Prof. Emilio Maura, Dr. Stefano Pirrotta
Il periodo in cui si è praticata prevalentemente la psicochirurgia va dalla fine degli anni ’30 all’inizio degli anni ’60 e si ritiene che abbia coinvolto circa centomila pazienti di ogni età, sesso e stato sociale (si conoscono casi documentati di dodicenni sottoposti a lobotomia ed è noto, come vedremo, che fu praticato alla sorella del presidente Kennedy).
Sebbene già nel 1880 in Svizzera, Gottlieb Burckhardt eseguisse interventi sul lobo frontale e, nel 1890 Sarles avesse praticato lobotomie in sei pazienti in un ospedale psichiatrico elvetico attraverso fori nel cranio e asportazione di parte dei lobi frontali con risultati assai modesti (un paziente morì subito dopo l’intervento e un altro si suicidò), il vero fondatore della pratica della lobotomia fu Egas Moniz, tecnica per cui fu insignito del premio Nobel in Medicina con il neurofisiologo Walter Rudolfhess.
La lobotomia consisteva nell’interruzione dei rapporti tra talamo e lobo frontale prima praticata con iniezioni di alcol e poi con il bisturi. Egas Moniz concepì questa pratica sia dopo aver ascoltato il grande e noto neurofisiologo John Fulton presentare alla Yale University i risultati dell’ablazione chirurgica dei lobi frontali in scimpanzé, sia avendo studiato con attenzione molti soldati feriti ai lobi frontali durante la prima guerra mondiale.
Antonio Caetano de Abren Freire Egas Moniz nacque ad Avanca il 29 novembre 1874 da una nobile famiglia di Lisbona e il padre aggiunse al suo nome quello di un eroe nazionale Egas Moniz. Studiò medicina all’università di Coimbra e si laureò nel 1899. Tre anni dopo gli venne conferita la docenza con una tesi sulla “Vida sexual” che poi pubblicò ed ebbe ben diciannove edizioni; si specializzò in seguito in neurochirurgia a Bordeaux e Parigi. Nel 1902 tornò in Portogallo per dirigere il dipartimento di neurochirurgia, partecipò alla guerra d’indipendenza del Portogallo, fu eletto al parlamento portoghese (1903-1917) e poi fu ministro degli esteri dal 1918-1919, rappresentando il Portogallo nelle trattative diplomatiche che portarono al trattato di Versailles. Dal 1921 si dedicò solo alla medicina come professore Neurologo all’Università di Lisbona (1921-1944) e nel 1927 sviluppò per primo la tecnica dell’angiografia per cui gli venne conferito il prestigioso premio Oslo.
La lobotomia frontale come proposta da Moniz ed effettuata dal suo associato Almeida Lima, era un intervento neurochirurgico a tutti gli effetti con apertura del cranio che richiedeva pertanto ricovero, operazione e assistenza da parte di personale specializzato in reparti dedicati ad interventi endocranici assai rari a quei tempi. Tutto ciò, insieme alla rigorosa scelta dei pazienti, limitò questa pratica in Europa a un numero non vistoso di pazienti al contrario degli Stati Uniti dove il fenomeno fu più diffuso e applicato indiscriminatamente, come vedremo in seguito. Al momento del conferimento del premio Nobel, il 10 dicembre del 1949, il più conosciuto e stimato neurochirurgo del mondo, il Professor Herbert Olivecrona, in presenza dei Reali di Svezia, nella sua laudatio lo esaltò affermando: “Le linee di pensiero lungo le quali Egas Moniz ha scoperto la lobotomia prefrontale si riferiscano alla localizzazione di certe funzioni psichiche nel cervello. È noto da molto tempo che i lobi frontali sono di grande importanza per l’attività cerebrale superiore, specialmente per le emozioni, e che la distruzione dei lobi frontali, per traumi o tumori cerebrali, induce cambiamenti della personalità, sul piano affettivo soprattutto, ma talvolta anche agendo sull’intelletto, specialmente sulle funzioni di alta integrazione, come la capacità di giudizio e l’adattabilità sociale. Il fisiologo americano John F. Fulton e i suoi collaboratori hanno dimostrato sperimentalmente nelle scimmie che nevrosi indotte si risolvano se si tolgano i lobi frontali e non si sviluppano in animali deprivati di questa parte del cervello. È toccato a Moniz scoprire che patologie psichiche accompagnate da tensione affettiva possono essere guarite distruggendo nell’uomo i lobi frontali o le loro connessioni con altre parti del cervello. Da allora Moniz ha sviluppato un metodo operatorio per interrompere queste vie di collegamento dei lobi frontali come il resto del cervello. Poiché queste vie corrono nella sostanza bianca, l’intervento è stato denominato Leucotomia frontale o prefrontale e si è subito visto che le condizioni patologiche in cui la tensione emotiva era parte dominante del quadro, reagiscono molto positivamente all’intervento. Tra questi quadri sono compresi principalmente stati depressivi con paure e ansietà, nevrosi ossessive, certe forme di mania persecutoria e una parte considerevole delle manifestazioni della più comune e importante malattia mentale la schizofrenia…… la leucotomia frontale, al di là di certi limiti della tecnica operatoria, deve essere considerata una delle più importanti scoperte mai fatte nella terapia psichiatrica, poiché attraverso essa un gran numero di malati sofferenti e completamente invalidati sono guariti e sono stati socialmente riabilitati”.
Moniz morì il 13 dicembre 1955 dopo essere stato reso tetraplegico da un colpo d’arma da fuoco ricevuto da un paziente da lui leucotomizzato.
Come dicevamo il numero di operazioni svolte fu abbastanza limitato per la complessità tecnica di apertura del cranio ma le cose cambiarono sostanzialmente quando questo intervento poté essere fatto senza apertura cranica ma passando attraverso l’orbita. Per la sua facilità questa tecnica fu poi applicata anche da psichiatri o medici non specialisti diffondendone soprattutto negli Stati Uniti una pratica assai popolare, disinvolta e non giustificabile dall’assenza di altre terapie efficaci.
Le pratiche della lobotomia, malgrado, ad esempio, Vitaliano Emilio Rizzati (dell’Ospedale Psichiatrico di Racconigi nei pressi di Torino) avesse già nel ’37 a suo carico 200 lobotomie di cui peraltro formulò un giudizio non entusiasta a differenza di altri studiosi, si diffusero in modo capillare quando, su proposta di Fiamberti, si incominciò a raggiungere l’encefalo non più attraverso la craniotomia ma passando attraverso l’osso orbitario. Questa tecnica “molto più semplice e rapida” per dirla con lo stesso Fiamberti “poté essere svolta non più dai pochi neurochirurgi disponibili in reparti neurochirurgici ma un po’ ovunque anche dagli psichiatri negli ospedali psichiatrici”. Adamo Mario Fiamberti nato il 10 settembre 1894 a Stradella, dopo essersi impegnato nel calcio (militò nelle file del Torino 1914), si laureò in Medicina il 20 luglio 1920.
In seguito fu ammesso alla scuola di neuropatologia di E. Medea presso gli Istituti Clinici di perfezionamento di Milano e conseguì la libera Docenza nel 1931 in Clinica delle Malattie Nervose Mentali e dopo esperienze in vari manicomi, fu nominato nel 1937 Direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Varese dove rimase fino al ’64 quando andò poi in pensione. Fu uno degli iniziatori delle terapie di shock e propose la terapia a base di acetilcolina che peraltro ebbe poca fortuna per la dolorosità della stessa e le frequenti complicazioni mediche. Al contrario maggiori successi e riconoscimenti ebbe la sua proposta di sostituire la leucotomia transcranica con quella transorbitaria, idea che ebbe assistendo alla ventricolografia cerebrale praticata da A. M. Dogliotti mediante una puntura transorbitaria con un ago introdotto nel corno frontale del ventricolo, passando attraverso il centro ovale del lobo pre-frontale.
Perfino il noto psicologo Antonio Miotto che nel 1950 assistendo a un intervento di psicochirurgia ne avesse esaltato la sua efficacia, nonostante le basi teoriche di queste operazioni erano già state criticate fin dal 1937 da M. Gozzano, figura significativa della Psichiatria Italiana. Successivamente un’ampia valutazione del problema fu presentata al XXV congresso Nazionale della Società Italiana di Psichiatria a Taormina nel ’51 nel quale la Psicochirurgia era stata scelta come primo tema di relazione e Fiamberti fu uno dei tre relatori ufficiali. Questa nuova “facile” tecnica di intervento endocranico fece sì che tale pratica si diffondesse rapidamente al di fuori di ogni contesto rigoroso e fosse condotta in situazioni medicalmente inopportune e in casi poco selezionati, soprattutto negli Stati Uniti, dove ci fu una specie di epidemia che coinvolse anche Rosemary Kennedy sorella di J.F. Kennedy che all’età di 33 anni fu sottoposta a lobotomia a seguito delle lamentele del padre con i medici per gli sbalzi di umore della figlia e per il suo eccessivo interesse per il sesso. Si ha notizia di pazienti molto giovani lobotomizzati come il caso di Howard Dully che fu operato all’età di dodici anni. Anche l’attrice di Hollywood Frances Farmer dopo una vita di eccessi e dopo essere stata sottoposta a vari trattamenti psichiatrici, venne lobotomizzata al Western State Hospital negli anni ’40. Vi sono peraltro tracce di questa pratica in molti films, ad esempio “Improvvisamente l’estate scorsa” del ’59, “Qualcuno volò sul nido del cuculo” del ’65 e “Il pianeta delle scimmie” del ’68. Protagonista e promotore di quest’ondata di lobotomie negli Stati Uniti fu Freeman.
Walter Jackson Freeman nacque il 14 novembre del 1895 a Filadelfia in Pennsylvania. Dopo la laurea in Neurologia alla Yale University fece un viaggio in Europa, dove, per via della guerra, si erano sviluppate le più avanzate ricerche e programmi di sviluppo nella Neurologia Clinica e Neurochirurgia Clinica. All’inizio andò a Parigi, alla Salpêtrière, un’istituzione neurologica fondata come ospedale nel XVII secolo dove lavorava Jean Martin Charcot famoso già all’epoca per i suoi studi sulla neuro-psichiatria. Arrivato poi a Roma seguì gli studi di Giovanni Mingazzini, fondatore della Clinica Psichiatrica di romana, professore di Neurologia e Psichiatria all’Università della stessa città. Approfondì l’analisi della struttura del sistema nervoso studiando soprattutto l’anatomia del cervello sugli animali: una delle più fruttuose esperienze gli venne dall’autopsia di un elefante morto in uno zoo. Nel 1924 scrisse un articolo sull’anatomia del sistema nervoso, pubblicato inizialmente solo su un giornale estone, e successivamente rivalutato e mandato in stampa dal Journal of Nervous and Mental Disease. Freeman Incontrò al Congresso Internazionale di Neurologia a Berna, in Svizzera, Ivan Pavlov famoso per le sue ricerche sul condizionamento classico negli animali. Quattro anni dopo, al secondo Congresso Internazionale di Neurologia a Londra, numerosi luminari, tra cui nuovamente Pavlov, influenzarono gli studi di Freeman. Il congresso fu incentrato sulle nuove scoperte relative alla funzione specifica che i lobi frontali potessero assumere nelle attività cerebrali. Freeman venne a conoscenza anche delle esperienze dell’italiano Fiamberti di accesso al lobo prefrontale attraverso l’occhio che gli furono di ispirazione per la sua lobotomia transorbitale. Nel 1926 ottenne la cattedra di neuropatologia alla George Washington University dove insegnò fino al 1953. Nel novembre del 1935 mise a punto definitivamente la lobotomia transorbitale, intervento che consisteva nel raggiungere i lobi prefrontali attraverso i dotti lacrimali con un punzone di ferro, chiamato in gergo rompighiaccio, dalla cui punta usciva un piccolo bisturi che doveva praticare l’incisione. Il punzone veniva spinto attraverso un martelletto fino a raggiungere la corteccia prefrontale. Freeman, con l’ aiuto di Watts, iniziò a ripetere l’operazione inizialmente su dei cadaveri, poi il 14 settembre del 1936 i due medici operarono la prima paziente, Alice Hood Hammatt, riproducendo l’operazione con relativo successo. Freeman sviluppò le sue conoscenze sulla psicochirurgia grazie anche al neurochirurgo James Wiston Watts conosciuto nel 1935 alla conferenza dell’American Neurological Association con il quale condivise i suoi interessi per la nascita di una nuova tecnica praticata sul sistema nervoso. L’innovazione di Freeman fu anche l’uso della terapia elettroconvulsiva come anestesia nella pratica della lobotomia transorbitale.
Tale pratica una volta messa a punto permise un gran numero di interventi ambulatoriali della durata di circa sei minuti. Il dr. Freeman per spostarsi nei vari stati americani utilizzava un’automobile che divenne famosa come “lobotomobile” e sulle “avventure” di Freeman venne prodotto un film dal titolo: Lobotomobile, regia Sara St. Onge. Era un medico ambizioso e paradossalmente idealista e si ritiene che un quarto delle lobotomie svolte nel mondo furono praticate da Freeman. La sua fama, anche scientifica, fece sì che gli venisse affidata la redazione del capitolo di psico-chirurgia all’interno del trattato di Psichiatria di Arieti, uno dei più famosi e letti negli Stati Uniti e tradotto anche in italiano da Bollati Boringhieri.
Freeman, ambizioso e paradossalmente idealista volendo risolvere molti problemi della psichiatria attraverso l’uso della lobotomia transorbitale si rese protagonista di uno dei procedimenti medici più crudeli e diffusi del XX secolo.
All’inizio degli anni ’60 un utilizzo più razionale e medicalmente corretto dell’elettroshock e lo sviluppo degli psicofarmaci portarono prima una critica e poi al discredito delle pratiche di lobotomia. A seguito di un incidente accaduto ad un paziente a Freeman venne ritirata la licenza per praticare questi interventi. Lo stesso dedicò gli ultimi anni della sua vita ad un’opera di catamnesi dei suoi pazienti operati andando a sincerarsi delle loro condizioni cliniche.
Walter J. Freeman morì di cancro al colon nell’estate del 1972.
Gli interventi di leucotomia diminuirono velocemente fino a terminare negli anni ’60 (se ne fecero ancora solo nei casi di sindromi ossessive gravissime) come pure andarono a diminuire drasticamente le tecniche elettroconvulsivanti. Il nuovo approccio socioterapico, psicologico- psicodinamico e psicofarmacologico, si impose decisamente nel nuovo panorama psichiatrico. Ma la psicochirurgia è del tutto insensata? Interventi puntuali , mirati e limitati sono utili e si praticano oggi? Si può prevedere l’apertura di nuove aree e nuove tecniche in cui la psicochirurgia possa essere utile?
Questa è un’altra storia e ne parleremo un’altra volta.
Complimenti agli autori dell’articolo; sicuramente una storia di un certo fascino, oltre che di un’ovvia importanza scientifica, attenderò il seguito…