Mutazione sociale o estesa e confusa modificazione di costume?
La psicoanalisi nasce come grande narrazione moderna e tende a definire universalmente il mondo interno dell’uomo contemporaneo, indagando le trascrizioni individuali della realtà sociale.
Freud non vedeva alcuna antinomia tra la psicologia individuale e la psicologia sociale. Ricordiamo come una sorta di manifesto del suo pensiero le prime righe dell’introduzione di Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921): “La contrapposizione tra psicologia individuale e psicologia sociale delle masse, contrapposizione che a prima vista può sembrarci molto importante, perde, a una considerazione più attenta, gran parte della sua rigidità. La psicologia individuale verte sull’uomo singolo e mira a scoprire attraverso quali modalità egli persegua il soddisfacimento dei propri moti pulsionali; eppure solo raramente, in determinate condizioni eccezionali, la psicologia individuale riesce a prescindere dalle relazioni di tale singolo con altri individui. Nella vita psichica del singolo l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico, e pertanto, in quest’accezione più ampia, ma indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale è al tempo stesso, fin dall’inizio, psicologia sociale.” (p. 261).
Oggi però, rispetto ai tempi di Freud, almeno per alcuni psicoanalisti, non si tratta più di evocare delle semplici modificazioni del sociale e la loro incidenza sulla soggettività individuale. Essi descrivono – credo con troppa enfasi – una vera e propria mutazione sociale senza precedenti e gli effetti antropologici che essa sta producendo[1]. Tali effetti, secondo loro, spesso ci fanno sentire impotenti nella comprensione delle articolazioni da cui prendono origine i cambiamenti ai quali assistiamo. Per la psicoanalisi le conseguenze che possono derivare da queste descrizioni sono di segno opposto, ma ugualmente poco equilibrate.
Da una parte troviamo i conservatori (tra gli altri: Glass, 1993; Leary, 1994; Melman, 2002), coloro cioè che non ritengono che il sapere e la prassi analitica debbano scendere a patti con il nuovo, pena la loro decadenza oppure, in ogni caso, che le tradizionali categorie siano sufficienti ad interpretarlo perché in realtà si tratta di un nuovo solo apparente. Dall’altra ci sono i rivoluzionari (tra gli altri: Stern D. B., 1985; Chodorow, 1995; Hoffmann, 1998; Flax, 2000; Frosh, 2000;), coloro cioè che sostengono che bisogna pensare a categorie di pensiero completamente innovative, essendo le categorie analitiche tradizionali obsolete e inadeguate a descrivere le nuove soggettività.
In queste ultime prospettive psicoanalitiche sono venute meno la fiducia in una teoria capace di spiegazioni globali, la ricerca di motivazioni universali, insomma la possibilità di credere nel paradigma illuministico, nelle “grandi narrazioni”, nelle ideologie otto-novecentesche, tra le quali le opere create dai padri della psicoanalisi. Entrambe le posizioni appaiono difensivamente estremistiche e non fanno i conti con la complessità dei fenomeni che accompagnano i cambiamenti socio-culturali. “Nella storia, quella che scorre attorno a noi e dentro di noi, non ci sono né terremoti, né catastrofi. Esse sono soltanto nei nostri modelli interpretativi.” (Ceserani, 1998, p. 21).
Pur essendo la postmodernità percepibile come una trasformazione di straordinaria evidenza e intensità, essa è però accompagnata da fenomeni di ritardo, continuità, rifiuto ideologico e sentimentale anche violento, attaccamenti e nostalgie. D’altronde lo stesso Lyotard (1979), il filosofo che ha coniato il termine di postmoderinismo, ricorda che la postmodernità non è semplicemente un’epoca che temporalmente arriva dopo la modernità, ma che c’è un forte intreccio, una profonda continuità tra gli elementi del moderno e del postmoderno. La simultanea presenza di forme di moderno e postmoderno può permetterci di definire insieme a Bauman (1993) la postmodernità anche in termini di modernità senza illusioni, una sospensione nell’interregno tra il “non più” e il “non ancora” (In Bauman e Mauro, 2015), evitando drastiche ed inopportune cesure storiche.
Scrivono Ágnes Heller e Ferenc Fehér (1988): “La [postmodernità] si può intendere come quello spazio-tempo, privato-collettivo, all’interno dello spazio-tempo più ampio della modernità, delineato da coloro che, alla modernità, abbiano problemi o quesiti da porre, da chi abbia rimproveri da muoverle o ne elenchi, a un tempo, conquiste e dilemmi irrisolti. Chi elegga a propria dimora la postmodernità vivrà, in ogni caso, fra i moderni quanto fra i premoderni. Poiché alla base stessa della postmodernità vi è una visione del mondo come pluralità di spazi e temporalità eterogenee. La postmodernità può essere così definita soltanto all’interno di tale pluralità, rispetto a tali eterogenee alterità.” (p. 7).
La globalizzazione dell’economia, la presenza di Internet, i nuovi media, la compressione dello spazio e la modificazione del tempo, l’allontanamento delle persone dalla politica e la relativa acredine anti-istituzionale, la crescita dell’individualismo e dell’edonismo, la crisi dello stato assistenziale, l’aumento della violenza e al tempo stesso l’evitamento della conflittualità, la confusione identitaria e sessuale, il consumismo di massa, la tendenza a dissipare, l’insofferenza immobile e il risentimento apatico sono alcuni dei fenomeni che sembra stiano prendendo il sopravvento e che, penetrando nel nocciolo duro dell’esperienza psichica, tendono a ristrutturare le transazioni inconsce tra gli uomini attraverso nuove e spesso drammatiche modalità (Elliott e Spezzano, 2000).
Non credo, però, che la pur lunga elencazione di questi fenomeni che, insieme o separatamente, possono assumere caratteristiche cataclismatiche[2], sia sufficiente a pensarci in un tempo che ha perso le sue connessioni originarie con il passato.
Bauman (2000) sostiene che dovremmo piuttosto costruire le nostre riflessioni, adottando la funzione dell’erraticità. Rifiutando il termine postmodernismo e proponendo quello di modernità liquida, indica attraverso la metafora della liquidità e della fluidità la natura di questa nuova fase della storia umana, cioè l’epoca dello sradicamento senza riradicamento (Bauman e Tester, 2001), in cui riflessioni in progress hanno bisogno di un paziente e costante lavoro di interrogazione di una realtà evasiva e versatile e di come i singoli individualmente abitano e si posizionano in essa.
Scrive Bauman: “Ci viene in mente più una giostra che una maratona; la vita come una serie di giri, una sequenza di nuovi inizi, spesso i luoghi e gli ambienti slegati tra loro.” (2001, p. 95).
Elliott e Spezzano (2000) affermano che dobbiamo circumnavigare la molteplicità, il pluralismo e l’ambivalenza, se vogliamo ripensare la psicoanalisi nell’era postmoderna. La prospettiva postmoderna è per Elliott (2000) antitotalizzante, in quanto rivela che la generazione della conoscenza è singolare, localizzata e prospettica. Il postmodernismo vorrebbe spiazzare la certezza indiscutibile a favore di una dubbiosità discreta, di uno scetticismo non cinico, ma anzi ingenuo che tenta di scomporre e interpretare il mondo. Mentre questo aspetto evoca da un lato un senso di insicurezza, di incertezza delle cose e del domani, consegna dall’altro all’umanità stessa una maggiore possibilità e responsabilità di costruire il proprio destino.
Holt (2002) sottolinea, però, che, seppure il postmodernismo abbia contribuito a fare si che la psicoanalisi rivedesse i suoi aspetti dogmatici ed antiscientifici, bisogna stare in guardia da alcuni autori (quali Irwin Hoffmann e Donnel Stern) che, partendo dal postmodernismo, arrivano a una visione di radicale costruttivismo circa la teoria e il processo psicoanalitici e quindi ad esagerazioni molto dannose e controproducenti[3].
Soggettività inedita o riproposizione di un immutabile passato sotto nuove spoglie?
Ma stiamo realmente assistendo al costituirsi di una soggettività inedita che si crede liberata da ogni debito nei riguardi delle generazioni precedenti e a un soggetto che crede di poter fare tabula rasa del suo passato?
Freud amava molto la seguente citazione tratta dal Faust di Goethe: “Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo, se vuoi possederlo d’avvero”[4],che va accostata alle famose parole di Freud “Dove era l’Es, deve subentrare l’Io(Wo Es war, soll Ich werden).” (1932, p. 190).
Sia Goethe che Freud pongono l’accento sia sul riconoscimento del valore del passato, che sulle necessarie originali trasformazioni generazionali. Freud inoltre aggiunge: “È un’opera di civiltà” (Ibid., p. 190), a sottolineare eticamente il significato trasformativo, non solo a livello individuale, ma anche a livello sociale del lavoro analitico.
Bion (1963) si pone sulla stessa lunghezza d’onda, quando evidenzia la necessità “di realizzare l’ingenuità della visione, quando un problema è tanto sovraccarico di esperienza che i suoi contorni sono diventati confusi e le sue possibili soluzioni oscure. […] La capacità dell’analista di conservare la sostanza del suo training e della sua esperienza, e tuttavia di raggiungere una visione ingenua del suo lavoro, gli permette di scoprire da sé e a modo suo le verità scoperte dai suoi predecessori.” (p. 10).
Un aforisma del poeta René Char, tratto dalla raccolta Fogli d’Ipnos (1943-44): “La nostra eredità non è preceduta da alcun testamento” (p. 49), fa da epigrafe ideale al libro Tra passato e futuro (1961) di Hanna Arendt ed evidenzia il paradosso tipicamente moderno, definito dalla filosofa “il filo spezzato della tradizione”, per cui ogni generazione dimentica le motivazioni di quelle che l’hanno preceduta.
Thomas Eliot (1932) estende le annotazioni della Arendt alla letteratura: “Nella letteratura inglese – scrive – parliamo raramente di tradizione […]. Raramente la parola compare se non in frasi di riprovazione, altrimenti, quando essa contiene una vaga approvazione, è per l’implicazione, nei confronti di un’opera approvata, di una qualche piacevole ricostruzione archeologica […]. Ma se l’unica forma di tradizione, di eredità, consistesse nel seguire i passi della generazione immediatamente precedente in cieca o timida aderenza alle sue acquisizioni, la “tradizione” andrebbe attivamente scoraggiata […]. La tradizione è un argomento di significato ben più ampio. Non si eredita, e, volendola, si ottiene solo con grande sforzo. In primo luogo essa implica il senso storico […], e il senso storico implica la percezione del passato non solo trascorso, ma anche presente […]. Tale senso storico, senso sia di ciò che è senza tempo, come di ciò che è temporale insieme, è quel che rende uno scrittore “tradizionale”, e al tempo stesso lo rende acutamente consapevole della sua collocazione storica, della sua contemporaneità. […]. Nessun poeta, nessun artista di alcun genere sviluppa il suo pensiero in totale autonomia.” (pp. 3-4).
Scrive Simmel nel suo Diario postumo (1989): “So che morirò senza eredi spirituali (e va bene così). La mia eredità assomiglia a denaro in contanti, che viene diviso tra molti eredi, di cui ognuno investe la sua parte in modo conforme alla sua natura senza interessarsi dell’origine di quell’eredità.” (p. 3).
Il tema dell’eredità viene ripreso e arricchito attraverso un paradossale inno al passato da Derrida (2001), che scrive: “Occorre innanzitutto sapere e sapere riaffermare ciò che viene prima di noi – e che dunque ci troviamo a ricevere prima di poterlo scegliere – ma anche riuscire a comportarci nei confronti di ciò in modo non condizionato.” (p. 15).
E, rifacendosi a Hegel (1833), che scriveva: “La tradizione non è una massaia, che si limita a custodire fedelmente quel che ha ricevuto e a conservarlo e trasmetterlo immutato ai posteri. […] Non è una statua immobile, ma vive e rampolla come un fiume impetuoso che tanto più s’ingrossa quanto è più s’allontana dalla sua origine. […] E quest’ereditare è a un tempo un ricevere e un far fruttare l’eredità. […] In tal guisa ciò che si è ricevuto viene mutato, e la materia elaborata grazie appunto all’elaborazione s’arricchisce e al tempo stesso si conserva” (pp. 10 e sgg.), Derrida a sua volta dice: “Se il fatto di assumere un’eredità ci impone un compito contraddittorio – ricevere e, al contempo scegliere, accogliere ciò che ci precede ma al tempo stesso reinterpretarlo – è perché questa eredità è la testimonianza della nostra finitudine. Solo un essere finito può ereditare ed è la sua finitudine stessa che lo colloca in questa necessità, imponendogli di accogliere ciò che è più grande, più vecchio, più forte e più durevole di lui. E, ancora una volta, è la finitudine che lo obbliga a scegliere, a preferire, a sacrificare, a escludere, a tralasciare. E ciò proprio per poter rispondere all’appello che lo ha preceduto, per rispondervi e rispondere di esso – in suo nome e in nome dell’altro.” (2001, p. 17).
Agamben (2017) sottolinea che la tradizione è sempre già consapevolmente o inconsapevolmente alterata e corrotta.
C’è una frase di Bernardo di Chartres[5] che mi piace ricordare: “Nos sumus sicut nanus positus super humeros gigantis”, “Siamo come un nano seduto sulle spalle di un gigante. Vediamo quindi un numero di cose maggiore degli antichi, e più lontane. E non già perché la nostra vista sia più acuta, o la nostra statura più alta, bensì perché essi ci sostengono a mezz’aria e ci innalzano di tutta la loro gigantesca altezza.”
La contemporaneità trova un senso solo attraverso la comprensione e il riconoscimento delle sue ascendenze storiche.
Norman Elias (1987) ha evidenziato il liquefarsi degli apparati simbolici e delle strutture collettive della soggettività, che erano certamente un vincolo ma anche potenti organizzatori della vita pulsionale. Ma questa liquefazione, questa volatilità (Bauman, 2003), sono purtuttavia anticipatrici di nuove modalità organizzatorie, per quanto a loro volta ancora instabili, ambivalenti, transitorie, metamorfiche e, pertanto, ulteriormente superabili seppure con notevoli difficoltà, oppure rappresentano una volta per tutte l’impossibilità di definizione del soggetto in assenza di qualunque vincolo e schema di riferimento fisso?
Cercare di acquietare il senso di spaesamento, di volatilità e di precarietà dei progetti di vita di uomini e donne brandendo certezze del passato, novelli laudatores temporis acti,[6] come Orazio definiva i vecchi che non accettavano il nuovo del presente, e di conseguenza spiegare quello spaesamento facendo leva solo sui “sacri testi”, sulla forza della tradizione, è solo apparentemente rassicurante, mentre è sostanzialmente un’operazione antieconomica.
Erikson (1964) ha definito la fedeltà come “la capacità di restare coerenti con i principi liberamente scelti, nonostante le inevitabili contraddizioni dei sistemi di valore” (p. 128), ma il restare abbarbicati difensivamente a una visione del mondo superata, o perlomeno non calibrata con la complessità socioculturale a cui dovrebbe far riferimento, non ha a che vedere con la fedeltà, ma con l’accettazione acriticamente fideistica dell’ortodossia e porta ad ululare con i lupi (Freud, 1921).
Gaburri e Ambrosiano (2003) sostengono la necessità che l’analista si metta costantemente in discussione e accetti di coinvolgersi anche sul piano personale. I due autori assumono l‘esperienza del lutto come fondante i processi di separazione dai primi oggetti. La separazione ci mette di fronte al terrore della caducità, e il gruppo è lo spazio in cui si organizzano i modi di elaborarla. Ma dal gruppo il soggetto deve poi emanciparsi, pur mantenendo una disponibilità a lasciarsi impregnare dalla cultura dominante. La funzione di rêverie viene da loro intesa come un’apertura intermittente della mente al “contagio” da parte dell’altro. Una carenza di rêverie è alla base sia del conformismo come identificazione al gruppo (conformismo sociale), sia del conformismo in analisi (l’adesione acritica alle idee dei maestri o dell’istituzione psicoanalitica). Gli autori parlano poi di “ideologie-rifugio”, nel momento in cui anche gli orientamenti più pregnanti (ambientalismo, femminismo, pacifismo) vengono assunti come “tane” in cui trovare scampo dalla paura di sentire e di pensare.
Scrive Agamben (2008): “Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò in questo senso, inattuale; ma proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo […]. La contemporaneità è quella relazione col tempo che aderisce ad esso attraverso una sfasatura e un anacronismo.” (pp. 8-9).
Scrive Pontalis (1997): “La psicoanalisi non è, non può essere, del suo tempo. Essa è non di un altro tempo, ma di un tempo altro. È anacronistica o, meglio, secondo Nietzsche[7], intempestiva. Essa è, dovrebbe essere indifferente all’aria del tempo.” (p. 17).
Balsamo (2014) sottolinea che: “Riconoscere un’esperienza può avvenire solo nell’ascolto di ciò che insiste in essa al di là del tempo in cui questa si realizza, nell’accoglimento di quanto vi soggiace, e nella costruzione del nuovo, del mai accaduto, nella creazione dell’inatteso, che come l’attuale, non è scritto nel presente sebbene solo da esso può derivarne.” (p. 4).
Dobbiamo evitare che, come gli eroi di certi racconti di fantascienza, gli analisti vivano e propongano di vivere in spazi laterali e paralleli, contigui a quelli della storia e della vita, ma invisibili e inaccessibili. Bisogna porre attenzione a non contrapporre al tempo e allo spazio globalizzati un nostalgico e lento tempo passato, un’improbabile ricerca del tempo perduto, non riproponibile tout court ai giorni nostri. Una sterile contrapposizione simile la troviamo nelle dispute di football fra sostenitori di un gioco basato sulla tecnica individuale e la genialità ma lento, e sostenitori di un gioco basato sulla muscolarità, la potenza atletica e la velocità, ma senza fantasia.
“Nell’organizzazione dell’apparato psichico le tracce delle esperienze sopravvivono, creando un dislivello temporale, una combinazione di tempi diversi, passato presente e futuro sovrapposti e decentrati. Le esperienze più antiche vengono dopo quelle meno antiche; l’affetto legato a un nuovo rapporto attinge direttamente a una relazione dell’infanzia. Un lavoro incessante di ritrascrizione e traduzione.” (Preta, 2006, p. 19).
È stato sottolineato che il pensiero postmoderno è caratterizzato dalla notevole attenzione volta al soggetto e alla soggettività (Flax, 1996); Per Mitchell (1988) si è determinato in psicoanalisi il passaggio dall’uomo pulsionale all’uomo generatore di significato, dalla sessualità infantile al recupero e alla rivitalizzazione del Sé autentico, che aspira alla creazione del significato personale. L’attenzione al soggetto e alla soggettività ha sfidato e reso problematici molti assunti delle teorie psicoanalitiche, quali ad esempio l’esistenza di modelli evolutivi, la sessualità, l’identità e la pratica psicoanalitica stessa con i suoi concetti di neutralità, astinenza, ecc. In quest’ottica, data la complessità e la storicità della soggettività, è stata messa in discussione la ricerca di una metapsicologia universalistica che possa organizzare tutte le teorie e che comprenda tutte le soggettività (Capozzi, 2003).
Se si guarda alle teorie psicoanalitiche attuali, si osservano una poliedricità e una varietà di modelli, concetti e terminologie che fanno dubitare se si possa parlare di “una” o “più” psicoanalisi, tra loro diverse (Wallerstein, 1988). Wallerstein (1990), pur prendendo atto della netta diversità delle teorie psicoanalitiche attuali, esorta a ritrovare un common ground, un comune denominatore. D’altronde Freud stesso aveva evitato di riorganizzare a posteriori le disuguaglianze di sviluppo del suo pensiero, la sua incompiutezza scientifica.
Nella sua Autobiografia (1924), Freud ribadì che il modello teorico, da lui descritto negli studi di metapsicologia, avrebbe potuto essere sostituito senza recare alcun danno alla disciplina. Ancora nel suo postumo Compendio di psicoanalisi del 1938 evitò di riconcettualizzare e ricontestualizzare in modo sistematico le posizioni iniziali alla luce delle revisioni concettuali successive (Wallerstein, 1997).
Pontalis (1997) scrive: “Che l’edificio da essa stessa [la psicoanalisi] costruito, rimaneggiandolo, aggiungendo una stanza qui, abbattendo un muro là, senza tuttavia toccarne le fondamenta […], che questo edificio debba rimanere incompiuto, lacunoso, non è forse questo che viene misconosciuto quando la passione teorica è confusa con lo spirito del sistema? Una teoria psicoanalitica che pretendesse di essere sufficiente a se stessa […] sarebbe per sua natura inadeguata al suo oggetto.” (pp. 106-107).
Barande (1981) sottolinea il valore delle incertezze e delle contraddizioni del pensiero di Freud: “Di un pensiero apprezzo i meandri, la palpitazione, addirittura la capacità di contraddirsi e ancora di più apprezzo che la sua tempra abbia permesso a Freud di sopportare fino alla fine, fino ad un’età così avanzata, un’incertezza tanto esplicita quanto implicita, capace di estenuarlo.” (p. 453).
Commenta Ricci (1987): “La città della psicoanalisi non garantisce una volta per tutte una cittadinanza. È come una frontiera aperta, un ponte che permette passaggi e scambi, un approdo che richiede altre imprese, un’audacia che si confronta con l’incommensurabile.” (p. 189).
Quella che potrebbe essere definita una nuova economia psichica, per usare un termine caro a Joyce McDougall (1978), basata sulla ricerca sempre e comunque del piacere e sulla sua esibizione, sembrava essere presente in fenomeni sociali significativi, ampi, ma in ogni caso di frangia, sotto forma di rivolte – ricordo lo slogan della contestazione studentesca del 1968: “Siamo realisti, chiediamo l’impossibile”, o di marginalità, quale l’uso di droghe nelle comunità hippy – mentre oggi la si ritrova in fenomeni sociali largamente prevalenti con una generalizzata modificazione della mentalità collettiva.
Lo psicoanalista lacaniano Charles Melman (2002) sostiene che si è passati da una cultura fondata sulla rappresentazione, che si basa sull’evocazione dell’oggetto desiderato, a una cultura della presentazione, che consiste nell’appropriarsi automaticamente e istantaneamente senza mediazioni dell’oggetto stesso. In altre parole, da una cultura basata sulla rimozione dei desideri, e quindi sulla nevrosi, a un’altra che raccomanda la loro libera espressione e soddisfazione e promuove in tal guisa la perversione. Il benessere psichico, la salute mentale sembrano essere non tanto in armonia con l’Ideale, quanto con un oggetto di soddisfazione.
L’analista e musicologo Michel Schneider (2002) in più, fa riferimento in qualche modo (è un mio accostamento) al concetto di desublimazione repressiva espresso da Marcuse in Obsolescenza della psicoanalisi (1963) e da Reiche in Sessualità e lotta di classe (1968), usato per descrivere una sessualità reificata, desensualizzata, in cui i soggetti diventano semplici oggetti delle loro reciproche pretese di prestazione nella logica di una permissività che nella società tardo-capitalistica viene a sostituire la vecchia morale sessuofobica. Questa società estende non la libertà individuale, ma il proprio controllo sull’individuo e afferma che il contratto, inteso come accordo privato al di fuori delle norme riconoscibili come pubblicamente condivise, “costituisce un meccanismo essenziale del funzionamento perverso. Tutto quanto deistituzionalizza, cioè deregolamenta pratiche simboliche per farle entrare nella sfera contrattuale, rischia di contribuire a rinforzare i meccanismi sociali perversi.” (Schneider, 2002, p. 213).
L’autore francese evidenzia l’utilità sociale di far rientrare sotto il dominio della legge disposizioni rilevanti della sfera privata, oggi soggette a una crescente contrattualizzazione.
Ho la sensazione che tutte queste affermazioni vadano prese con le pinze, in quanto, pur contenendo elementi di verità, portano, se generalizzate e assolutizzate, a posizioni reazionarie e conservatrici, che oscillando tra idealizzazione e denigrazione, rimandano nostalgicamente a un passato con dei limiti precisi e, quindi, in ogni caso con potenzialità organizzatorie definite, in opposizione a un mondo attuale senza alcuna possibilità di delimitazione e, pertanto, così sconclusionato e disincantato da diventare psicoanaliticamente inabbordabile (Lebrun, 1997).
La maggiore contrattualizzazione nella società attuale ha a che vedere anche con la sottrazione di una quota di elementi della sfera privata a una serie di norme pervase da forme di controllo impersonali, figlie di un’invasiva rigidità burocratico-normativa, che nel tempo sono diventate astoriche e, quindi, incapaci di interpretare dinamicamente ed evolutivamente i bisogni e la loro espressione. Certamente non tutto può essere demandato al libero mercato con effetti di deregulation economico-politica, ma anche etica (Schinaia, 2019), che rischia di far prevalere la legge del più forte; anche in questo caso, però, bisogna salvaguardare l’oscillazione legge-contratto, che permette di dinamizzare e proteggere contemporaneamente i legami sociali.
Per Bauman (2003): “L’appartenenza e l’identità non sono scolpite nella roccia, non sono assicurate da una garanzia a vita e sono in larga misura negoziabili e revocabili.” (p. 6).
Per Elliott (2000): “La postmodernità si caratterizza come cultura dell’immaginazione senza illusioni, come spazio culturale che ammette le forme provvisorie e contingenti delle strutture immaginarie.” (p. 142).
Il messaggio consiste quindi nella necessità, quando si deve dare ascolto alle nuove organizzazioni psicopatologiche, di dotarsi di una buona dose di flessibilità e cautela nell’uso dell’ottica strutturale, che enfatizza la differenza strutturale tra nevrosi, perversioni e psicosi in base alle specifiche difese in esse operanti.
Tra teoria e assenza di teoria: l’analista bricoleur.
In altri termini, faccio miei gli interrogativi posti da Ceserani (1998) e Barale (2003):
Scrive il primo: “Può la psicoanalisi continuare a usare i suoi strumenti interpretativi e a praticare i suoi obiettivi di decifrazione, ricostruzione, reintegrazione nella vita di relazione di un soggetto che vive in questa nuova condizione? Detto altrimenti: è possibile che gli strumenti di analisi creati, messi a punto e affinati per operare in una determinata situazione storico-sociale, vengano applicati a una situazione storico-sociale radicalmente diversa?” (p. 23).
Per il secondo: “Si sta passando da un soggetto che si interroga su se stesso (Edipo), sulla propria identità, magari riconoscendo la propria eterogeneità ed eterocronia [aggiungo il termine eccentricità], la propria incompiutezza e apertura, il reticolo conflittuale di spinte, rapporti, differenze, desideri ed eredità, consce ed inconsce, grandi e piccole, che lo costituiscono in una circolazione dialettica mai finita, ma che può comunque avventurarsi in questa ricerca perché sorretto da potenti organizzatori psicosociali a un soggetto caratterizzato da un nomadismo ben più radicale, dal disperdersi delle soggettività nei flussi mutevoli che le attraversano, non più organizzato da strutture simboliche forti?” (pp. 20-21).
Chianese (2005), utilizzando il termine di “operatore”, mutuato da Assoun (1993), che critica la spiegazione causale delle motivazioni inconsce di matrice freudiana, si chiede se la nevrosi resti un “modello”, un “operatore” adeguato a rappresentare la forma collettiva contemporanea del disagio, o “operatori” più adeguati sarebbero la perversione, gli stati borderline, gli stati melanconici; ma poi si chiede anche se non sia un dovere terapeutico, etico e culturale dello psicoanalista prendere atto e comprendere quanto sia mutato quel “campo di gravitazione” nel quale si definiscono e si collocano le relazioni tra curato, curante e mondo.
Kaës (2005) definisce “garanti metapsichici”: “Le formazioni ed i processi dell’ambiente psichico su cui si basa e si struttura la psiche del soggetto. Essi consistono essenzialmente nelle interdizioni fondamentali e nei contratti intersoggettivi che contengono i principi organizzatori della strutturazione dello psichismo, Essi formano, pertanto, la cornice e lo sfondo di quest’ultimo.” (p. 59).
Quando vengono a mancare o vacillano i garanti metapsichici e metasociali usuali, le grandi strutture di inquadramento e regolazione delle formazioni e del processo sociale: miti e ideologie, credenze e religione, autorità e gerarchia, la soggettività diventa gravemente instabile.
Un interrogativo serve ad avvicinarsi alla complessità del quadro, magari stressando dialetticamente i corni del problema, mentre un’affermazione netta rende la realtà leggibile in modo unidirezionale, evitando l’incontro-scontro con quanto non rientra nello schema interpretativo adottato. Le trasformazioni dei costumi sessuali sono, per esempio, esageratamente descritte come mutazione epocale e questo modo di definire la realtà sociale rischia di essere prefigurante la realtà che si vuole analizzare, togliendo ogni possibilità di approfondimento critico nell’osservazione di un fenomeno estremamente complesso e a più strati.
Per Freud il nostro rapporto con il mondo e con noi stessi è sostenuto non da un oggetto, ma dalla mancanza di un oggetto, e non un oggetto qualunque ma un oggetto caro, essenziale, come per esempio la madre nella configurazione edipica. è specificamente la perdita dell’oggetto che permette alla specie umana di accedere a salde modalità di rappresentazione.
Ma è proprio vero che oggi ci avviamo, nella mediaticità totale, verso una società non solo senza padre (la crisi dell’autorità e la costituzione di un volontario fascismo strisciante sostitutivo), ma anche senza lutto (crocevia di ogni introiezione, assunzione di identità e accettazione di differenze)? (Barale, 2003).
Il progresso andrebbe inteso come la presa d’atto che il cielo è vuoto tanto di Dio[8], quanto di ideologie, promesse, riferimenti, prescrizioni, e che gli individui tendono a determinarsi da soli, individualmente e collettivamente. Il progresso in questa accezione, se da un lato aumenta l’esercizio della libertà di fluttuare senza intralci, senza essere fissati indelebilmente e senza possibilità di ripensamento, dall’altro porta con sé il prezzo della necessità maniacale di soddisfazione dei desideri sempre e comunque, del tacito proposito di mettere a coltura intensiva il presente, di farlo fruttificare rapidamente (Bodei, 2001), dell’assenza del differimento del piacere e della continua presenza dell’oggetto soddisfacente. Se la soddisfazione manca o non è all’altezza del desiderio, vi è scandalo, deficit, danno. La legislazione tende a modificarsi in rapporto all’emergere di bisogni sempre nuovi e sempre richiedenti l’immediato soddisfacimento; bisogni che diventano legittimo diritto a una soddisfazione perfetta e completa, ma che, come contropartita, autorizzano al controllo, attraverso la loro patologizzazione.
Il progresso è sempre consistito nel riposizionare i limiti della scienza e, in modo abbastanza sincrono, i divieti della morale; ma oggi questo processo di sincronizzazione sembra essere in crisi, perché i limiti sembrano inconsistenti, effimeri, e fanno il paio con identità, soggettività labili. L’eccesso diventa tendenza, facendo riferimento più che a una trasgressione a una prescrizione: la prescrizione dell’eccesso in quanto tale, per cui l’eccezione viene trasferita nell’abitudine, lo scarto nella norma, “la trasgressione prevede che esistano connessioni da tagliare, norme da infrangere, identità forti da abbattere, mentre l’indifferenziato non può essere trasgredito.” (Vegetti Finzi, 2001, p. 67).
La mutazione alla quale si dice di assistere, si manifesterebbe, inoltre, attraverso l’esibizione impudica dell’oggetto, la cui continua, consumistica presenza impedisce la costituzione della dimensione della perdita. La perversione, attraverso la pubblicità e i mass media, rischia di diventare norma sociale e, in quanto tale, principio delle relazioni sociali, per cui vengono ad essere in aumento i fenomeni “usa e getta”, quando un corpo viene stimato insufficiente, quando un partner viene valutato non all’altezza. Alla qualità delle relazioni, avvertita come scarsa e, in ogni caso, deteriorabile in fretta, si sostituisce la quantità, la loro moltiplicazione e accumulazione. Tale supposta mutazione viene esaltata dalla cultura postmoderna come imposizione dell’inorganico, di un universo affettivo impersonale, caratterizzato da un’esperienza anonima e reificata.
Il filosofo Mario Perniola (2003), a proposito della rimozione e della rappresentabilità del corpo nella cultura odierna, dice: “Musica rock e architettura decostruttiva, fantascienza e realtà virtuale, droga e look, cyberpunk e splatterpunk, installazioni artistiche e metaletteratura, performance sportive e teatrali, sport estremi e sessualità perversa sono tutti fenomeni riconducibili non al corpo come vivente e vibrante, ma al corpo come cosa […], in opposizione al vitalismo spiritualistico, alla celebrazione del mito, della creazione, della spontaneità, dell’autenticità soggettiva.” (p. 134).
Ma si tratta di una mutazione sociologica, oppure di un esteso cambiamento di costume che ha avuto una presa particolarmente duratura in quanto è stato amplificato dai mass media e dalla pubblicità, che hanno bisogno di proporre continuamente merce da consumare, ma che non può essere considerato stabile e definitivo?
Amalia Giuffrida (2006) si chiede se i cambiamenti culturali e di costume possano comportare un rimaneggiamento delle configurazioni fantasmatiche inconsce a noi note e se gli organizzatori classici della psicosessualità possano avere perso o mutato la loro funzione nella creazione del serbatoio immaginifico che fino ad oggi ha caratterizzato la nostra civiltà, oppure se i mutamenti dello stile di vita della collettività non siano essi imputabili a una diversa mitopoiesi scaturita dalle trasformazioni successive dei miti originari per una sorta di circuito di feedback con il tessuto sociale.
Di Chiara (1998, p. 4) propone di distinguere nettamente “’Il disagio della civiltà’ proposto da Freud (1929), in relazione all’impatto dell’individuo con una conflittualità insuperabile che lo aspetta comunque nella vita sociale, dalle ‘sindromi psicosociali’”, considerando queste ultime come delle eventualità sociali altamente patologiche, in cui predominano fenomeni difensivi che confluiscono e si manifestano in comportamenti di grandi gruppi che arrecano, nonostante le apparenze di utilità, disagi gravi e sofferenza e che, per questo motivo, hanno caratteri simili alle perversioni.
Dobbiamo porre molta attenzione nell’osservazione di modificazioni di costume tanto intense quanto confuse, di vettori di cambiamento che velocemente modificano la loro traiettoria, dando il giusto valore a comportamenti sociali segnale che onnipotentemente negano tanto l’appartenenza quanto la mancanza, ma evitando di trarre conclusioni catastrofiche del tipo “tutto è cambiato” o, per converso, conclusioni consolatorie del tipo “sostanzialmente nulla è cambiato”. Bisognerebbe cercare quindi di restare bionianamente in oscillazione tra continuità e discontinuità. abbandonando memoria e desiderio e avendo fede nella risposta creativa del proprio inconscio, senza cercare una redenzione o almeno una tregua in un sogno di appartenenza, oppure ricercando senza requie inesplorate e non sperimentate identità, così allettanti e a portata di mano, ognuna delle quali offre benefici eccitanti perché inconsueti, e promettenti perché non ancora screditati (Bauman, 2003).
Allo psicoanalista compete accettare la sfida messa in atto da una società apparentemente sempre più privata dei suoi riferimenti tradizionali e alla ricerca compensatoria di punti di repere che sostituiscano quelli avvertiti come obsoleti e consunti. Francesco Barale (2003) giustamente sostiene che gli psicoanalisti dovrebbero evitare di reagire alla turbolenza con posizioni fondamentaliste, implicitamente normative, o identificando assolutisticamente la dimensione fantasmatica con certe sue forme storiche.
Petrella e Berlincioni (2002) ribadiscono invece con forza che nella terapia bisogna in ogni caso far risorgere l’Edipo, perché non riconoscono nuove realtà pulsionali e relazionali che siano alternative alla sua ripresa: “La grande narrazione edipica, con il suo potenziale emancipativo, lascia il posto ad altre formazioni proliferanti, a micronarrazioni locali, a oggetti parziali frammentari e all’iconografia relativa.” (2004, p. 372).
Anche Green (2002) si oppone a quella che definisce “pragmatica del sapere narrativo”, in quanto “l’associazione libera rompe il racconto.” (p. 331) [9].
Scrivono però Gabbard e Westen (2004): “Si è sviluppata una maggiore flessibilità nella pratica psicoanalitica e un riconoscimento dell’inevitabilità – e del valore – del processo di negoziazione che avviene in ogni diade analitica.” (p. 117).
Se, però, Greenberg (1995) sostiene che il modello e le “regole” vengono variate a seconda della natura specifica delle soggettività di analista e paziente, Gabbard e Westen (2004) puntualizzano che l’assunzione di un atteggiamento duttile non vuole dire che qualsiasi cosa vada bene nell’ora analitica.
La complessità e l’eterogeneità del soggetto, capisaldi del pensiero postmoderno, non dovrebbero portare all’indeterminatezza e al relativismo assoluto. L’analista dovrebbe accettare la sofferenza di stare nel guado e pensarsi come un bricoleur, bravo a costruire con quanto ha a disposizione in termini di differenti teorie che possono essere variamente calibrate anche attraverso originali modalità di sperimentazione che, pur partendo da paesaggi familiari, possano aprire nuovi percorsi conoscitivi e relazionali. Un bricoleur che faccia riferimento a un concetto polifonico di identità, all’identità come a qualcosa di nomade, in ogni caso ben più nomade rispetto al passato, e all’interno di reticoli circolari che vengono rappresentati in forme espressive deboli, cangianti, variegate. Identità transitorie, propedeutiche forse a future stabili identità, ma autentiche e autenticate anche dalla consensualità relazionale, pensate come da costruire nella relazione analitica con i materiali a disposizione, piuttosto che entità originarie da scoprire.
Anche Ruth Stein parla di bricolage, intendendo la possibile combinazione di diverse teorie psicoanalitiche nel lavoro clinico. Per lei avere a disposizione un kit di attrezzi di lavoro permette di assemblare fra loro parti di teorie differenti in un buon contesto metateorico.
La psicoanalista americana (1995) scrive: “Un buon equipaggiamento è utile al bricoleur [Lévi-Strauss (1985) usava la metafora di un artigiano come il vasaio per descrivere le modalità moderne di sistemare la conoscenza], e le teorie vanno usate coma attrezzi del mestiere, come dice Wittgenstein (1953). Più attrezzi fanno parte dell’equipaggiamento teorico dell’analista, più senso avrà il paziente per lui, più vocabolari ed immagini si costruiranno con lui, più diversificati saranno gli affetti che si proveranno con lui, attraverso processi di combinazione intuitiva, di spostamento concettuale, nonché veri e propri processi di addizione e sottrazione.” (p. 302).
La conoscenza è costruita, non scoperta; è contestuale, non fondazionale (Elliott, 2000).
Fred Pine (1989, 1990a, 1990b, 2001) ha riflettuto sul modo in cui è possibile tenere insieme più modelli teorici in psicoanalisi, prendendo le distanze dalle “grandi teorie” onnicomprensive. Egli sostiene la necessità di fare riferimento alla teoria delle pulsioni, alla Psicologia dell’Io, alla teoria delle relazioni oggettuali e alla Psicologia del Sé, oscillando da un modello all’altro, a seconda dei vari momenti e delle varie situazioni cliniche. Migone (2004), commentando i suoi lavori, riconosce l’importanza della coesistenza di più modelli e indirizzi teorici, ma critica la sua impostazione, che risente eccessivamente dell’influenza dell’ermeneutica e del costruttivismo radicale.
Lo psicoanalista oggi si trova di fronte “un soggetto debole e sfuggente, che ha molto meno profondità e spessore, che sembra quasi appiattito sulla sua superficie, che diventa per lui un sottile specchio in cui si contempla come Narciso; è immesso in una rete di esperienze e percezioni veloci e multiformi, anch’esse deboli e passeggere.” (Ceserani, 2001, p. 178).
Nancy Chodorow (1995), nel commentare un caso clinico di transessualismo descritto da Ruth Stein (1995a), definisce una trappola epistemologica di stampo difensivo il ricorso alle categorie convenzionali del pensiero psicoanalitico per descrivere le nuove prospettive riguardanti le complessità e le molteplicità del genere sessuale. E’ più facile avere un set di teorie di riferimento, dice Chodorow, su cui poggiare ciò che ascoltiamo, che il restare in quell’incertezza che Loewenthal e Snell (2003) definiscono un atto di umiltà che può essere un potente motore terapeutico, una sfida all’onnipotenza tanto nel paziente che nel terapeuta.
Stein (1995), rispondendo altrettanto polemicamente a Chodorow, ritiene che bisogna avere una doppia posizione che permetta di contenere ed abbracciare una relazione dialettica tra la (meta)teoria culturale e l’esperienza analitica immediata. Per Ruth Stein, le teorie cliniche particolari e quelle culturali generali vanno tenute insieme anche se in modo conflittuale e contraddittorio. Il bisogno di dare senso, di costruire narrazioni coerenti, di mettere insieme spiegazioni emotive plausibili dovrebbe stare in tensione con le procedure decostruttive del pensiero contemporaneo.
Scrive Stein: “I pazienti hanno bisogno di coerenza, non solo di pluralità, di unità […] e non solo di disseminazione, di costruzione e definizione del Sé come un’entità, qualcosa che al mio paziente dolorosamente manca. […] Una persona che presenta una personalità borderline, o un sé frammentato o non coeso, oppure è in posizione schizoparanoide, ha bisogno di centrarsi, costruirsi, generalizzarsi (attraverso l’analisi ovviamente). Non si può trattare un analizzando come si tratta ‘il soggetto’ in alcune teorie contemporanee, come un’illusione, come una finzione, come soltanto il prodotto artificiale della cultura o del linguaggio.” (p. 304).
Secondo Ceserani (1998): “Gli strumenti interpretativi della psicoanalisi costituiscono «un modello euristico forte, ma anche molto flessibile, come è dimostrato sia dalle esperienze del maestro viennese, che ha proceduto continuamente per ripensamenti, revisioni, aggiunte, sia, paradossalmente, dalla storia tumultuosa e spesso rissosa delle scuole psicoanalitiche che si sono scontrate per anni e decenni proprio sui problemi del mantenimento ortodosso del modello o delle tante proposte di revisione.” (p. 23).
Per Di Chiara (1998) la psicoanalisi, nella crisi della modernità, mantiene una posizione di razionalismo rafforzato dalla consapevolezza dell’irrazionale e del suo peso. Il cambiamento dei modi di essere contemporanei (cambiamento delle istanze, e in particolare del Super-Io, e la perdita frequente dei limiti nell’organizzazione soggettiva), lo Zeitgeist, lo spirito del tempo della contemporaneità ci confronta con una realtà clinica che non ci è del tutto familiare rispetto alla formazione ricevuta (Bolognini, 2003), che quindi va continuamente aggiornata e vivificata.
Scrive Israël (1994): “Le regole, qualunque esse siano, devono potere essere rimesse in discussione e, nella nostra disciplina, essere sottoposte a un lavoro di rielaborazione tanto congiunturale quanto teorico per non correre il rischio di essere feticizzate e perdere tutto il loro senso vivente.” (p. 33).
La risposta pertanto non può essere né la rigida difesa delle regole originarie, tramutate in leggi universali, all’insegna della feticizzazione, dell’ossessivizzazione burocratica, né la dissoluzione della propria identità nell’assenza di ogni valore ordinatorio.
Se si mettono da parte le posizioni teoriche che negano qualunque valore alle teorie postmoderniste e a una loro possibile relazione con la psicoanalisi, la disamina delle posizioni che potrebbero essere definite aperturiste evidenzia l’esigenza di un confronto e di una coesistenza delle differenti teorie psicoanalitiche. L’ambiguità che caratterizza il postmoderno non è soltanto un pericolo, ma è anche un’opportunità (Elliott, 2000).
Fachinelli parla di “una psicoanalisi della domanda, dell’interrogazione, contrapposta a quella della risposta.” (p. 32).
Mi sembra utile sottolineare la necessità di fare riferimento a diversi indirizzi, alla pluralità e alla complessità dei nostri orizzonti attuali in continua e produttiva evoluzione, per andare a una loro utilizzabilità in un buon contesto metateorico e metterli a confronto con l’esperienza clinica che scompagina e ricompone continuamente gli assetti teorici. Il continuo ripensare e ricalibrare la propria tecnica, aiuta ad alleggerirla delle microillusioni di onnipotenza euristica e introduce feconde problematizzazioni sull’angolatura che si tende in genere a adottare.
Scrivono Rinaldi e Stanzione (2012): “[La flessibilità e la cautela son utili] soprattutto per permettere un’ampia libertà espressiva del transfert dell’analista verso il paziente in una clinica che convoca in massima parte il piano transfero-controtransferale come strumento di ricezione e, in qualche misura, di azione verso un inconscio prevalentemente non rimosso e quindi non accessibile alla traduzione.” (p. 6).
Ovviamente non si tratta di un generico eclettismo teorico-clinico, né di fare facili concessioni all’ermeneutica e al costruttivismo radicale, né tantomeno di propugnare una sorta di intuitività onnipotente, né ancora di non riflettere sulla relativa compatibilità e incompatibilità dei differenti modelli teorici, quanto di riferirsi a una teorizzazione che sia contemporaneamente rigorosa e liberamente fluttuante, viva, elasticamente transitiva, fatta di continuità ed embricazioni tra differenti modelli, ma anche di rotture e disarticolazioni (Schinaia, 2006).
Scrive Stefano Bolognini (2010): “In questi anni mi sono messo in viaggio, come molti altri colleghi italiani. Insieme abbiamo visitato i mercati, i villaggi, i ‘santuari’, le case (e talvolta anche i castelli fortificati […] di altre famiglie psicoanalitiche […]. Ho potuto constatare che [degli] psicoanalisti italiani […] piace, in generale, l’attitudine aperta, dialogante e non rigidamente scolastica o superegoica della nostra cultura analitica, frutto consapevole di una tradizione di ascolto e di studio […] interessata alla nostra disciplina su scala mondiale.” (p. 610).
L’entità e le modalità di tale confronto, in rapporto anche ai cambiamenti socioculturali, sono però assai dissimili tra loro e diventeranno sempre più oggetto di riflessione e di approfondimento da parte degli analisti che dovranno confrontarsi con nuove modalità espressive della sofferenza mentale.
Scrive Money-Kyrle (1931): “Se vogliamo vivere per sempre dobbiamo continuare ad adattare noi stessi al nostro ambiente e il nostro ambiente a noi stessi e dobbiamo inoltre prevedere e anticipare gli adattamenti che un giorno saranno necessari.” (pp. 150-51).
Quest’affermazione è al tempo stesso un elogio della duttilità e del rigore che mi sembra possa valere per la psicoanalisi e per gli psicoanalisti aperti a una visione prospettica e creativa a tempi della postmodernità.
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[1] Pasolini fu il primo a parlare di mutazione antropologica in due articoli del 1974 comparsi sul Corriere della Sera e pubblicati postumi nel 1976 in Lettere luterane.
[2] Paul Virilio sostiene che oggi non è più possibile distinguere nettamente tra le catastrofi naturali e quelle industriali, cioè causate dal progresso tecnologico, e scrive: “Con il ventunesimo secolo siamo entrati nell’era della “catastrofe integrale”, quella che in qualche modo colpisce il mondo intero. Nel caso dello tsunami l’avvenimento ha assunto una dimensione globale perché ha colpito molti turisti; nel caso del World Trade Center ci sono state subito delle conseguenze drammatiche per l’economia mondiale. In entrambi i casi, entra in gioco la copertura globale da parte dei mezzi di informazione: il mondo intero è stato inondato in tempo reale da immagini catastrofiche. Da un capo all’altro del pianeta sono riecheggiate emozioni mai conosciute prima.” (2005, p. 28)
[3] Per una critica al postmodernismo, vedi anche Eagle, 2000; Frie, 2004; Schinaia, 2005.
[4] Was du ererbt von deinen Vätern hast, erwirb es, um es zu besitzen, Faust, parte prima, scena della Notte. Citata in “Totem e tabù” (1912-1913, p. 161), in “Introduzione alla psicoanalisi” (1915-1917, p. 510) e nell’ultima pagina del “Compendio di psicoanalisi”(1938, p. 634), testo rimasto incompiuto e la cui stesura era cominciata durante l’esilio londinese.
[5] Frase menzionata nel Metalogicon, III, 4di Giovanni di Salisbury e da lui associata a Bernardo di Chartres (XII secolo).
[6] Laudator temporis acti (Orazio, Ars poetica, 173) (Chi loda e rimpiange il passato).
[7] Friedrich Nietzsche, (1873-1976). Considerazioni inattuali.
[8] L’annuncio della morte di Dio è stato formulato per la prima volta da Nietzsche in La gaia scienza, dove il discorso dell’uomo folle segna la fine di un’epoca, anzi la fine della «storia»: epoca e storia concepite come l’insieme delle esperienze umane dotate di un senso ultimo intelligibile. Lacan ha aggiunto che il problema non sta tanto nel fatto che Dio sia morto, quanto che lui stesso non lo sappia, nel senso che non è mai stato altro che il desiderio di delegare all’Altro la responsabilità delle scelte personali, per evitare di fare i conti con Il carattere infinito del desiderio, che porta con sé irrimediabilmente la mancanza.
[9] Eagle (2000) giudica insostenibili le posizioni di quattro autori contemporanei (Mitchell, Renik, Schafer e Spence) che con diverse modalità e differenti stili incrociano il postmodernismo. Queste posizioni vengono definite “nuovo paradigma” e non costituiscono per lui una base adeguata sulla quale costruire una comprensione della situazione analitica, una comprensione della mente del paziente, nonché il futuro sviluppo della teoria psicoanalitica.