Che ci stanno a fare psichiatri, psicologi, psicoterapeuti, tecnici della riabilitazione psichiatrica in una Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza?
Niente pensavo, forte della mia esperienza di oltre trentacinque anni trascorsa nell’organizzare comunità terapeutiche per pazienti psichiatrici con gravi patologie.
Eppure…
Mi sono trovato coinvolto nell’organizzare quella ligure su input della regione Liguria e del Suo Presidente, sollecitato a sua volta dall’allora commissario straordinario governativo per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, on. Corleone.
L’ho fatta utilizzando una struttura pensata come comunità terapeutica da dedicare ai pazienti psichiatrici autori di reato e per questo considerati incapaci di intendere e volere e quindi non imputabili; l’avevamo inaugurata, tra l’altro, con la presenza dell’on. Marino che al tempo si era dedicato molto al problema.
Gli ospedali psichiatrici appunto; istituzione che almeno nel titolo faceva riferimento alla terapia (l’ospedale fa questo), anche se presto si era evidenziato che erano peggio del carcere perché spesso chi entrava non sapeva bene (a differenza del carcere), se e quando sarebbe uscito; altro che “la libertà è terapeutica “!
Nell’ultimo convegno che ho organizzato a Genova con illustri colleghi si è evidenziato, come ben sottolineato da Grazia Zuffa, l’esistenza di due impostazioni d’intervento all’interno di queste ormai note Rems; in breve, una che tende alla cura rifacendosi all’esperienza della comunità terapeutica e le sue quattro co… ( comprensione, condivisione, confidenza, compassione), ed una che tende alla custodia e alla relativa sicurezza sociale cercando, appunto, di eseguire le misure di contenimento opportune.
Ritengo che entrambe abbiano ragione di essere, ma che tra loro dev’esserci un dialogo intenso ed una condivisione, comunque di un progetto unitario: se la persona (sottolineo il termine), interessata al provvedimento si trova nella struttura perché affetta da una patologia psichica, allora, non può che essere ribadito il primato della cura che nella sua accezione più ampia e corretta prevede una presa in carico di tutti gli aspetti che determinato la stessa; la ormai usurata dizione BIOPSICOSOCIALE anche se, forte della mia esperienza, invertirei l’ordine dei fattori, ovvero sociali, esistenziali, etnici, psicologici e biologici.
Ho potuto apprezzare, attraverso il dialogo diretto e mediato, l’intelligenza e la collaborazione del mondo che è deputato al giudizio; abbiamo avuto occasione di apprendere e limitarci nei nostri propositi onnipotenti, meno mi sono piaciuti gli aspetti formali e burocratici che hanno generato protagonismi inutili, se non dannosi e contrapposizioni sterili.
La Rems, spero si cambi nome, non dev’essere un corpo estraneo isolato e alieno dall’organizzazione sanitaria complessiva, dev’essere inserita utilmente nel territorio in cui insiste e aperta alla sperimentazione di nuovi modelli relazionali condivisi dalle parti: quindi bisogna comunicare in modo circolare e coerente con i principi che la terapia di comunità ha espresso in oltre 70 anni di pratica di terapia di gruppo.
Essere aperta e visibile, oltre che vivibile, ed affrontare il problema della violenza (ne parlerò con Pietro al convegno dal 21 al 23 Aprile ad Alghero, consultate il programma), che appartiene sia alle istituzioni totali, delle quali rischiamo di far parte, che ai pazienti in una miscela che può confonderci.
Ho imparato e insegnato che dalla contrapposizione simmetrica e schematica tra cosiddetti sani e cosiddetti matti, si alimenta solo l’incomprensione e la conseguente esclusione e sopraffazione un poco come avviene in guerra, mentre da un atteggiamento complementare come avviene ad esempio nella psicoanalisi multifamiliare, che usiamo come stile di lavoro in tutte le comunità del nostro gruppo, deriva la possibilità di detendere le tensioni, alimentare la capacità, di nominare le emozioni e in definitiva di dare senso e significato a storie complesse, a volte drammatiche, se non tragiche.
Penso che questa sia una strada da percorrere insieme con coerenza e decisione, senza trascurare o dimenticare alcuno.
Parole che non possono che essere condivise. Ma nessun percorso può essere buono se vi si inseriscono persone diverse da quelle per cui è pensato.
La sanità ( pubblica e privata) è chiamata a rispondere sempre più ad un bisogno che di sanitario ha poco o niente, ma che non vedendo altra risposta converge su di essa fungendo da tampone ad una situazione che si sta facendo via via più insostenibile.
I tamponi come abbiamo imparato in fisiologia si esauriscono se non si argina la causa che li consuma.
Drammatico divario tra il controllo , l’obbligo intendo del controllo, l’obbligo di relazionare sul comportamento, come a scuola, far promuovere o bocciare, e l’arduo obbiettivo di entrare in un rapporto di fiducia speranza con persone già per storia di difficile comprensione sia di se stessi sia degli altri con eredità culturali diverse, storie di vita poco narrabili.
Angoscia rabbia stanchezza sfiducia. Comuni a chi opera e a chi è ‘operato’
Eppure tutto è raccontabile e l’ascolto ti cura …la Rems evidenzia una contraddizione nel compito che si vuol dare agli psichiatri.
Curare non è garantire la sicurezza la normalità al resto del mondo. Curare è avvicinarsi al limite. Per arrivare ad una comprensione più ampia.
Senza perdere la ragione! Cioè il compito di alleviare il dolore non affondare nello stesso. Anche se in modi diversi.
Caro Gianni,
tu parli di Cura, di Persona, di Progetto, di Comunità , di Atteggiamento Complementare..e ne parli coraggiosamente dal luogo estremo, la REMS.
La REMS, vero Cuore di Tenebra dove Bene e Male si confondono come in una stella alla deriva in una galassia senza sole.
REMS, nome ambiguo, dubbio, falso che allude al sogno e non all’incerto, sfuggito dal calamaio di qualche piccolo uomo distratto.
Luogo impenetrabile e incerto, ma nelle tue parole avverto la necessità del riscatto e il richiamo alla comprensione, al senso, al significato ultimo.
Vero, dobbiamo sempre parlare anche a chi non ascolta ( il burocrate di turno: ricordi l’Uomo senza Qualità di Musil) e ripetere in modo instancabile quanto riteniamo verosimile.
Lo dobbiamo alle Persone a noi affidate, lo dobbiamo alla fortuna di fare il lavoro più bello nel mondo (lo diceva il geniale Romolo Rossi),
Lo dobbiamo perché resistere (anche alla ipocrisia ) è la forza del tuo gruppo di lavoro.
Li ho visti in azione un tardo pomeriggio invernale nella REMS a PRA’ quando una Persona nello studio medico rivendicava urlando e minacciando il suo diritto al Delirio per 1 ora, con il mio timore di un atto improvviso verso una collega.
I colleghi erano presenti, attenti, pazienti, calmi, rispettosi e il paziente si è poi allontanato.
Curare la violenza a volte è meno difficile che curare l’ignoranza e l’ipocrisia.
A presto
Λακεδαίμων
Grazie Prof. per queste sue riflessioni!
Questo intervento sottolinea una serie di punti fondamentali: fra questi, la necessità di utile inserimento delle REMS nel territorio da servire, nonchè di comunicazione e condivisione fra la struttura abitativa e i Servizi di riferimento. Aggiungerei che questi non raramente si trovano in affanno, anche nel reperire personale quantitativamente e qualitativamente adeguato. Il problema delle REMS è il problema della assistenza psichiatrica.
In quest’ottica, ritengo poi essenziale che si sfumi la differenza concettuale e gestionale fra gli interventi rivolti all’autore di reato rispetto a chi non lo è. Un elemento favorevole in questo senso è l’esperienza maturata negli anni , nelle Comunità terapeutiche che da tempo ormai usano accogliere ospiti sottoposti a misure di sicurezza alternative a quelli che erano gli OPG.
Un ostacolo, di carattere apparentemente solo terminologico, è il vetusto concetto di pericolosità. Non che non sia lecito e utile chiedere all’esperto una previsione circa la probabilità c he atti contrari alla legge vengano reiterati; ma il termine “pericoloso” fa riferimento a una presunta qualità intrinseca al paziente, e induce a dimenticare che la probabilità di recidiva riconosce ovviamente una genesi multifattoriale. Per nulla raro, infatti, che al disturbo mentale si aggiunga una serie di elementi – difficoltà economiche, isolamento sociale, difficoltà familiari, differenze culturali ed etniche, condizione di immigrato – che si coagula in un giudizio di “pericolosità”. Puro problema terminologico, si dirà: ma le parole sono pietre, e questo termine contribuisce a far apparire gli autori di reato come una popolazione a sè, quasi, in senso antropologico, nel più vasto ambito dei sofferenti mentali: stigma nello stigma, discriminazione nella discriminazione che può favorire interventi discriminanti.
Aggiungo che mantiene il suo interesse, la proposta, sostenuta dall’On Corleone, di abolizione del concetto di non imputabilità (fra l’altro debole sul piano teorico): ma qualora essa dovesse concretarsi, la conseguente gestione sarebbe complicata: il “come” garantire al sofferente mentale autore di reato un trattamento individualizzato adeguato alla sua condizione resterebbe un terreno tutto da dissodare.