Ho letto il volume di Paola Pizza “Vestire l’inconscio”. E’ un testo che si riferisce specificamente alla moda: ma è riflessione che va al di là di questo specifico ambito, interessando quello più ampio del significato del vestirsi. Per Shakespeare l’abito rivela l’uomo. Ciò interessa, è chiaro, l’operatore della salute mentale, poiché il paziente con la scelta individuale dell’abbigliamento può offre una via di approccio. Certo, l’abito può essere al contrario una corazza volta a celare più che a svelare; scelta che tuttavia a suo modo ci offre un possibile approccio di comprensione.
La scelta e composizione dell’abbigliamento è qualcosa che si apparenta alla creazione artistica: accostamento legittimo se confrontato con la totale libertà di espressione, di contesti e di mezzi rivendicata dall’arte attuale che – specie quella concettuale – è giunta a riconoscere lo status di “opera” alla mera esibizione di un oggetto di comune uso. Il pittore olandese Van Genk, dalla vita tormentata già in ambito familiare e poi ad opera della Gestapo, nonchè portatore di sofferenza mentale variamente definita come autismo o come vera schizofrenia paranoide, ha utilizzato gli abiti collezionando cappotti ed esibendoli in una mostra, a quanto pare rievocando proprio quelli della Gestapo. Incontestabile poi la qualifica di creazione riconosciuta agli abiti che Giuseppe Versino ha realizzato con stracci raccolti in qualche modo durante il suo prolungato ricovero nel manicomio di Collegno, e attualmente esposti nel Museo di Antropologia di Torino.
L’abbigliamento del paziente è dunque – non diversamente dalla sua eventuale creatività propriamente artistica – legittimo oggetto di nostra attenzione antropologica e psicologica. Ciò, anche in ambito residenziale, da quando – ormai da molti decenni – è divenuto un relitto del passato l’uso dell’uniforme, quella che definiva il suo portatore come paziente mentale, tagliando i riferimenti alla sua persona; nonché dell’altra uniforme, la cappa bianca che ci definiva come soggetti curanti in assenza di una reale motivazione igienica.
L’uomo si è sempre vestito, in un modo o nell’altro: è un aspetto fondamentale della sua specificità fra gli animali. Scrive James Laver: “gli abiti sono inevitabili. Essi non sono altro che la struttura della mente resa visibile”. Inevitabili, certo, per noi esseri fondamentalmente culturali: anche quei pochi uomini tuttora “primitivi” che usano andare nudi caratterizzano il corpo con qualche aggiunta, spesso con significato sessuale: orecchini, collane, piercing, dischi labiali, astucci penici…
Ritengo eccezione solo apparente il ritorno alla quasi nudità in quel contesto particolare che sono le spiagge. Esso infatti è uno “svestirsi”, che rispetta comunque dettagli volti non a coprire ma ad adornare, e che acquista senso nella contrapposizione all’esistenza e uso degli abiti. E non per caso si tende a supplire alla possibile rinunzia all’abito con artifizi caratterizzanti la persona: ancora piercing e tatuaggi, atti a valorizzare e “personalizzare” quel corpo che Maffesoli – nella corrente di pensiero di Gilbert Durand – definisce “tempio della cultura contemporanea”.
Si è giunti a definire gli abiti come un linguaggio inconscio: è certo che veicolano un messaggio, più o meno consapevole da caso a caso. Esso ha che fare con il problema del narcisismo e dell’immagine di sé, vissuta in modo volta a volta gratificante o tormentoso, e anche offerta agli altri con riferimento pure alle loro presunte o reali attese e richieste. Vestirsi è autopresentazione di sé. espressione del concetto di sé, e del Sè ideale, al servizio della autostima in un variabile grado di adesione o meno alla visione collettiva.
Per inciso, è proprio questa dialettica che si dispiega nella dimensione “moda”: seguirla è un seguire la corrente senza annegarvi la propria individualità. La ricerca di Brand identity è espressione di grandiosità, non di rado difensiva; è esibizione di potere e successo, di originalità voluta e tuttavia conformista. All’estremo opposto possiamo situare la spinta al degrado che manifesta l’abbigliamento di alcuni nostri pazienti, quasi volto a manifestare visivamente la sofferenza .
Può al contrario accadere che l’abbigliamento divenga una maschera atta a negare una realtà interna difforme.
Una chiave di lettura possibile è l “io – pelle” di Anzieu: per lui il contenimento “è l’esperienza di avvolgimento statico del corpo da parte della pelle e dei vestiti”, dopo che dalla pelle simbiotica comune con la madre si passa alla pelle individuale. “La mente si costruisce sulla propria esperienza del corpo”. Accade, diceva Freud, che “lo strato esterno cessa di avere una struttura propria della sostanza vivente, diventa in certa misura inorganico”.
Il contenitore può essere adeguato, o troppo rigido, o troppo rilassato. L’abito che vi si sovrappone come ulteriore contenitore può correggere queste caratteristiche o, al contrario, sottolinearle.
Può dunque essere uno dei mattoni della autocostruzione del Sé.
Gli abiti possono fornire: consistenza, intesa come stabilità dell’immagine; costanza nel confronto con un ambiente mutevole (ovviamente anche nella temperatura); essere un supporto all’individuazione. Costituiscono un significante che rimanda a significati; esprimono creatività. Superfluo ricordare il ruolo nell’incontro sessuale.
Abito può esser definito come un manifesto da indossare, ciò che implica un rapporto fra l’aspetto individuale e quello di appartenenza al gruppo, con prevalere dello stile sociale oppure di quello individualista.. Tale rapporto si declina variamente in certi aspetti particolari: nella moda e in quel tentativo di cancellare la dimensione individuale che è l’uniforme.
Un argomento molto interessante grazie per il commento e la segnalazione di lettura! Condivido appieno l’idea dell’abito come manifesto da indossare….fa riflettere su come la creatività nel vestirsi passi tutt’oggi attraverso varie occasioni e possa offrire importanti opportunità di comunicazione nelle diverse età della vita.