tutti i giorni alla stessa ora, sedendomi su un divano della grande “sala di riunione” dei pazienti, determinando un contesto spontaneo nel quale io ero “disponibile per tutti” quelli che avessero voluto venire a parlarmi. Poco tempo dopo iniziai a invitare i malati. E vorrei precisare che questo cambiamento istituzionale avvenne nel 1964 (CT, p. 6).

FB: Io ho lavorato in un’istituzione non per cambiarla da dentro ma per abolirla. Un paradosso dirà, ma era l’unica possibilità. Essendo il direttore, io avevo il potere di gestire, determinare, organizzare… Non è stato facile, ho dovuto subire una serie di repressioni: politiche, giudiziarie, amministrative, disciplinari. Un grande stimolo al mio lavoro è venuto dall’opinione pubblica e questo mi ha aiutato molto… (CB Fogli, p. 41). Bisogna aprire, aprire, aprire.

JGB: Anche io sono partito dal fare, come pare che piaccia anche a lei. Cosa crede, che l’abbandono delle persone in ospedale psichiatrico mi piacesse e lo sopportassi a cuor leggero? Ho provato a cambiare dentro il manicomio ma ho faticato a convincere anche molti dei miei colleghi che avevano paura a entrare in contatto con i pazienti senza la difesa del loro camice e della loro “scienza” psichiatrica. Visto che l’istituzione non voleva cambiamenti ne ho fondato una io, una clinica, con l’obiettivo di curare e di dare voce agli psicotici e alle loro famiglie, perché la psicosi nasce da lì, dalla sofferenza di tanti e di molte generazioni, anche se è poi il paziente a farle venire fuori prendendole su di sé. Alla fine non è andata molto bene neanche così…

FB: Che le avevo detto? Le istituzioni sono pericolose, anche quando sono innovative poi si ripetono e si irrigidiscono e bisogna abbatterle, non fermarsi mai…

JGB: Sono in parte d’accordo con lei. I miei tentativi per introdurre la psicoanalisi negli ospedali psichiatrici furono sempre contestati con lunghe discussioni teoriche, sterili ed inutili (CT, p. 22). Forse uno degli aspetti (…) del nostro operato è stato la sensazione di avere sempre lavorato contro una serie di forze negative che si opponevano ai nostri sforzi e che sembravano voler distruggere tutto quello che noi cercavamo di costruire… (CT, p. 16.) In seguito nella clinica ho lavorato venticinque anni, abbiamo imparato tanto, cambiato anche il pensiero e la pratica di tanti psichiatri… Ora siamo aperti all’esterno, i pazienti vengono da tutta la città, senza confini di estrazione sociale o di strumenti culturali (PMF, pp. 64-65). In psichiatria si vede solo la patologia. Persino molti psicoanalisti vedono solo le malattie e non le parti sane, la salute che può esserci in potenza anche nella crisi psicotica. Forse qualche terapeuta familiare è più attento – anche se è americano e so che non le piacciono particolarmente! Bisogna sapersi sorprendere, essere disposti a imparare sempre.

FB.: Lei ha ragione, senza un sapere che chiarisca quali trappole relazionali e quanta sofferenza siano all’origine della psicosi ogni riforma è mancante, il progetto umano è privato del suo obiettivo ultimo, l’uomo. Ma sono anche convinto, e lo temo, che i tecnici che hanno promosso il cambiamento coprano e richiudano in nuove ideologie in saperi specialistici, le contraddizioni che hanno contribuito ad aprire (CB, p. XIX). La nostra legge, dopo tutto, dice una cosa semplice: che chi è malato, anche di mente, va curato come e insieme agli altri malati. Stando attenti però perché non tutto rientra… nella… medicina (SFB II, p. 483) e che il cosiddetto malato di mente è una persona che soffre, una persona che si trova in una situazione di disagio (SFB II, p. 477).

JGB: Della follia abbiamo una fortissima paura irrazionale, inconscia, che possiamo affrontare e superare soltanto se ricorriamo a tutte le energie intellettuali ed emotive di cui disponiamo (PMF, p. 208). Purtroppo ho saputo da amici e colleghi italiani che dopo la legge a cui lei ha lavorato molti pensano di affrontare i problemi della malattia mentale con la psicofarmacologia, la riabilitazione e il reinserimento sociale (PMF, p. 19)… Va tutto bene ma se ci ferma lì e si crede che con tante belle proposte le persone risolvono la loro sofferenza gli psichiatri hanno vinto ancora una volta, magari affiancati ora dagli psicologi. Avete sostituito un’ideologia con un’altra?

FB: Non mi sono mai piaciuti quelli che pensano che non si può fare nulla, che si può solo scrivere libri (CB, p. XX) o, al contrario, coloro che si buttano a capofitto nella pratica senza riflettere. Non credo che si faccia cultura scrivendo libri, si fa cultura soltanto nel momento in cui si cambia la realtà (SFB II, p. 485). Per cambiare non dobbiamo stancarci di essere ottimisti, di lavorare nell’ideologia perché ci viviamo immersi (CB, p. XX) e di usare il potere del nostro ruolo sociale di medici, di psichiatri, per cercare di trasformare questo ruolo e i suoi esiti attraverso la trasformazione della pratica, cioè del fare e del modo di essere.

JGB: Apprezzo molto quello che fa e quello che dice. Trovo però che questa sua aspirazione a cambiare il mondo sia esagerata, per quanto nobile, beninteso. Conosciamo i nostri colleghi, le università, le istituzioni in cui ci muoviamo e già lì facciamo fatica ad affermare delle idee che a noi sembrano ovvie, necessarie, e agli altri suonano come provocatorie, pericolose. D’altra parte a lei come è andata all’università di Padova, a Gorizia, a Parma? E dopo, quando le hanno offerto quella ridicola cattedra di geriatria? L’aveva spuntata, le sue idee erano diventate concrete, era famoso, eppure…

FB: La vedo informata e anche sottile… Comunque ha ragione, ci sono stato male in tutti i casi, meno nell’ultimo forse… Non per vendicarmi, ma anche a lei non è andata meglio: all’università, in ospedale, tra i suoi colleghi psicoanalisti argentini e non solo…

JGB: La nostra è una contrapposizione inutile!… Si, se lei ne ha passate parecchie a me non è stato risparmiato un fastidioso scetticismo anche da parte degli psicoanalisti. Per giunta proprio da alcuni che ne avevano passate di tutti i colori quando sono scappati dai nazisti e sono venuti da noi. Dev’essere perché l’Argentina è un paese fragile ed emotivo… Figuriamoci se ci mettiamo a cambiare il mondo, mio caro collega, la società, il potere… Altro che Italia: gliel’ho detto, qui da noi abbiamo violenze, arrestati, scomparsi…

FB: Mhm, certo, capisco… Sa, quando io parlo di lavorare al cambiamento sociale penso a come superare i rapporti di oppressione e vivere la contraddizione del rapporto con l’altro (CB, p. XXI). Non è quello che fa anche lei quando restituisce la parola ai pazienti psicotici? E mette in condizione di ascoltare la loro esperienza genitori che altrimenti sono così chiusi in se stessi che i figli non riescono neppure a vederli veramente? Non è anche quello vivere una contraddizione? Nessuno di quei genitori ammetterebbe in prima battuta di non essere bravo, capace, di non risparmiarsi per la prole.

JGB: Vedo che non le è sfuggito il senso dei gruppi multifamiliari…

FB: Devo dire che mi hanno interessato le somiglianze e le differenze con i gruppi nella comunità terapeutica alla Maxwell Jones e quelli che facevamo in manicomio. Ad esempio ho trovato che quei genitori, fidandosi, ascoltando gli altri, lei e le sue parole, i figli non propri, scoprono che c’è una contraddizione profonda tra quel che dicono e quel che provano. E questo aiuta a modificare un rapporto di oppressione.

JGB: A dire il vero io non la chiamo oppressione, ma capisco il termine. Al centro c’è la sofferenza del non essere persone e di essere abitati dalle presenze degli altri: i figli dai genitori e i genitori dai figli, ad esempio. Io penso che per sua natura la “pazzia”, che non può essere pensata, ha bisogno di un “altro” per poter essere attuata (PMF, p. 79). In questo sta la natura sociale della follia. Certo a lei piace molto questa dimensione del sociale, dell’emancipazione, della lotta politica, e vede soprattutto questa. Parla di fiducia ma non è solo quello, perché si mettono in moto processi profondi, inconsci, primari e affiorano ricordi ed esperienze prima dimenticate o soppresse.

FB: Non mi parli di psicoanalisi… Ha presente cosa sta succedendo nelle società occidentali avanzate in cui la psicoanalisi è la punta di diamante di una pratica di normalizzazione psichica e sociale, come ho scritto a proposito di un libro di Robert Castel (1973) che lei avrà sicuramente letto…

JGB: Le parlo invece di una paziente, Gisel. A un certo punto mi disse: “La comunità era diventata l’unico mondo a cui appartenevo… nonostante tutto, io, finalmente potevo sentirmi me stessa… potevo manifestare la mia pazzia” (PMF, p. 221). Lei capisce che manifestare la pazzia significa, in realtà, manifestarsi con “autenticità”. L’importante, il sorprendente, il meraviglioso è poter condividere con molte persone quello che si sente (PMF, p. 222). Il sociale, il sociale… ma il primo sociale è dentro di noi e inizia con i genitori, i fratelli, i nonni. Se non si toccano quelle relazioni confuse non si intacca la fonte del dolore e addio emancipazione sociale.

FB: Touché. Ammetto che a volte mi faccio prendere la mano e non vado troppo per il sottile… In ogni caso, considerare il conflitto e le crisi come potenzialmente positivi, accettare che i ruoli si indeboliscano e facciano venir fuori le persone è anche la mia battaglia, cosa crede? E non solo in manicomio… Prenda il rapporto tra uomini e donne: Quando l’uomo accetta la donna nella sua soggettività [può nascere uno] stato di tensione che crea una vita che non si conosce, l’inizio di un mondo nuovo (CB, XXI). Sarò anche ottimista nel voler rompere i cerchi delle relazioni bloccate e senza vita come quello della psicosi, ma mi pare che lei non lo sia meno di me professore…

JGB: Si lo ammetto, ha ragione anche lei. Devo tuttavia ricordarle che quando parla di contraddizione lei pensa a Marx, all’idea che le contraddizioni interne allo sviluppo capitalistico porteranno a un’esplosione che produrrà un esito rivoluzionario. Marx un po’ lo conosco anch’io, quando dice che le contraddizioni della borghesia tra creatività individuale e meccanismo economico sottostante esploderanno e le basi culturali ed etiche delle relazioni umane che ne seguiranno saranno quelle della classe operaia. Lei lo sa che ci sono psicoanalisti argentini convinti di poter mettere insieme marxismo e psicoanalisi e si battono per questo anche nell’International Psychoanalytic Association (IPA)? Ha mai sentito parlare di Marie Langer o di Armando Bauleo?

FB: La Langer mi sembra troppo ideologica con la sua “psicoanalisi marxista rivoluzionaria”… Mah… Forse perché viene anche lei dalle terre del Terzo Reich… Non ho mai creduto in un motto tipo “Psicoanalisti di tutto i mondo unitevi!”. Da noi ci sono stati gli psicoanalisti dissidenti che con alcuni colleghi europei hanno aderito a Plattform, una vera fronda rispetto alla psicoanalisi chiusa e spocchiosa: Pierfrancesco Galli le dice niente? (Bolko & Rothschild, 2006). Il fatto che quando alcuni di loro sono andati nella patria del socialismo reale, e la Langer e Bauleo erano tra questi, sono rimasti scornati. Volevano portare la peste psicoanalitica a Mosca ma lì erano più conservatori dei conservatori americani. Si pensava che i paesi liberati dalla rivoluzione socialista sviluppassero una psichiatria differente ma… in questi Paesi non solamente i manicomi normali sono prigioni… è stato creato un altro tipo di manicomio, il manicomio politico… (CB Fogli, p. 37). Comunque io so bene ciò che è stato fatto in Argentina dagli psichiatri e dagli operatori di salute mentale. Si tratta di un lavoro molto simile a quello realizzato in Italia, nonostante la differenza delle condizioni storiche e politiche. Ciò che unisce le due esperienze è che i due gruppi hanno dimostrato che la psichiatria e la salute mentale possono essere gestite in maniera differente. Indipendentemente dall’impostazione psicoanalitica del gruppo argentino e non psicoanalitica del gruppo italiano (CB Fogli, p. 97).

JGB: Si, ma come è andata a finire? Armando Bauleo è un analista di gruppo capace, abbiamo avuto in Pichon-Rivière un comune maestro. Anche Armando a ideologia non scherzava: diceva che il gruppo è una costruzione ideologica e si è inventato una pratica scientifica anti-ideologica… Faceva parte degli “psicobolscevichi”, e quando le cose si sono messe male in Argentina ed è iniziata la persecuzione dei comunisti è dovuto scappare ed è venuto in Italia…

FB: Lo so, a Venezia, e siamo anche diventati amici. Ho amici tra gli psicoanalisti, in particolare quelli che non si chiudono dentro i loro studi col divano, cosa crede? Solo che la maggior parte di loro non si è sporcata veramente le mani, non è venuta a lavorare in manicomio, qualcuno ha tentato la deistituzionalizzazione facendo il rivoluzionario cittadino, gente coraggiosa, magari, come i Napolitani a Milano… Ma è solo dalle contraddizioni di classe evidenti in ospedale psichiatrico che capivi la necessità di un rivolgimento più profondo che attaccasse l’ideologia della psichiatria alla radice.

JGB: Belle parole, solo che non ci credo, caro collega. E poi non penso valga la pena attendere tutto il tempo che ci vorrebbe per la rivoluzione. Per me quelle che lei chiama contraddizioni seguendo Marx sono conflitti seguendo Freud. E io, sinceramente, penso che uno scopo realistico sia raggiungere un’integrazione nelle persone di quegli aspetti scissi e, tra le persone, di quelle dipendenze fondate su un incontro mancato. Della società in generale non me ne occupo anche se nelle mie articulaciones c’è spazio pure per quella…

FB: Sa, per me Marx è utile per tutta l’analisi dell’ideologia, di cui quella psichiatrica mi è ben nota, e comunque mi trovo più a mio agio con Gramsci: penso al ruolo degli intellettuali e al rapporto tra la prassi e la teoria, visto che da psichiatri anti-istituzionali la nostra forza è stata agire e modificare il sistema manicomiale introducendo pratiche nuove e dimostrando che si può fare una psichiatria senza il manicomio (CP, p. 3) e modificare lo stato delle cose facendo. Ma per quanto riguarda la prassi, il mio vero maestro è Jean-Paul Sartre.

JGB: La conosce la storia del magnetofono? Un tale si presenta dall’analista con un magnetofono e gli dice che registrerà la seduta; quello risponde che non è affatto disponibile a prestarsi a un ribaltamento della situazione analitica. Ne è nato un caso in Francia su cui si sono pronunciati Sartre e importanti analisti, Pontalis ad esempio. Sartre sosteneva che l’analista aveva perso l’occasione di un incontro autentico con il suo paziente, “l’incontro dell’uomo con l’uomo”, gli altri rispondono che nella situazione analitica non ci può essere reciprocità (L’uomo del magnetofono; Abrahams, 1976). Lei lo sa che ho fatto il tifo per Sartre? In fin dei conti questi analisti – e badi che non rinnego di esserlo anzi, ne sono fiero – hanno sostenuto la stessa cosa rispetto alla Psicoanalisi Multifamiliare: dicono che in un contesto così reale e sociale come i gruppi non ci può essere transfert e non c’è niente che somigli all’analisi. Troppa realtà farebbe male all’inconscio, insomma. Io replico che l’inconscio non si manifesta solo sul lettino e l’impatto fisico tra esponenti di più generazioni accomunati dal blocco psicotico è più potente di qualsiasi interpretazione esterna. Non ha idea di quante memorie sepolte si mettano in movimento: può succedere che un figlio può far sentire il padre ancora figlio ed evocare dolori apparentemente dimenticati che hanno intrappolato lui e i suoi discendenti!

FB: La stupirò, ma a proposito della reciprocità io penso che ci sia più reciprocità nella relazione tra paziente e analista che tra psichiatra e ricoverato manicomiale. Il primo può sempre andarsene il secondo no, è soggetto a una logica di potere. E se non vi è reciprocità nella relazione vi è soltanto dipendenza. La psicoterapia, in se stessa, non è una tecnica di dominazione; penso che il trattamento psicoterapico è come la relazione fra medico e paziente, che può essere di dominazione o di liberazione (CB Fogli, p. 50). Quel che distrugge la relazione terapeutica è l’oggettivazione del paziente che impedisce una possibile relazione non alienata (CB Fogli, p. 78). Penso che la psicoterapia, per essere funzionale, necessiti continuamente di uno stato di tensione, sia dello psicoterapeuta che del paziente: se non vi è una tensione nella relazione non esiste vita! (CB Fogli, p. 14).

JGB: Venga giù con me a Buenos Aires! Vedrà che in un gruppo è proprio quello che succede: la posizione di potere, come la chiama lei, non è più nelle mani del terapeuta, il tecnico che sa come dovrebbero essere le cose, ma circola tra tutti i partecipanti. E non si crea dipendenza perché si è in tanti a esprimersi, tutti alla pari. Chi può essere più competente della psicosi di uno psicotico? Solo che non lo sa e bisogna che lo apprenda, come io apprendo ogni volta che mi calo nel gruppo di psicoanalisi multifamiliare…

FB: Non mi consideri scortese, ma cosa ha fatto la psicoanalisi per il malato mentale del manicomio durante un secolo? (CB Fogli, p. 47). Tutti i tentativi di umanizzare il manicomio si sono rivelati un mezzo di controllo sociale, una modalità di tolleranza repressiva (CB Fogli, p. 72), semplici proposte tecniche innovatrici, confuse nelle diatribe e nelle discussioni teoriche (LP, p. IX). È la fine che hanno fatto le comunità terapeutiche inglesi in ospedale, o i francesi a Saint-Albain dove gli psichiatri discutevano sulla psicoanalisi, lacaniana e non, e intanto avevano 120 malati trattati a insulina, elettroshock e impregnazione farmacologica (CB Fogli, p. 73). Mi scusi ma dovevo proprio dirglielo… Non so se da lei in ospedale abbiate risolto il problema di fondo e cioè quello dei bisogni dei malati (LP, p. VII). Lo schizofrenico è innanzitutto un uomo e ha bisogno di affetto, di denaro e di lavoro (CB Fogli, p. 74). La psicoanalisi si muove sul piano dei desideri, ma i bisogni degli oppressi dei manicomi, proletari e sottoproletari, vengono prima dei desideri che per loro sono un lusso inarrivabile…

JGB: Non consideri me scortese ora, caro collega, se le faccio notare che deve pur decidersi: lei mette al centro l’uomo, il soggetto, ma non ha chiaro se il soggetto da liberare dalla psicosi sia la persona che soffre o quello collettivo degli esclusi dalla società e dei reclusi in manicomio. È una questione di persone imbrigliate in vincoli che le fanno impazzire, interni ed esterni, o un problema sociale, di masse da liberare dalla oppressione? Il soggetto della psicosi qual è? Se per definizione la persona non ha potuto diventare soggetto perché attraversato da presenze che lo abitano, da identificazioni patologiche, sappiamo quanto può essere difficile cercare di aiutarlo a mostrare il suo lato sano, le sue potenzialità, che io chiamo virtualità. Ma che fare con un soggetto di massa, politico, con gli ultimi, gli emarginati? Lei dice “mettiamo tra parentesi la malattia e occupiamoci dell’umanità mortificata di queste persone”. Siamo d’accordo entrambi. Ma arriverà un momento in cui dovremo pensare a quello specifico uomo, a quella particolare famiglia. O pensa che liberando tutti dal manicomio avremo automaticamente sconfitto non solo l’ingiustizia sociale ma anche la malattia? E badi, la faccio troppo intelligente e colto per attribuirle una distinzione tra dentro e fuori, sociale e psichico. So bene, come ho imparato da Pichon-Rivière, che il sociale entra nello psichismo, lo plasma. Ma rimane il punto che se non si tiene sempre presente che le cose hanno tanti livelli di complessità e che il difficile sta nel tenere tutto insieme, affrontarle solo sul versante politico è perlomeno semplicistico.

FB: In questo penso che siamo d’accordo, e non mi dispiace. Oltretutto con i partiti non mi sono mai trovato molto, con le persone che fanno buona politica sì, invece. Tenga conto però che la politica, come dice lei, per me è fare, cambiare i rapporti di forza e di potere, restituire i diritti a chi ne è privato o non li ha mai nemmeno visti riconosciuti. Anch’io non so cosa sia la follia. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come la ragione. La società dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece questa società riconosce la follia come parte della ragione e crea il manicomio per tenerla rinchiusa e la psichiatria per giustificare questa operazione. Il problema è come superare la follia istituzionale e riconoscere la follia là dove essa ha origine, nella vita (CB Fogli, p. 8).
JGB: Bell’utopista, non c’è che dire… Mi sa che io lo sono ancora più di lei però. Per me la psicoanalisi multifamiliare è un modo di pensare la psichiatria e di curare il paziente grave, ma non solo. Va esteso dai pazienti a tutti i partecipanti anche senza un’istituzione che li contenga. È una riunione in cui le persone si integrano in un dialogo, e quello che avviene è una conversazione che fa crescere tutti (PMF, p. 60). Un modo di cambiare le persone e i rapporti fra loro, una crescita collettiva, una liberazione dalle interdipendenze malsane che fanno ammalare e dar luogo a nuove identificazioni più sane. Le persone non saranno libere finché non saranno in grado di entrare liberamente in relazione con gli altri e di pensare da soli, inclusi i conduttori… (PM, p. 82). E la presa di coscienza degli aspetti dolorosi sepolti nell’anima umana deve avvenire in un contesto di solidarietà! (PM, p. 83) Questo è il mio sociale!

FB: Sa cosa mi ricordano le sue parole? Quello che diceva Henry Ey a proposito della psicoterapia che lui chiamava attiva, che deve essere indirizzata a ciò che resta della personalità premorbosa, all’elemento illeso che è pur sempre presente nella nuova personalità dell’ammalato (SFB I, p. 33). E poi la priorità dell’incontro con l’ammalato, in cui si fonde l’unità del medico e del malato formandone una nuova, che sarebbe la relazione. Sarà che io mi sono formato sugli psichiatri fenomenologi ed esistenziali e che lei è vissuto in Francia…

JGB: Non conosco il tedesco tanto bene da poter leggere in originale Ludwig Binswanger o Viktor Emil von Gebsattel, ma sia le traduzioni che i testi dei francesi sono stati il mio pane: erano una risposta raffinata e colta all’organicismo che imperversava… insieme a Freud e alla psicoanalisi, ovviamente.
FB: Se parliamo di passioni torniamo a Sartre. Pur non essendo uno psichiatra, anzi forse proprio per questo, ha messo in ordine molti miei pensieri. Anche gli psichiatri fenomenologi ed esistenziali dopo tutto non hanno cambiato molto nei fatti: filosoficamente preparatissimi, ma nella pratica, dei nichilisti della cura. L’idea che l’uomo, alienato e non autentico, non sia libero e che però ha sempre davanti a sé una scelta possibile di libertà, un progetto, la devo a lui. La psichiatria, come studio della patologia della libertà che accomuna tutti, malati diagnosticati e persone che vivono il condizionamento delle cose, dell’oggettivazione da parte degli altri, delle relazioni che lo legano: praticamente tutti noi che ne siamo a rischio… (SFB I, p.227).

JGB: Pensi che voleva dire per me a trent’anni, argentino sentir parlare in questi termini…

FB: E per me, italiano, che avevo di fronte una società e una psichiatria ben più arretrate di quella francese… D’altra parte forse siamo stati aiutati dai nostri contesti carenti a reagire con il recupero della dimensione umana…

JGB: Mi levi una curiosità. Gliel’ho già chiesto prima ma mi ha risposto in modo un po’ astratto. Ora che è riuscito a chiudere i manicomi, cosa farà? Come verranno curati i matti che non saranno più reclusi e internati? Ha qualche idea, immagino…

FB: Intanto c’è da tirare fuori tutti quelli che sono ancora nei manicomi. E poi ci stiamo attrezzando, siamo in un periodo di transizione, l’assistenza psichiatrica fuori dall’ospedale e senza l’ospedale è molto più difficile: bisogna creare un’organizzazione nuova… (CB, p. 221). C’è il rischio che si facciano strada le tecniche e prendano il sopravvento fornendo nuove risposte parziali di tipo istituzionale, il pericolo che in una situazione apparentemente rinnovata ci sia sempre il pericolo di riproporre una forma di controllo assistenziale (SFB II, p. 474), che si creino nuovi pazienti assoggettati ai “buoni”, che saremmo noi che li abbiamo tirati o tenuti fuori dal manicomio, che regrediscano rispetto alla conquista della libertà personale e si produca una sorta di “istituzionalizzazione molle” (SFB I, p.256). Insomma, che venga meno quella tensione reciproca che rende la relazione tra operatori e pazienti autentica, perché sfida e mette in discussione entrambi e rompa i legami di autorità e di paternalismo, causa fino a ieri di istituzionalizzazione (SFB I, p.257). Sa, abbiamo aperto tante contraddizioni su cui dobbiamo riflettere e io, molto probabilmente… non ho le armi per farlo… (SFB II, p. 483). Certo, senza avere alle spalle l’ospedale psichiatrico cambia tutto e altre contraddizioni verranno fuori…

JGB: Se posso darle un suggerimento, non lasci indietro gli operatori: sono loro che cambiano le cose e vanno curati, stimolati, coinvolti. Non è un mondo in cui sia facile dimostrare l’utilità pratica di ricorrere all’incontro umano e al dialogo per risolvere i problemi (PM, p. 26). Lei e io crediamo nel cambiamento psichico e nella possibilità di modificare per via relazionale gli stati psicotici. Due illusi, forse: con i grandi risultati raggiunti in medicina, favorita da precisi interessi commerciali, si è sviluppata una concezione della psichiatria che si avvale fondamentalmente della psicofarmacologia, lasciando da parte l’incontro umano e la comprensione dinamica di ciò che accade nell’anima dei pazienti e dei familiari (PM, p. 26). Ci stiamo battendo contro due forme di reclusione, quella sociale dell’internamento e quella psichica dell’indifferenziazione. Lei è riuscito a chiudere i manicomi, ma, come dice lei, altri se ne potranno aprire, magari meno brutti ma altrettanto violenti nella sostanza. Io non ho chiuso gli ospedali ma ho aperto alla società il mio approccio alle persone, alle famiglie, alle comunità: la diversità dei punti di vista può arricchire la mente e può coesistere in un gruppo o anche nel mondo interno di ciascuno (PM, p. 243). Per me questa è la liberazione…

FB: Bisogna fidarsi dei pazienti, dare loro il potere della parola e del valore della loro vita. E anche accettare di non capire, di non sapere dove andare, di stare nell’incertezza perché l’incertezza è una perturbazione vitale.

JGB: Incertezza dice? Ma quella di cui parla somiglia alla mia incertidumbre. Mi viene quasi il dubbio che mi abbia plagiato…

FB: Sa, quando ci mettiamo di fronte a un problema così grande come la follia degli esseri umani possiamo solo essere modesti, accettare che non sappiamo cosa possa avvenire se entriamo veramente in contatto con quelli che soffrono. Io penso che così facendo si abbattono i confini tra la normalità e la follia, che non sono poi così rigidi se leviamo gli effetti del manicomio. Se le persone accettano un poco della loro follia, anche i folli potranno accettare la loro normalità…

JGB: Che fa, mi cita di nuovo? È quello che io chiamo virtualidad sana, lo sa? Delle due una: o lei mi copia o siamo anime prossime, spiriti vicini che vedono dove molti altri non vogliono vedere… Per me questa è la strada per la liberazione…

Il nastro termina qui, con quest’ultima, evocativa, parola di Badaracco. La bobina era esaurita e non sappiamo se i due si siano detti altro. Franco Basaglia, come noto, non visse ancora a lungo dopo quell’incontro e morì nell’agosto del 1980 di un tumore cerebrale che senz’altro stava già iniziando a minarlo in quel novembre dell’anno precedente. Jorge Garcia Badaracco gli è sopravvissuto a lungo ed è deceduto nel settembre del 2010 a 84 anni. Erano coetanei. La storia non si fa con i “forse” ma è lecito immaginare che questa conversazione, che grazie a uno di quegli scherzi di cui essa è capace abbiamo imprevedibilmente condiviso, avrebbe avuto un seguito. E noi, non sempre consapevoli, di quel seguito siamo parte.

Epilogo

Molti colleghi, dopo avere letto la bozza di questo lavoro, o ascoltato una delle due rappresentazioni che abbiamo tenuto a Roma e a Madrid, ci hanno chiesto di più su questo incontro segreto. Non avevano neanche lontanamente compreso che è frutto della nostra fantasia e che abbiamo provato a mettere in comune, per le nostre reciproche storie, due vicende che si sono incontrate come conseguenze di fatti, non nella realtà. Questa ingenua credulità dapprima ci ha fatto pensare che forse non conoscevano a fondo le vere storie di Basaglia e Badaracco, ma poi, ancor di più, che molti operatori sono ancora disposti a sorprendersi, a imparare, a credere vere cose impossibili. Questo è stato un dono che entrambi i nostri “Ba” ci hanno lasciato. Trovarlo ancora presente in mezzo a noi ci fa ben sperare nel futuro.

Bibliografia e testi da cui sono tratte le citazioni
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