Commento all’articolo apparso su “La Repubblica” – sezione Cultura – il 09/03/2023
Nei giorni in cui Ijeoma Oluo, 43 anni, attivista, scrittrice e giornalista americana presentava a Roma la traduzione italiana del suo libro “E così vuoi parlare di razza?”, Tlon editore, pubblicato in America nel 2018 e salito in vetta alle classifiche USA nel 2020, dopo la drammatica morte di George Floyd, (Repubblica del 10-03-23, Il razzismo che è in noi, di Anna Lombardi), una voce nella metropolitana di Roma avvertiva i passeggeri di stare “attenti agli zingari” e sui giornali venivano riportati episodi di offese razziste e dichiarazioni stigmatizzanti.
Nel libro di Ijeoma Oluo il tema del razzismo è proposto su due piani: quello di grande evidenza, i bianchi e i neri, la supremazia del bianchi sulle minoranze di colore, e quello sottostante e largamente diffuso, delle quotidiane manifestazioni di pregiudizio e di intolleranza.
Per Ijeoma Oluo il termine “razza” non va inteso in senso scientifico-biologico, ambito in cui l’esistenza di “razze” è stata ampiamente confutata; va inteso invece nel senso di categoria politica, sociale e culturale di oppressione: il concetto sistemico di razza che genera il razzismo.
Dal ricco e stimolante libro colgo tre punti.
Partirei dall’osservazione di Ijeoma Oluo, figlia di madre bianca e di padre nigeriano: «Quante volte avete sentito la frase “Non sono razzista, ma…”?. Ebbene, è proprio allora che bisogna preoccuparsi ».
Forse la sospensione rimanda alle evidenze comunemente rilevate di differenziazione: “gli zingari rubano”, “i meridionali non lavorano”, “i matti sono pericolosi”. Completerei invece la battuta in questo modo: ”ma… come posso essere sicuro di non esserlo?”. Sulla dimensione psicologica dell’intolleranza e del pregiudizio nei riguardi del diverso, dell’altro, ho ben poco da aggiungere a quanto è già stato scritto da Freud (Il perturbante, Pulsioni e loro destini, in particolare) in poi.
Il sentimento di estraneità, di incontro con un “altro”, può essere avvertito anche guardandosi dentro, come scrive D. Anzieu (Il pensare, Borla, Roma, 1996): “Il mio vero sé è l’altro dentro il quale io sono”. Il timore dell’altro è sia l’attivarsi della sensazione dell’esporsi ad un pericolo esterno, sia l’attivarsi dentro di noi di paure nascoste, sottostanti, il rimosso che ritorna. La distinzione è importante e ne abbiamo fatta tutti un’esperienza viva quando, sull’onda delle emozioni suscitate dalla guerra vicina, sono state spalancate le porte ai migranti ucraini, europei, bianchi, cristiani, vittime di un nemico da sempre sospettato di essere nemico comune a noi, mentre si continuava a contrastare la minaccia di “invasione” per gli sbarchi di profughi diversi da noi, generalmente musulmani, dal medio oriente o dall’Africa.
Il secondo punto è la risposta di Ijeoma Oluo alla domanda su come si possa uscire dal razzismo. Ijeoma Oluorisponde: “Ascoltando chi non si sente rispettato abbastanza. Solo comprendendone le ragioni possiamo aspirare a cambiare i nostri comportamenti”. Trovo questo approccio valido non solo sul piano culturale e sociale nella prospettiva di andare verso il superamento del distanziamento e della discriminazione, ma sovrapponibile alla strategia di superamento dello stigma verso i pazienti psichiatrici . E’ il punto di vista di chi vuole favorire l’accoglimento e la cura dei pazienti. In questo campo sappiamo come sia proprio la stessa psichiatria classificatoria, tendente ad oggettivare il paziente, a dargli un nome, un’etichetta, a favorire la stigmatizzazione.
Dire al paziente “io so come sei fatto e di cosa hai bisogno”, “sei un bipolare”, mantiene le distanze, le differenze, il mondo dei sani e quello dei malati. Etichettatura e distanziamento oggettivo sono le basi dello stigma, utilizzano lo stesso modello di pensiero che si estende fino alle identificazioni razziali. Il problema della cura in Salute Mentale è esattamente l’opposto, favorire l’ascolto, sostenere la soggettivazione “sana” e contemporaneamente la socializzazione. Le esperienze di dolore e di sofferenza non si conoscono a priori, ma si possono comprendere, condividere, attraverso il coinvolgimento e il rispecchiamento negli altri.
Infine il tema della “intersezionalità” proposto nel 1989 dall’attivista e giurista statunitense Kimberlé Crenshaw, e ripreso da Ijeoma Oluo nel riflettere sui conflitti che si generano tra le donne di colore quando non si accordano con le femministe bianche. Il problema del femminile non può restare chiuso in se stesso perché si interseca con altri problemi, in primis quello razziale. Non è l’approccio “combattiamo assieme per lo stesso obiettivo” che garantisce il superamento della discriminazione, perché nega una delle radici delle differenze. Anche questa evidenziazione rimanda al lavoro in Salute Mentale, quando si prendono in considerazione le forze esterne al paziente, familiari e sociali, che sostengono il suo stare male mentre affidano a lui e ai curanti la totalità della cura. Si tratta di forze fusionali e simbiotiche, che immobilizzano, e di forze che, in direzione opposta, allontanano attraverso la negazione e il rifiuto.
Nel lavoro per la Salute Mentale ho imparato a distinguere quello che si può fare sul piano delle denunce, delle manifestazioni, delle dichiarazioni, il piano pubblico, impersonale, da quello che si muove in chi incontra la follia, i curanti, i pazienti, i familiari. L’obiettivo di un superamento delle differenze oggettivanti passa attraverso il sostegno e la diffusione di contesti di ascolto senza preconcetti, di dialogo aperto, di costruzione di esperienze condivise di contatto con il mondo sottostante alle espressioni di follia. Il piano visibile, la pelle nera, è quello del ritiro autistico, del delirio, delle allucinazioni, dell’isolamento tossicomanico, mentre quello sottostante, comune a tutti, è quello dell’inaccettabile, del dolore.
Andare oltre la stigmatizzazione del “matto” significa sapere ascoltare quello che da lui, faticosamente viene detto. Per questo il pensiero per la formazione all’ascolto senza pregiudizi va in primo luogo all’esperienza che si fa nei Gruppi di Psicoanalisi Multifamiliare, contesto sociale dove si entra per imparare e dove tutti possono introdurre la propria soggettività senza pensare di farla prevalere.
Dove si costruisce una divisione netta tra gli uomini nasce il diritto di difendersi e di difendere il proprio clan. Dividere l’umanità in categorie, razziali, medico-diagnostiche, sociali, economiche, genera sempre il diritto all’autodifesa. Per questo gli zingari rubano, i pigmei si ubriacano, i matti non si lavano e i barboni offendono il decoro. E’ loro diritto e si difendono dagli Altri.
Quando si affacciò la critica alla psichiatria categoriale, dopo che il DSM III (e seguenti) aveva invaso le menti degli psichiatri di tutto il mondo, molti pensarono ad una liberazione dagli steccati rigidi e dalle assurde soluzioni nas (non altrimenti specificato). Ma per vedere, pensare in modo dimensionale bisogna che sia fatto un passaggio universale. Ha ragione Luca Zuppi. Il grande gruppo di psicoanalisi multifamiliare potrebbe essere la cura sociale per promuovere la singolarità. Diceva Garcia Badaracco: nella singolarità non c’è mai la malattia. Io ci ho messo diversi anni per capire a fondo cosa volesse dire. Ma sono certo che tanti ci arriveranno molto prima di me.
Razzismo, allora, è anche esercizio del potere per il potere; incapacità di ascoltare le ragioni altrui, rifiuto delle differenze, difesa dei privilegi.
La natura umana, direi.